Aldo Schiavone
PARLIAMO DI… RESPONSABILITA’
PSICHE INCONTRA ALDO SCHIAVONE
“Storici e storia. Raccontare, capire, cambiare”, di Aldo Schiavone,
in “Responsabilità”, numero 1/2021 della rivista Psiche
a cura di Anatolia Salone
“Le società dell’Occidente stanno mettendo a rischio, come mai prima d’ora, il proprio rapporto con il passato, e il posto da esso occupato nel discorso pubblico del nostro tempo – vale a dire quella che è stata nella modernità una chiave di volta del loro funzionamento e della loro stessa esistenza”.
Aldo Schiavone, storico e docente presso diversi atenei italiani e attualmente a capo di un progetto ERC (European Research Council) presso l’Università “La Sapienza” di Roma, introduce con queste parole quella che considera l’importante funzione degli storici, e la loro responsabilità, nel riportare la centralità del tempo e della temporalità nelle riflessioni di tutti noi, esseri umani immersi in una ineluttabile accelerazione della nostra storia.
L’articolo, inserito nella sezione “Tramandare” del numero di Psiche dedicato alla “Responsabilità”, sembra realmente fornire una trama, una cornice di lettura attraverso la quale promuovere riflessioni e collegamenti sempre nuovi.
Prof. Schiavone, nel suo articolo sottolinea quanto il tempo presente, condizionato dalla velocità sempre crescente con cui percepiamo il succedersi degli eventi ed i cambiamenti conseguenti, si costituisca in una modalità sconosciuta e precaria, che impone una ridefinizione della percezione di noi stessi e del significato delle nostre scelte. Il rischio che si intravede è la “perdita del bisogno di avere un passato”, perché il presente non ha più bisogno di un prima che lo legittimi. Quanto crede che la provvisorietà delle continue trasformazioni possa alterare la memoria culturale e sociale?
Credo che possa farlo in misura rilevante, e che sia un pericolo da prendere in seria considerazione. L’autosufficienza del presente è un inganno, è una deformazione prospettica. C’è sempre bisogno di un passato per riconoscersi e avere coscienza critica di sé. Anche la più radicale delle rivoluzioni, la più veloce delle trasformazioni, non può essere compresa – e non può comprendersi – se non attraverso un prima.
Il passato come elemento costitutivo del presente, e, viceversa, il rischio di perdere il “senso della storia”, è un tema purtroppo quanto mai attuale, in questi tempi di guerra in cui la rilettura storica da parte di Putin contribuisce a legittimare le sue scelte. Si potrebbe concepire così ciò che lei chiama “responsabilità” dello storico, non solo raccontare e tramandare il passato, ma contribuire ad un suo uso presente per la costruzione del futuro? Consiste in questo “salvare la nostra storicità”?
Certo. L’uso della storia è sempre rivolto al futuro: questo è un tema che in questo momento mi è particolarmente caro, perché coinvolge il lavoro di cui mi sto occupando. L’esempio di Putin è molto calzante: la sua è una lettura distorta del passato, strettamente funzionale a preparare il futuro che egli vorrebbe: ma si tratterebbe di un futuro che ci farebbe regredire, e di molto. C’è chi proietta nel futuro i fantasmi del proprio passato: nel caso di Putin, il passato imperiale sovietico. Ma l’ordine del mondo è – per nostra fortuna – sempre meno compatibile con la forma degli imperi. Putin potrà anche invadere l’Ucraina, ma non riuscirà a far rivivere un’epoca ormai finita.
In psicoanalisi il tempo, la temporalità e l’inestricabile connessione tra presente e passato rappresentano dei punti centrali della concezione della mente umana e del suo sviluppo. Molte ricerche scientifiche supportano l’idea di una continua reiscrizione della memoria, in cui il presente contribuisce a modificare i vissuti passati e le loro tracce. Come può a suo parere la soggettività della propria storia collocarsi in quel necessario grado di oggettività alla base delle narrazioni storiche di cui parla nell’articolo?
Domanda impegnativa. Alla storia accade esattamente quel che capita alla memoria individuale: viene continuamente riscritta dalla vita successiva. In questo incessante lavoro di rielaborazione, bisogna riuscire a saper districare il piano dei fatti da quello delle interpretazioni. La mia posizione potrebbe definirsi come quella di un “realismo dipendente da modelli”. Fuori della nostra mente c’è un livello oggettivo di realtà – di passato – che tocca allo storico, attraverso i documenti, accertare nella sua nuda oggettività: la morte di Cesare, la battagli di Austerlitz, il testo della prima edizione dell’Interpretazione dei sogni, tutte le morti dello Sterminio.
E c’è poi il piano dell’interpretazione, della costruzione del modello attraverso cui leggiamo i fatti: e questo dipende dalla soggettività dello storico, dalla sua cultura, dal contesto in cui opera. Non esiste una ricetta universale per un corretto equilibrio fra questi due momenti – per fissare una volta per tutte lo statuto del soggetto e lo statuto dell’oggetto. Esiste solo la concreta scrittura della storia, in un tempo e in uno spazio determinati.