PARLIAMO DI… DISTANZA
PSICHE INCONTRA SARANTIS THANOPOULOS
Intervista a Sarantis Thanopulos, di Massimiliano Sommantico.
In “Distanza”, numero 1/2022 di Psiche – Rivista di Cultura Psicoanalitica
Nel marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia globale causata dal Coronavirus SARS-CoV-2 e per contenerne la diffusione molti governi hanno adottato periodicamente severe contromisure, come la quarantena-isolamento.
L’esperienza dei cosiddetti lockdown ha costituito una situazione senza precedenti, con una durata imprevedibile che ha prefigurato un trauma collettivo che ha avuto conseguenze tanto a livello della popolazione generale, quanto a livello dello specifico lavoro analitico.
Nella popolazione generale, le varie forme di attaccamento e di socialità sono state minate, con un impatto particolarmente significativo sulla popolazione degli adolescenti e dei giovani adulti.
Durante i lockdown la comunità degli analisti ha dovuto fare una scelta tra interrompere i trattamenti in corso a tempo indeterminato o continuarli attraverso strumenti di comunicazione telematici. Dal lavoro analitico condotto a distanza sono sorti molti interrogativi: è possibile praticare la psicoanalisi per telefono o online? È paragonabile al lavoro analitico in presenza? Quando e per quale tipo di paziente è possibile proporre questo tipo di lavoro?
Massimiliano Sommantico, psicoanalista SPI, ha incontrato per PSICHE il Presidente della Società Psicoanalitica Italiana Sarantis Thanopoulos per affrontare con il suo aiuto alcune delle questioni citate.
M.S. Dal suo punto di vista, quali sono e come descriverebbe gli effetti, a breve e a lungo termine, del distanziamento sociale resosi così a lungo necessario in tempo di pandemia?
S.T. Il distanziamento già c’era, imponente e disastroso. (…) Non riusciamo a sostare nelle relazioni e nei luoghi della conversazione e della condivisione culturale. Stiamo perdendo il senso dello spazio e del tempo dell’intimità erotica che si è inaridita. Abbiamo perso la capacità di stare a maggese: sospendere l’attività produttiva per diventare più permeabili in profondità al gusto e al senso della vita. Siamo quindi meno creativi, meno disponibili all’accoglienza dell’altro dentro di noi (all’ingravidarsi fecondo dei nostri sentimenti e pensieri), meno capaci di costruire e condividere prospettive comuni. Con tutto il potere della nostra tecnica, la pandemia ci ha travolti.
M.S. Quali sono state, secondo lei, le risorse individuali e/o collettive che hanno giocato come fattori di resilienza in tempo di pandemia e che hanno, dunque, permesso di far fronte agli esiti più massicci del distanziamento sociale?
S.T. (…) L’idea che usciamo dalla crisi psichica, in cui già eravamo e in cui ci siamo più sprofondati con la pandemia, con la resilienza (tornando su sé stessi) è pericolosa. Mi rendo benissimo conto che la parola resilienza si usa in modo generico, per cui ognuno la può intendere in modo diverso, ma poiché l’uso generico di un termine porta sempre con sé la cultura che l’ha generato, sento che dobbiamo essere attenti. (…) Il rischio maggiore che corriamo dopo la pandemia è quello di uscirne resilienti, senza consapevolezza di ciò che ci manca, ignari della necessità di un’elaborazione del lutto e privi di possibilità vere di trasformazione. Mostrarsi resilienti significa che abbiamo sviluppato ulteriormente la nostra attitudine ad adattarci all’emergenza, ben avviati a vivere in uno stato di eccezione alla vita. (…) Se siamo usciti sani dalla pandemia, nella misura in cui ciò è avvenuto, è perché abbiamo sentito profondamente la mancanza delle persone, dei luoghi, dei panorami e degli orizzonti amati. La cosa più positiva della pandemia è l’avere reso evidente che la sostituzione della vita reale con quella virtuale produce disastri.
M.S. Qual è la sua opinione circa l’utilizzo della remote analysis in tempo di pandemia? Come crede abbia aiutato i pazienti? Quali le risorse che ha attivato e quali le difficoltà maggiori cui la comunità analitica ha dovuto far fronte?
S.T. La remote analysis è stata una soluzione di necessità. Con tutti i condizionamenti che le soluzioni emergenziali producono. Indubbiamente è servita a mantenere in gioco il legame con i nostri analizzandi ed è stata animata dal senso reciproco di mancanza. È un sostituto insoddisfacente dell’analisi viva in cui respirano e sognano insieme due esistenze desideranti. Tuttavia, può essere un mezzo per tamponare un vuoto di relazione, a condizione di tenere presente i suoi limiti che possono essere molto seri e si evincono facilmente da ciò che ho detto precedentemente a proposito della digitalizzazione dell’esperienza. (…) La relazione analitica è in primo luogo, e in modo fondante, una esperienza reale. Ciò implica il virtuale come spazio dell’illusione creativa, ma questo spazio non è il dominio del digitale, bensì del sogno (quello della veglia e del sonno). Nel cinema, nel teatro si sogna il che, già ce l’ha detto Winnicott, è diverso dal fantasticare a occhi aperti. Nella relazione reale il sogno fa giocare la lontananza con la vicinanza; la relazione digitale è, invece, mistificante se si proclama autosufficiente, indipendente dalla realtà e nega la distanza creando una falsa prossimità.