Luciano Mecacci
“La censura della psicoanalisi in Unione Sovietica e l’autocensura di una società”, di Luciano Mecacci
in “Censura”, numero 2/2021 della rivista Psiche
a cura di Anatolia Salone
“Hai mai visto un giornale estero dopo che è passato per la censura russa alla frontiera? Parole, interi periodi e frasi, tutti cancellati in nero, in modo da rendere incomprensibile tutto il resto. Anche nelle psicosi esiste una simile censura russa, che produce deliri apparentemente senza senso”. (Freud, lettera a Fliess del 22 dicembre 1897).
È con questa citazione che Luciano Mecacci introduce il lettore in quello che dalle prime battute appare come il racconto di un affascinante viaggio nel tempo.
L’autore, già Professore ordinario di Psicologia generale presso l’Università di Firenze, studioso di storia della psicologia e di psicofisiologia, si è particolarmente interessato alla psicologia russa e alle sue evoluzioni in relazione ai profondi cambiamenti storico-culturali che hanno attraversato il XX secolo, dalla Rivoluzione del 1917 fino alla fine dello stato sovietico nel 1991.
Chiediamo direttamente all’autore di portare il lettore nel vivo del suo articolo:
Prof. Mecacci, il primo personaggio del suo scritto è Sigmund Freud, che scrivendo a Fliess utilizza per la prima volta il termine “censura”, riferendosi proprio alle peculiari modalità vigenti già nella Russia zarista di eliminare con “inchiostro nero caviale” i contenuti critici di molti scritti, soprattutto se di carattere sessuale. Come si coniuga questo con la grande diffusione della psicoanalisi in Russia nello stesso periodo, fino alla Rivoluzione di ottobre?
Sebbene la censura zarista fosse molto attiva nel contrastare l’espressione di idee e movimenti sociali che non fossero in linea sia con la tradizione religiosa e filosofica russa sia con l’orientamento politico conservatore degli ultimi decenni dell’Ottocento, in questo stesso periodo si svilupparono nuovi indirizzi culturali, nella letteratura e nelle arti visive, centrati sulla ricerca simbologica e sulla rilevanza filosofica della sessualità. Come ha mostrato Aleksandr Etkind nella sua opera Eros dell’impossibile. Storia della psicoanalisi in Russia (ETS, 2020), la cultura russa della Età d’argento e il modernismo russo (tra la fine dell’Ottocento e i primi anni ’20 del Novecento) vide nei concetti della psicoanalisi (inconscio, pulsione di vita e di morte, ecc.) un apporto fondamentale per la costruzione di una concezione appunto moderna dell’idea di Uomo (generalmente inteso in senso androgino). Invece un’effettiva censura intervenne dopo la Rivoluzione, ma non subito, ovvero intorno alla fine degli anni ’20. La psicoanalisi fu repressa perché non si conciliava, in particolare nella sua indagine demistificatoria dell’esercizio del potere sull’individuo e sulla massa, con la politica staliniana; si pensi a Psicologia delle masse e analisi dell’Io di Sigmund Freud, 1921). E bisogna ricordare che il più importante, sul piano politico, fautore della psicoanalisi fu Lev Trockij, vale a dire il principale “nemico del popolo” agli occhi di Stalin e dei suoi sostenitori, volenti o nolenti.
Nel suo articolo viene messa in evidenza l’interessante relazione tra censura esercitata dal potere e fenomeno psicologico dell’autocensura, fino ad una sorta di rimozione collettiva di argomenti “non graditi”. Quale ritiene sia l’aspetto che più profondamente ha condizionato culturalmente e psicologicamente diverse generazioni di intellettuali?
Semplicemente: la paura. Paura di sentire, in piena notte, un’auto fermarsi sotto casa (le auto private erano molto rare negli anni ’30 e ’40 e a quell’ora non poteva che trattarsi della polizia politica); paura di sentire salire velocemente le scale, e – se quegli uomini si erano fermati al piano di sotto oppure erano passati oltre, verso i piani superiori – risollevarsi, per poi cadere nel rimorso di aver gioito che la disgrazia fosse capitata a un parente o un amico. Paura di sentire bussare alla propria porta, vedere andar via un proprio caro, e non saperne la destinazione o la fine. Milioni di russi scomparvero in questo modo: fucilati subito?, morti in un campo di lavoro del sistema GuLag? I sopravvissuti hanno convissuto con questi interrogativi angosciosi per anni. La paura è stata il filo rosso della vita quotidiana degli uomini e delle donne dell’Unione Sovietica e la si ritrova di frequente anche nella letteratura più significativa dopo la caduta di questo paese. E la paura ha condizionato la produzione intellettuale, la ricerca scientifica. Basti ricordare che ancora negli anni ’70 (il periodo che conosco direttamente in relazione ai miei periodi di studio a Mosca) leggere libri di Freud non era possibile perché essi non erano in commercio, ma soprattutto non era consigliabile perché la loro lettura in biblioteca era associata alla proibizione dei testi psicoanalitici negli anni del Terrore. Fra l’altro, va aggiunto, non era noto quali fossero i libri proibiti: lo si apprendeva solo al momento della richiesta in biblioteca. Di nuovo la paura di aver commesso un passo falso. Quanto a parlare di “argomenti proibiti” come il periodo del Terrore e le sue vittime oppure la repressione di discipline considerate “borghesi” (per esempio, la psicoanalisi, la genetica o la sociologia), dopo la caduta dell’Unione Sovietica alla paura manifesta è subentrata la rimozione negli anziani, mentre i giovani si sono “gettati” in un vortice di letture, produzioni letterarie e artistiche fino a quel momento inesplorate, come se niente fosse accaduto nel periodo sovietico e si potesse cominciare da zero. Inoltre con l’oggettiva impossibilità di sanare in pochi anni un rilevante ritardo culturale e, in vari campi, scientifico rispetto a quanto era accaduto nei paesi occidentali lungo la gran parte del secolo scorso.
Dimenticare e ricordare! Rispetto al condizionamento che decenni di censura della psicoanalisi hanno esercitato sul pensiero psicologico russo, quanto crede che le nuove generazioni stiano promuovendo un pensiero nuovo ed originale, anche attraverso il ricordo ed il recupero del passato?
Anzitutto va precisato che se la censura è stata senz’altro esercitata con forza sulla psicoanalisi, con effetti comprensibilmente significativi sullo sviluppo in generale della psicologia russa (o meglio sovietica, come si diceva fino a tutti gli anni ’80) e in particolare della psicoterapia (qualsiasi approccio psicodinamico non fu praticato, perlomeno ufficialmente fino ai primi anni ’90), tuttavia anche altri indirizzi psicologici, dal comportamentismo alla psicologia della forma, al cognitivismo e alla varie teorie della personalità furono considerate “marginali” rispetto alla teoria storico-culturale che, con alti e bassi, dominò la psicologia sovietica fino agli anni ’80. E va aggiunto che all’interno di questa stessa teoria vi furono pesanti forme di censura e autocensura per assicurarne la conformità al materialismo dialettico, la filosofia di Stato. A mio avviso, non vi è un ricordo e recupero del passato cui per elaborare un “pensiero nuovo ed originale”. Senz’altro si leggono testi che erano stati sconosciuti per decenni, ma il fine non è quello di ripercorrere storicamente e assimilare un processo teorico da cui partire. Come notavo prima, non è raro leggere un articolo in cui Freud è accostato a autori del secondo Novecento come Foucault, Bataille e Derrida, e allo stesso tempo a correnti del pensiero religioso ortodosso, oppure a concezioni filosofiche orientali. Vi sono dibattiti interessanti, come quello sul concetto di “esperienza vissuta”, ma essi sono ristretti a specifici gruppi di psicologi e psicoterapeuti, fra l’altro distanti dalla impostazione psicoanalitica. In generale direi che si sta assistendo a un ripiegamento della cultura russa su sé stessa, una nuova forma di autoisolamento e chiusura che riguarda anche la psicologia e la psicoterapia, senza un effettivo confronto con la cultura occidentale, D’altronde questa situazione è anche determinata dalla politica di stampo autarchico affermatasi in Russia negli ultimi venti anni.