Parole chiave: Psicoanalisi, Bollas, Personalità, Carattere.
“Tre caratteri. Narcisista, borderline, maniaco-depressivo”
di Christopher Bollas
(Raffaello Cortina ed., 2022)
Recensione a cura di Maria Giuseppina Pappa
Il libro di Christopher Bollas, “Tre caratteri. Narcisista, borderline, maniaco-depressivo” (2022), racchiude i saggi relativi al materiale delle conferenze tenute agli psicoanalisti, agli psicologi di orientamento analitico e agli psicoterapeuti che hanno partecipato al Chicago Workshop (1991-2007) e alla Arild Conference (1983-2010). Si tratta di un testo che offre ampie esplorazioni psicoanalitiche dei tre tipi di carattere, messi a confronto dal punto di vista teorico, clinico e tecnico, con un’interessante discussione finale di Christopher Bollas con Sacha Bollas. Nell’intento di consentire ai clinici di addentrarsi nella mente di queste tre personalità, Bollas, a conclusione di ciascun capitolo, propone, in modo originale ed efficace, il racconto in prima persona di quella che si rivela essere una caratteristica posizione del Sé nel mondo. È solo tramite la condivisione profonda di questi caratteri che possiamo identificarci con essi e comprendere le strategie che hanno sviluppato per sopravvivere in momenti difficili. Bollas sottolinea come la radice di tutti i disturbi del carattere sia il dolore mentale e come ogni struttura caratteriale, con la sua ripetitività, renda individuabile la sofferenza della persona. Ciascun disturbo costituisce un tentativo intelligente di trovare una soluzione a un problema esistenziale, ed è fondamentale che il clinico sia in grado di coglierne la specifica funzione e aiutare il paziente a comprenderla. Quando usiamo i termini descrittivi “narcisista”, “borderline”, o “maniaco-depressivo”, identifichiamo alcuni assiomi che accomunano questi individui. I motivi per cui sono così, sono numerosi e differenti, ma nonostante ciò è possibile descrivere una relazione tipica fra la loro soggettività e il mondo al quale appartengono. Bollas prende come esempio l’incipit del Moby Dick di Melville, in cui Ismaele dice, in sostanza, “vado per mare perché se non lo facessi finirei per ammazzare qualcuno”. Nel corso della lettura, possiamo notare ancora una volta, in linea con le opere precedenti, l’importanza attribuita dall’Autore ai traumi precoci nello sviluppo individuale, così come l’influenza determinante conferita a un ambiente facilitante sullo sviluppo futuro, con l’idea che tale modello di pensiero debba riguardare la situazione analitica, in quanto essa stessa facilitante. Si potrebbe affermare, parafrasando e modificando le parole di Winnicott, “non esiste il paziente, ma soltanto il paziente con il terapeuta”. Per Bollas dunque sono essenziali le riflessioni dell’analista sulle proprie risposte affettive allo stato d’animo del paziente, e alle sue comunicazioni emozionali nel corso della seduta. Nelle sue teorizzazioni, è centrale il concetto winnicottiano di potenzialità del vero sé del paziente, che sono state probabilmente bloccate dalla creazione di strutture difensive o di falso sé. Lo scopo dell’analista consiste nell’aiutare il paziente a riscoprire i propri modi autentici di essere spontaneo, e questo risultato non potrà essere ottenuto se l’analista stesso sarà falso e inautentico. L’analista deve utilizzare il proprio vero sé, distinguendolo dall’impulsività e dall’indulgenza verso se stesso. Ogni analista deve trovare il proprio idioma personale di vero lavoro analitico (Bollas, 1989) ed essere consapevole del linguaggio con cui parla al paziente, considerandosi come uno degli oggetti di osservazione nel processo analitico, ponendosi come il soggetto di se stesso. Allo stesso tempo egli è anche un oggetto utilizzato dal paziente per i propri scopi, per cui si rende necessaria la consapevolezza di essere usato dal paziente. Bollas considera l’interazione fra transfert e controtransfert come qualcosa che in parte è noto, ma su cui non si è riflettuto in modo esauriente, definendolo il conosciuto non pensato, suggerendo un uso espressivo del controtransfert (Bollas, 1987).
Il primo capitolo del libro è dedicato all’analisi della struttura della personalità del “narcisista”, emblema del pensiero rifrattivo, che a differenza del pensiero riflessivo, “seleziona una caratteristica secondaria all’interno di una comunicazione, mettendola in evidenza e condannando il nocciolo della questione all’oblio. Il pensiero rifrattivo, perciò, elimina il significato” (Bollas, 2018). Modell e altri hanno ipotizzato che il narcisista abbia rifiutato l’oggetto primario – la madre – vissuto come eccessivamente intrusivo. In questa ottica, il Sé istituisce la propria immagine come un nuovo oggetto primario. Tutto procede fino a quando il narcisista si limita a contemplare la propria immagine, ma ogni tentativo di entrare in contatto con essa, la distrugge. Più in particolare se l’altro tenta di coinvolgere il Sé, quest’ultimo lo rifiuta e l’altro va in pezzi: Eco tenta di coinvolgere Narciso ed è respinta; Narciso tenta di coinvolgere se stesso, tentando di abbracciare la propria immagine riflessa, di cui è innamorato, ma l’immagine si frammenta, e così viene distrutto. Come analisti sappiamo che il paziente che presenta tali problematiche caratteriali, porta con sé acque perturbate, e si appropria del lago seduta, parlando per tutto il tempo delle “ferite narcisistiche”, ferite che hanno mandato in frantumi ciò che avrebbe dovuto essere uno specchio ideale, e che l’analizzando si sforza in tutti i modi di ripristinare. In una situazione di questo tipo l’analista si sente simile a Eco, che può parlare solo se riflette le parole del narcisista e ciò che suscita il suo interesse, e che se sbaglia a parlare, si trova a dover fare i conti con il lago che frammenta il Sé. Un elemento centrale nell’assetto mentale del narcisista è l’immagine di sé, che viene rimandata a contatto con gli altri, e dunque la richiesta di attenzione, sempre all’opera, anche in modo molto sottile. C’è un non riuscire a staccarsi da un Sé ideale, dagli ideali, dagli oggetti idealizzati e dall’idealizzazione. Nel suo idealizzare se stesso, il narcisista può proiettare questa fantasia di appagamento del desiderio negli altri o nelle attività della propria vita, attraverso l’idealizzazione. È questo che dà origine al contratto narcisistico: tu idealizzi me; io idealizzo te, allo scopo di vivere in un mondo di idealizzazione. Tra gli assunti del narcisista, c’è quello per cui il visuale ha la preminenza sul verbale, o il simbolico, e nella relazione con l’altro, egli utilizza le espressioni del volto, le comunicazioni acustiche non verbali e il silenzio, per affermare la priorità del mondo non-verbale sul linguaggio, come un mezzo per manipolare l’altro, e nel caso dell’analisi, per far fallire il tentativo dell’analista di creare significato. Bollas opera una distinzione diagnostica tra il narcisista positivo, che è meno disturbato, e il narcisista negativo, più grave, in quanto trasferisce questo disturbo del carattere nell’ambito della psicosi, creando i presupposti per il razzismo, il sessismo e il genocidio. A differenza del narcisista negativo, il narcisista positivo, nel cercare di vivere in un mondo armonioso, non turbato da stimoli che minaccino il suo senso di benessere, può dedicarsi agli altri, con lo scopo di soddisfare l’immagine che egli ha del Sé. Il narcisista positivo tende ad avere relazioni oggettuali superficiali che preservano il Sé, al fine di evitare ogni divergenza con l’altro, frequentando oggetti che non possono suscitare alcuna polemica. Quindi mentre il “borderline” cerca la divergenza turbolenta con l’oggetto, perché la turbolenza emotiva è l’oggetto d’amore, il narcisista fa di tutto per allontanarla da sé, e per questo può far ricorso a modalità difensive, tra le quali soprattutto l’istituzione di un falso Sé. Nella relazione analitica il narcisista può pertanto assumere un atteggiamento compiacente e accettare facilmente le interpretazioni, con l’intento di prevenire le possibili divergenze. Tra gli assiomi della logica della personalità narcisistica, c’è quello per cui “Invece di un altro con cui avere una relazione di intimità, scelgo dei Sé non invasivi che mi rispecchieranno così come io rispecchierò loro. Con gli altri che stanno a distanza ha successo una relazione a distanza” (p. 55-56). La personalità narcisistica si colloca lungo uno spettro dal positivo al negativo, proponendo all’analista sfide cliniche tutt’altro che facili. La richiesta di analisi in questi casi può talvolta trovare il suo fondamento in un crollo depressivo, che nel narcisista negativo ha caratteristiche psicotiche, oppure in una somatizzazione. Bollas concorda con Kohut nell’evidenziare il bisogno del narcisista di un transfert idealizzante e la necessità che questo si stabilizzi nel tempo, prima di poter essere interpretato. Difese come il diniego, l’allucinazione negativa e la grandiosità possono decrescere solo quando la relazione analitica offre al paziente un’alternativa alla vita delirante, costituita da un’esperienza di realizzazione, in cui arrivare a pensare che né il Sé, né il modo oggettuale sono perfetti.
Nel secondo capitolo del libro viene analizzata la struttura della personalità del “borderline”, che propone un’intensa immagine di sé, con un dolore mentale incessante. Qui c’è una sofferenza che diversamente dall’isterico, non consente di ottenere alcun vantaggio secondario. Diversamente dal narcisista, il borderline non desidera liberarsi di essa, ma sembra ricercarla. Il borderline si trova frequentemente a vivere relazioni estremamente conflittuali e tese, essendo alla ricerca di un altro al quale poter attribuire il proprio dolore. Diversamente dal dolore mentale dello schizofrenico, che è oggettivato come qualcosa di esterno, indesiderato ed evitato a ogni costo, il borderline tende ad amplificare il dolore in una sorta di ‘abbraccio’, ancora più forte delle forme più estreme di masochismo: “Si tratta dell’ombra di un oggetto che fa affidamento sulla determinazione del borderline di appropriarsi di esso introducendo il dolore nel Sé” (p. 64). Per il borderline l’attività onirica e quella percettiva sono mescolate tra loro, in quanto sia il sogno che la vita sono pervasi da stimoli potentemente disturbanti e da un sovraccarico di angosce, al punto che il sogno viene vissuto come un incubo, anche quando il contenuto appare benigno o banale. Spesso il soggetto somatizza il proprio stato angoscioso, e diversamente dall’isterico, per il quale la conversione-somatizzazione simbolizza un’idea inconscia, la somatizzazione borderline ha a che fare con una mente incapace di contenere gli effetti opprimenti dei contenuti mentali. Diversamente dal narcisista, che somatizza per localizzare e fissare il disagio, lo stato somatico del borderline è un’estensione corporea dell’angoscia mentale. Spesso il borderline trascura il proprio corpo, si presenta costantemente affaticato e di questo non se ne cura, non pensando peraltro di poter stare meglio. La debilitazione somatica è la condizione del suo “Sé nel mondo”: il soggetto è profondamente coinvolto con un oggetto/altro che produce dolore e il cui Sé è in uno stato di costante tumulto. Con un paziente così l’analista può sentirsi confuso e porsi la domanda se sia l’altro a provocare questo dolore, oppure il paziente stia proiettando nell’altro il negativo. Le personalità borderline, come i perversi, hanno una particolare abilità nell’instaurare un contratto borderline con altri borderline. Nell’analizzare il modo in cui il borderline scinde in frammenti sia l’Io, sia l’oggetto, Bollas osserva come la relazione oggettuale del borderline possa essere compresa solo nei termini di una crisi, in relazione a ciò che Winnicott ha definito la “madre ambiente”, cioè il mondo che circonda il bambino: “la personalità borderline è scissa non soltanto perché scinde l’oggetto, ma – ed è la cosa più importante – perché è stata scissa per opera della madre ambiente” (p. 72). Per il borderline l’intimità si instaura attraverso una scissione reciproca, per cui parti del Sé sono proiettate all’interno di parti dell’altro, e allo stesso tempo anche l’altro è invitato a fare la stessa cosa. Tra gli assiomi della logica del carattere borderline, è centrale quello per cui: “Non possiedo un senso originario di chi sono, ma posso sentire un “me” che si instaura in relazione a un altro che arreca disturbo” (p.94). Una caratteristica cruciale nel lavoro analitico con la personalità borderline è il dover entrare in relazione con emozioni che sono una sorta di miscuglio familiare, e la tendenza del soggetto a parlare della vita in termini astratti, con una grande difficoltà a parlare dettagliatamente delle esperienze vissute. Compito dell’analista è dunque quello di richiedere di fornire dettagli, specificare, e con questo facilitare la formazione di oggetti da parte del paziente. L’interpretazione delle attività difensive del paziente dovrebbe tener conto oltre che del rapporto a un singolo oggetto, della rabbia ambientale dalla quale è stato contaminato. Quando il soggetto in analisi può cominciare a vedere in quale modo le parti rifiutate della propria personalità sono scisse e proiettate negli oggetti interni, è possibile concentrarsi sulle dinamiche del mondo interno. Questo tipo di sviluppo implica un doloroso processo di lutto borderline, che ha a che fare con la perdita delle situazioni tempestose della vita vissuta con l’oggetto primario. La motivazione all’aiuto da parte del soggetto è rappresentata dall’essere devastato da un’angoscia che cresce con il passare del tempo, un dolore insopportabile, il dolore borderline. Quando l’energia delle proiezioni cesserà di essere utilizzabile, il soggetto potrà cominciare a sperimentare la depressione borderline, che si manifesta nel momento in cui il Sé realizza che gli oggetti destinati a contenere tutto ciò che è indesiderato, non sono più in grado di svolgere questa funzione. Bollas ritiene che nel lavoro analitico i borderline siano capaci di riflettere su se stessi in modo obiettivo, e che sia possibile interpretare la logica del loro carattere, ma che l’analista debba anche prevedere un feroce tentativo, da parte del paziente, di negare che un’interpretazione di questo tipo abbia un senso.
Nel terzo capitolo del libro viene infine preso in considerazione il carattere “maniaco-depressivo”, in cui l’umore della persona oscilla fra estremamente elevato ed estremamente basso. Qui non vi è alcuna rappresentazione imitativa della sofferenza, come ad esempio nel caso dell’isteria, né vi è la ricerca del negativo, come per il borderline, ma una sofferenza mentale così intensa, da indurre talvolta paura in chi la osserva. Il maniaco-depressivo è ben lungi dai fisiologici alti e bassi della vita, così come dalle variazioni dell’umore che caratterizzano il borderline, l’isterico, e lo schizoide. In questo caso la più grave sofferenza è legata ai lunghi periodi di profonda depressione, rispetto alla quale l’umore maniacale viene inconsciamente ricercato come una forma di liberazione. Perciò tipicamente, accade qualcosa a carattere stimolante, nella vita della persona, che innesca il passaggio dalla depressione alla mania. Bollas mette in risalto come troppo spesso non si presti sufficiente attenzione alla storia del Sé maniaco-depressivo, e in tal modo venga perduta un’importante possibilità di azione terapeutica. Egli nota infatti come ci sia la comune tendenza a vedere questo disturbo del carattere come una “malattia” definita in se stessa, con un orientamento terapeutico preferenzialmente farmacologico, e una prevalente attenzione ai fattori biologici ed ereditari. La raccolta di una storia dettagliata del paziente e l’analisi degli eventi concomitanti con l’esordio sia della mania, sia della depressione, si rivela cruciale dal punto di vista dell’efficacia terapeutica, molto più che con altri tipi di problematiche caratteriali. Questo perché, in un episodio maniacale, il tessuto della memoria del Sé è lacerato, la storia della persona, le relazioni e la responsabilità sono messe da parte. Il paziente maniacale svaluta l’importanza della vita quotidiana, a causa della propria grandiosità, e quando successivamente si deprime, perde interesse verso gli eventi della propria vita perché il Sé è intrappolato in una depressione che distrugge il significato. Bollas nota come nello sviluppo del soggetto sia mancato un ascolto da parte delle figure di riferimento, e come questo abbia portato all’incapacità di preservare ciò che il Sé ha sperimentato e ha detto, cioè alla mancanza di una memoria personale di ciò che è stato vissuto, e alla messa in campo di forme sostitutive di ricordo. In ambedue le fasi, il maniaco-depressivo è privo di radici e senza guida, e soprattutto inconsciamente abbandonato come oggetto d’amore, poiché la memoria è anche una parte di noi che ama il nostro Sé, e noi siamo commemorati dal nostro inconscio. Tra gli assiomi che costituiscono la logica della personalità maniaco-depressiva, c’è quello per cui: “Le ore, i giorni e le settimane della mia infanzia sono avvolti nel velo di un’inerzia invisibile” (p.138). Il lavoro analitico con questi pazienti procede molto lentamente e richiede una particolare pazienza. L’analista che si impegna con il paziente in molti anni di lavoro intensivo, tollerando spaventosi e disperati alti e bassi, sperimenterà i molti aspetti del quadro clinico in tempo reale, e questo contribuirà a far sì che i due aspetti del Sé possano essere messi sempre più a contatto l’uno con l’altro.
Concludendo, alla luce della ricchezza e complessità delle tematiche affrontate, penso che la lettura del libro di Bollas possa essere un notevole apporto clinico e teorico, nella nostra continua ricerca di estendere il nostro lavoro analitico a pazienti e ad aree della mente difficilmente raggiungibili, e a migliorare la qualità del nostro ascolto analitico in generale.
Riferimenti bibliografici
Bollas, C. (1987) L’ombra dell’oggetto. Tr. it. Borla, Roma, 1989.
Bollas, C. (1989) Forze del destino. Tr. it. Borla, Roma 1992.
Bollas, C. (2018) L’età dello smarrimento. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2018.