La Ricerca

Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Oltre l’offesa. Confrontarsi con il trauma psichico grave. Presentazione del libro di Clara Mucci, di Valeria Egidi Morpurgo

22/06/16

Valeria Egidi Morpurgo
Oltre l’offesa. Confrontarsi con il trauma psichico grave.
Presentazione del libro di Clara Mucci Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale.

Ho guardato negli occhi la Gorgone e ho potuto proseguire vivo (Imre Kertesz)

Testimoniare
Dopo Il dolore estremo. Il trauma da Freud alla Shoah (2008) Clara Mucci ritorna al tema del trauma psichico grave con il volume: Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, che è stato pubblicato in inglese nel 2013 e l’anno successivo in italiano, dall’editore Raffaello Cortina.
Per affrontare il tema dei traumi psichici gravi – afferma Clara Mucci – la clinica psicoanalitica deve prendere in considerazione la ricerca neurobiologica, gli studi sull’attaccamento infantile e i traumi relazionali precoci, la letteratura sui sopravvissuti alla Shoah e ai genocidi.
Ed ecco quindi un libro che spicca per l’ampiezza dei resoconti di ricerca e la completezza dei riferimenti teorici e clinici: prezioso tanto per gli studiosi del ramo quanto per chiunque abbia quello che Bettelheim chiama un “cuore vigile”.
Tutto ciò, come segnala Otto Kernberg nella sua meditata prefazione, nell’ottica di una visione bio-psico-sociale del trauma. Dove l’articolazione dei tre domini o piani è tutt’altro che scontata o semplificata. Gli sviluppi, le controversie, e i nodi teorici vengono affrontati nel libro senza semplificazioni.

Ci sono delle parole cariche di significato, pesanti e anche scomode che mi prendo la responsabilità di usare come bussola per la lettura del libro, e sono:
verità, testimonianza, offesa, coraggio, dolore, perdono. Incomincio dalle parole che meglio esprimono lo spirito del libro, o almeno il suo tema di fondo, che, al di là della ricerca teorico clinica, è il tema della testimonianza del trauma come situazione che dis-umanizza gli esseri umani.
Questo vale sia per i traumi individuali, beninteso traumi gravi, sia per quelli collettivi di carattere storico, cioè dovuti all’azione umana.
Per questo la testimonianza del trauma è cruciale. Rintracciare la verità del trauma, la sua realtà è la prima tappa per il riscatto dell’individuo offeso e con esso, dell’umanità offesa.
Talvolta sottotraccia, talvolta apertamente, il libro offre un’appassionata battaglia per la verità. Perché parlare di battaglia? Perché quel che emerge, a volte in modo inaspettato in mezzo ai resoconti di studi e ricerche, è l’impegno contro il silenzio e la negazione del trauma, qualsiasi esso sia. L’impegno di Clara Mucci mi ha ricordato in più di un passaggio la figura di Bruno Bettelheim, grande “moralista” :
“che – permettetemi l’autocitazione- trae dall’esperienza dei campi di morte un bisogno appassionato di reintegrazione dell’ordine morale del mondo” (Bruno Bettelheim tra psicoanalisi ed etica p. 40)
Quello di Clara Mucci è un impegno dove l’indagine scientifica, psicologica e neurobiologica, procede insieme con l’impegno etico e forse grazie ad esso. Insieme, perché i due aspetti separati non renderebbero giustizia a coloro cui è stata inflitta l’offesa del trauma:
“L’esercizio volontario della memoria è l’unico strumento per ricacciare nel suo inferno il fantasma di un orrore che non si rassegna a morire della sua propria morte” (Francesco Migliorino, Scarti di umanità, p. 12)

Il processo di ricostruzione di come il trauma plasmi la psiche o vi si incida e il resoconto dettagliato e approfondito del reciproco scambio tra studi del trauma individuale e dei traumi collettivi ha nel libro un esito non scontato: la proposta di un’integrazione nella psiche dell’offeso del male e del dolore subiti, con la fiducia di poter trovare un equilibrio che definirei di saggezza. Una proposta di riconciliazione psicologica, riassunta dal termine perdono, avanzato coraggiosamente dall’autrice, che è consapevole quanto la parola “perdono”, sia difficile “da maneggiare” in ambito psicologico-psicoanalitico, perché è carica di evocazioni religiose, giuridiche, storiche. Il concetto di perdono cionondimeno prende speciale rilievo nella parte finale del volume, dove viene indagato e discusso mettendo in primo piano il versante delle “vittime”, dei traumatizzati, di coloro che sono stati offesi, feriti, e anche disumanizzati dal trauma, e il loro percorso, a volte intrapsichico a volte relazionale, di liberazione.
Bersagli o vittime?
Perché uso parole come “offesa” od “offesi” anziché “vittime”? e “infliggere”, verbo che designa un’azione, e non “subire” che indica passività?
Non per scegliere un eufemismo, ma perché gli “offesi” (anche Clara Mucci usa il termine, qua e là) proprio come gli Umiliati e offesi del romanzo sono consapevoli di avere diritto ad una vita degna, sanno che il loro diritto è calpestato e hanno desiderio di riscatto.
Vedo un’analogia tra questo ordine di significato e quello proposto da Jacques Tylim nel panel sui traumi collettivi al congresso IPA di Boston 2015. Tylim ha suggerito di sostituire la parola vittima con il termine target, cioè bersaglio. La parola “vittima” sottintende, per lui, uno stato di inermità, e dopo la Shoah e i genocidi del XX secolo può esser vista dai discendenti dei sopravvissuti come il marchio di una passività in qualche modo colpevole. E quindi sovraccaricherebbe di un ulteriore peso coloro che sono stati il bersaglio di azioni perverse, di persecuzioni e massacri.
Si può discuterne: nessun termine è neutro e tutti sono in qualche misura polisemici. E non possiamo dimenticare che essere il bersaglio di qualcuno designa un’intenzione e non il risultato di essa: il bersaglio non necessariamente diventa una vittima. Le due parole non sono intercambiabili e il termine “vittima” non può essere messo da parte. Si potrebbe ulteriormente osservare che la condizione di inermità insita nella parola vittima è un’aggravante, ma un’aggravante che ricade sugli aggressori, non sui traumatizzati: soprattutto quando si tratti di bambini e di soggetti in situazione di debolezza. Ma il tema di non rendere ancor più vittime le vittime, inchiodandole ad un ruolo passivo, merita attenzione. Clara Mucci è indubbiamente sensibile a questo aspetto quando segnala il “rischio -per le vittime- di avere una rappresentazione del Sé polarizzato nelle categorie di vittima e persecutore” (Trauma e perdono, cit.,p.152)

Perché questa digressione sulle parole? Per indicare la necessità di essere vigili nel tener conto del contesto storico e dei cambiamenti della sensibilità di gruppo, e quindi delle tendenze collettive a difendersi dal dolore negandolo o minimizzandolo: anche con il linguaggio, che assume quindi sostanziale importanza, come sappiamo anche dai tentativi, letterari (la neolingua di Orwell) e storici (gli eufemismi e i divieti linguistici dei regimi totalitari) di alterare il linguaggio per nascondere o alterare la realtà storico-sociale.
Del necessario cambiamento di sensibilità (che temo non dovremo dare per acquisita visti i tempi storici) è ben consapevole Clara Mucci:
“Dopo il diniego che ha caratterizzato le generazioni passate, la nostra generazione è probabilmente la prima a riconoscere l’ampiezza e la profondità della devastazione causata da azioni umane come la guerra, il genocidio, violenza contro le donne e i bambini e crimini contro l’umanità”… (p.180)
Negli anni Settanta, Franklin Littell, nel suo commento al libro Il girasole di Simon Wiesenthal aveva scritto:
“Gli artefici e distruttori delle società primitive hanno sempre ammonticchiato teschi per vantare la loro supremazia sugli altri …Ora gli spettatori si sentono tutti infelici e questo è un segno di progresso” ( p.174)

Un altro esempio di sintonia con la sensibilità dei nostri tempi è il fatto che Clara Mucci usa il termine Shoah (devastazione) invece della parola Olocausto. Come è noto nella lingua inglese Holocaust è il termine corrente per indicare lo sterminio nazista degli ebrei.
Rammento le parole indignate di Bettelheim (1977) contro l’invenzione della parola Olocausto:
“La corretta definizione di olocausto è ‘sacrificio in cui la vittima veniva completamente arsa’. Come tale fa parte del linguaggio del salmista è una parola nota a tutti coloro che hanno qualche familiarità con la Bibbia (…) si creano dunque attraverso le sue connotazioni consce e inconsce, associazioni del tutto false tra il più perverso assassinio di massa e antichi rituali di natura profondamente religiosa” (L’Olocausto una generazione dopo, p.91 )
E così la parola getta un’ombra tremenda e ingiusta di colpa e di castigo sull’umanità colpita, sottraendo gli esseri umani all’azione storica. Inoltre non sfugge a Bettelheim che
“chiamare offerta sacrificale il più cinico, il più brutale, il più nefando assassinio di massa è un sacrilegio, una profanazione di Dio e dell’uomo” (Ibidem)

Una visione biopsicosociale

Clara Mucci muove dagli studi sull’attaccamento che portano ad una teoria del trauma come relazione traumatica, pur senza scartare i riferimenti alla teoria psicoanalitica “ortodossa”. A partire da una disamina della teoria dell’attaccamento avanzata in primis negli anni Cinquanta da John Bowlby, il pioniere a lungo osteggiato dalla psicoanalisi kleiniana, riprende Mary Main che negli anni Novanta enuclea i punti fondamentali della teoria segnalando come le relazioni di attaccamento con le figure primarie “abbiano effetti specifici sull’organizzazione del comportamento e sulle funzioni cerebrali del bambino” (Trauma e perdono, cit., p.13) Le ricerche evidenziano (attraverso appositi test) una relazione tra qualità della responsività materna e sviluppo della capacità di attaccamento nel bambino piuttosto che un carattere improntato dall’ evitamento o dall’ostilità o dalla disorganizzazione. Quest’ultima è la situazione dei bambini messi in situazione di stress (potenzialmente traumatiche) o direttamente maltrattati dai genitori. Genitori maltrattanti spesso impegnati a fronteggiare lutti o traumi non elaborati. Si gettano qui le basi della trasmissione del trauma tra le generazioni.
Per il cambio di paradigma che ha portato la psicoanalisi alla svolta relazionale è decisivo il modello neurobiologico dell’attaccamento/regolazione di Alan Schore. La Mucci cita direttamente il lavoro di Alan e Judith Schore:
“in linea con lo scopo fondamentale di Bowbly dell’integrazione dei modelli psicologici e biologici dello sviluppo umano, il focus attuale nella clinica e nella ricerca sperimentale su come i processi basati sul corpo siano non consapevolmente regolati in modo interattivo (…) ha cambiato la teoria dell’attaccamento in una teoria della regolazione neurobiologica” (Op. cit. p.19)
L’attaccamento sicuro nel bambino predispone a una futura buona capacità di relazione, mentre l’attaccamento insicuro o disorganizzato predispone a difficoltà relazionali. L’attaccamento sicuro non dipende tanto dalla capacità di sintonia (attunement) della madre, ma
“piuttosto dalla sua regolazione degli stati interni dell’arousal del piccolo, dai suoi stati affettivi e dalla sua dimensione energetica” (Op cit.,p.20)
Il modello di Schore suggerisce che gli attaccamenti traumatici creeranno vulnerabilità nell’adulto. Il trauma relazionale precoce, dunque come indicato da numerose ricerche, può minare a livello di sviluppo cerebrale la capacità regolatoria del bambino.
I traumi da abuso fisico, sessuale o violento, maltrattamento o trascuratezza grave, a maggior ragione colpiscono
“i sistemi neurali che regolano l’empatia, e oggi sappiamo quanto l’empatia sia alla base della capacità di relazione dell’essere umano e anzi come ne definisca l’asse distruttività /capacità etico-sociale e morale” (Op cit., p.37 )
Altre ricerche mostrano come sia soprattutto l’emisfero destro ad essere danneggiato, a causa del suo collegamento con il sistema limbico e questo porta a una serie di disturbi psichici, dall’instabilità affettiva ai danni della memoria fino a disturbi dissociativi.
Di qui si è sviluppata una grande quantità di ricerche cliniche e teorie relative alla specificità o non specificità dell’ immagazzinamento e ricordo degli eventi traumatici, che ha portato a una ridefinizione del concetto di trauma e degli eventi traumatici. Non darò conto delle diverse posizioni, limitandomi a dire che tutto ciò ha reso necessario rivedere le teorie psicoanalitiche alla ricerca di più complete chiavi di lettura e di strumenti terapeutici efficaci.

Per questi ultimi, per arrivare al finale saltando le tappe intermedie del discorso, credo che l’approdo sia espresso dalla raccomandazione di Dori Laub sulla presenza di un interlocutore empatico: figura terapeutica o posizione del terapeuta fondamentale per ricostruire la diade io-tu attaccata se non distrutta dall’esperienza traumatica. E per mettere in atto il “tentativo di dare significato e risposte a questioni morali ed esistenziali riguardo a quanto è successo” (Op. cit. p.115)
Clara Mucci segnala che per fare un’azione terapeutica efficace occorre il coraggio di “fronteggiare la verità” e che questo coraggio occorre da entrambe le parti, quella del terapeuta e quella del paziente che “dovrà confrontarsi con l’orrore del passato” (Op cit. p.114)
Qui tocca a me usare una parola difficile da maneggiare. Perché ce ne difendiamo, ci vergogniamo o perché sentiamo di appropriarci di qualche cosa che non ci spetta: la parola dolore.
Il profondo lavoro di Dori Laub, e quello di Clara Mucci che lo rinnova ci insegna questo: la volontà e la capacità di condivisione del dolore. Possiamo chiamarla empatia, ma l’uso di questo termine dotto non deve nascondere il fatto che di fronte ad un trauma grave l’interlocutore, il terapeuta, l’osservatore, l’ascoltatore non possono fare niente di efficace sul piano clinico ed umano se non spartiscono una parte del dolore di chi è stato tanto offeso, se non prendono una parte del fardello sulle spalle. Quindi se non accettano una sia pur piccola traumatizzazione. L’ho chiamata la traumatizzazione del testimone. Credo che questo, anche se non alla lettera, sia un lascito di Luciana Nissim Momigliano, amica di Primo Levi, reduce da Auschwitz, che ha insegnato la psicoanalisi a tanti di noi.
La verità del trauma e la controversia Freud-Ferenczi

Clara Mucci ricorda il primato raggiunto oggi in psicoanalisi dalla teoria della relazione rispetto a quella della pulsione, aggiungerei soprattutto nell’ambito anglosassone. Si tratta di un cambiamento decisivo ai fini di una teoria del trauma e dell’elaborazione di linee per la terapia del trauma. E’ uno sviluppo teorico della psicoanalisi che partendo da Fairbairn arriva a Mitchell e Fonagy, e altri, cui aggiungerei alcuni analisti italiani che senza sposare la psicoanalisi relazionale hanno sviluppato soluzioni originali a partire dalla teoria delle relazioni oggettuali, come la già citata Luciana Nissim Momigliano. Alle spalle di tutti c’è la figura di un grande dissidente e grande maestro della psicoanalisi dei primordi: Sandor Ferenczi.

Freud sul trauma
Freud come è noto prende le mosse dall’ ipotesi traumatica, per la quale sarebbe stato un abuso sessuale subito nell’infanzia a provocare la malattia nevrotica, e compie una svolta nel 1897 quando abbandona i suoi neurotica per avanzare la teoria del fantasma, per cui colloca la causa della nevrosi nelle fantasie edipiche. Lo snodo della teoria, in questa ottica, proviene dalla teoria dell’inconscio: se nell’inconscio non vi è alcuna indicazione di realtà, è impossibile distinguere tra verità e “invenzione” investita di carica affettiva. Si potrebbe dire, con Bohleber (2010) che la svolta teorica di Freud dalla teoria del trauma alla teoria del fantasma non sarebbe dovuta alla scoperta dell’Edipo e delle fantasie edipiche quanto alla scoperta che le fantasie possono avere lo stesso effetto sulla psiche che ha la realtà.

La scoperta delle cosiddette “nevrosi di guerra” induce Freud dopo il 1915 a elaborare una diversa teoria. In Al di là del principio del piacere (1920) definisce il trauma come qualche cosa di scioccante ed eccessivo, che provoca un’effrazione del soggetto, forse addirittura a livello somatico prima che psichico, come una scossa per l’organismo: gli eccitamenti traumatici rappresentano “una breccia inferta nella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi” (p.215)
Successivamente ancora, con Inibizione, sintomo e angoscia (1926) Freud si riferisce al segnale di angoscia emesso dall’Io quando è in condizione di impotenza, cioè quando è indifeso perché è attaccato sia dall’interno sia dall’esterno. L’angoscia è insieme “attesa” del trauma e “ripetizione attenuata di esso” (p.312).
Ma i fatti per Freud vanno trattati come le fantasie? Bohleber sottolinea il carattere “serpeggiante” della teoria della seduzione in Freud, “che fu sempre tormentato dal dubbio che ci fosse un aspetto di verità storica nei ricordi di abuso”. Clara Mucci parla di ambiguità di Freud a questo proposito.
A proposito delle nevrosi di guerra Freud segnalava con Inibizione sintomo angoscia (1926) che una nevrosi “non può derivare solo da un pericolo obbiettivo” perché ha sempre una componente psichica profonda. Dunque possiamo dedurne che esista anche una “componente “obbiettiva”, cioè un evento o una serie di eventi che risultano patogeni. In L’uomo Mosé e la religione monoteistica (1934-38) poi, riferendosi al ritorno del rimosso collettivo, cioè alle azioni violente collegate al riemergere dell’antisemitismo, il padre della psicoanalisi intuisce l’esistenza di traumi collettivi “storici”, dovuti cioè all’azione umana, trasmissibili tra le generazioni. Nello stesso scritto, distinguendo la “verità materiale” da quella “storica”, Freud definisce quest’ultima come una credenza stratificata e costruita storicamente. Il contesto è il monoteismo e la credenza in un unico dio, ma ci mostra la convinzione che alla base delle costruzioni fantasmatiche stia una realtà materiale. La verità materiale sarebbe in questo caso un “delirio” con “un pezzettino di verità” nel senso che alla base del monoteismo ci sarebbe il ricordo di un grande uomo realmente esistito.

Ferenczi sul trauma
E’ indiscutibile che le attuali ricerche e gli studi sul trauma in psicoanalisi siano in debito soprattutto con le posizioni di Ferenczi.
Quando Ferenczi, allievo stimato da Freud ma già da diversi anni in polemica con lui gli legge il suo famoso saggio Sulla confusione delle lingue tra adulti e bambini (1932) il maestro gli vieta di presentare il lavoro al congresso che si sarebbe tenuto a Wiesbaden.
Il nucleo principale della teoria del trauma di Ferenczi, cui Clara Mucci dedica pagine appassionate per il suo coraggioso tentativo di opporsi al diniego degli adulti nei confronti degli abusi sui bambini è che il trauma reale, soprattutto sessuale, è la causa della malattia psichica. Ferenczi insiste sulla credibilità degli episodi di seduzione (ovvero abuso) subiti, ed estenderà l’ambito della seduzione al di là della violenza vera e propria.
La personalità del bambino, osserva Ferenczi, è ancora troppo debole per permettergli di protestare di fronte all’adulto e anzi lo spingono ad una identificazione con l’aggressore, cosicché l’aggressione cessa di esistere come realtà esterna e il bambino si sente colpevole al posto dell’adulto.
Ferenczi anticipa così quelle che saranno le scoperte successive dovute agli studi sul trauma: tra di esse l’intuizione dell’effetto distruttivo durevole del trauma per la presenza di identificazioni patologiche in chi è stato traumatizzato con coloro che hanno abusato, come una sorta di colonizzazione mentale.
E lo stato di dissociazione del traumatizzato e i danni dovuti al silenzio sia dell’abusante sia dell’ambiente. Infine Ferenczi è un grande innovatore anche perché ridefinisce la posizione dell’analista in quella che oggi chiamiamo “relazione analitica”, affermando la necessità di una partecipazione affettiva dell’analista e la capacità di mettersi in gioco rivelando i propri stati d’animo all’analizzando. E’ quella che chiamiamo oggi la self disclosure.
Forse, possiamo pensare con Bohleber (1) che la teoria psicoanalitica del trauma abbia bisogno sia del modello energetico freudiano perché rende conto del carattere di sopraffazione di un evento che non può essere mentalmente contenuto, sia del modello che deriva dalla teoria delle relazioni oggettuali e segnatamente da Ferenczi che rende conto della sensazione di abbandono e crollo provate dal soggetto nel trauma e del crollo dei legami affettivi. Tutto ciò impedisce di integrare il trauma in una narrazione.
Memoria testimonianza e narrazione
Da pochi anni abbiamo lasciato un secolo terribile, il secolo dei genocidi e della Shoah, che ha mostrato il culmine della distruttività umana. Non possiamo non tenerne conto: Clara Mucci nel suo precedente libro aveva segnalato come affrontare il tema del trauma individuale comporti affrontare il trauma sociale o di massa esemplare, la Shoah, lo sterminio degli ebrei da parte del regime nazista e dei regimi complici.
La testimonianza attiva del traumatizzato e soprattutto del sopravvissuto, il suo ricordare, il suo raccontare, il suo voler essere ascoltato è una dura conquista. Tra tutti questa terribile fatica ce l’hanno insegnata Primo Levi e Elie Wiesel. Che hanno raccontato come al ritorno dal campo di concentramento chi voleva raccontare trovava poco o niente ascolto, prevalendo negli altri l’atteggiamento di invito a passar oltre, evitare, o dimenticare, e chi non voleva raccontare o ricordare poteva invece trovarsi assillato da richieste indesiderate e invadenti.
Il paradosso del rapporto del traumatizzato con i non traumatizzati quanto al raccontare e quindi testimoniare viene ben descritto da Laub in Testimony (1992) :
“Chi ascolta (…) deve sapere che il sopravvissuto al trauma (¬¬…) teme profondamente quella conoscenza … rifugge da esso e può chiudersi a ogni momento (…) Deve sapere che chi parla del trauma a qualche livello preferisce il silenzio(…)Il silenzio è per loro un esilio predestinato, tuttavia anche una casa, una destinazione e una promessa solenne” (2)
Clara Mucci mostra come la testimonianza del trauma possa diventare “narrazione” che ha effetto di guarigione:
“la natura frammentaria dei ricordi e delle storie di molti sopravvissuti tradisce una incapacità a sperimentare la propria storia come unità coerente e a conferire significato ad essa. Narrarla, allora, può rappresentare un tentativo di rimodellare quell’esperienza in una forma internamente consistente, coerente e comunicabile. Raccontare riconnette con gli altri e organizza il Sé” (3)

Lo studio sui sopravvissuti e i loro discendenti
Tra tutte le ricerche di cui il libro dà conto, che non riesco nemmeno a citare sommariamente, vorrei almeno indicare alcuni autori citati nel capitolo Generazioni del trauma. Riflessioni sulla trasmissione traumatica dalla prima alla seconda alla terza generazione.
Si tratta di ricerche e studi che ricostruiscono il presente attraverso il passato e viceversa, studi sulla prima generazione dopo il genocidio e il trauma storico e la trasmissione intergenerazionale del trauma (quali i lavori di Van der Kolk, di Ilse Grubricht Simitis, di Ilany Kogan, e di Dori Laub) Gli studi (Kogan, Baradon e Baradon, Van der Kolk, Laub) sull’esperienza del sopravvissuto in cui la distruzione dell’oggetto buono diventa esperienza di vuoto, di buco nero innominabile perché la proiezione dell’oggetto all’esterno non riesce e ritorna sul Sé.
E poi gli studi sulla sindrome del sopravvissuto che si sviluppano dopo il congresso IPA del 1967 (Niederland, Krystal)
E ancora Judith Herman che fa notare come i sopravvissuti all’abuso infantile ricevano di frequente diagnosi sbagliate o vengano trattati in modo inadeguato. Dori Laub che in Israele raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti della Shoah ricoverati dopo la liberazione dai campi di sterminio in ospedale psichiatrico.
E infine gli studi sulla seconda e terza generazione della Shoah, tra cui quelli di Judith Kestenberg, di Ilse Grubrich Simitis, quelli di Ilany Kogan sulla traumatizzazione vicaria e infine, anche oltre la Shoah, gli studi sulla violenza di stato e i traumi. Tra di essi gli studi sulla trasmissione transgenerazionale di Kaes e di Haydée Faimberg (telescopage tra le generazioni) cui aggiungerei gli altri psicoanalisti che hanno lavorato sui massacri di massa provocati dalla Giunta militare argentina tra cui Janine Puget e Silvia Amati Sas.
Pentimento e perdono
Il tema filosofico del perdono ha assunto dopo la Shoah e dopo genocidi e massacri del XX secolo un nuovo spessore. E’ superabile, è perdonabile la colpa del persecutore, del massacratore e del mandante del massacro? E quella dello spettatore, che sta nella zona grigia denunciata da Primo Levi, dove assiste passivamente, con indifferenza morale e mortale, alla distruzione di esseri umani per mano e volontà umana?
Il problema è stato trattato da alcune delle menti filosofiche più sottili del Novecento. Senza alcuna pretesa di completezza riprendo i commenti di Jacques Derrida ad alcuni scritti sul perdono di Vladimir Jankélévitch, filosofo della Sorbona, e musicologo insigne. Clara Mucci cita il testo, che riprendo con una angolatura un po’diversa.
Derrida con Perdonare va al cuore del problema con la domanda: il perdono può essere dato solo se viene chiesto e se c’è pentimento? solo questo apre alla salvezza e riconciliazione? E osserva che il legame tra pentimento e perdono è proprio del senso comune e deriva dalle grandi tradizioni religiose e filosofiche di origine ebraico-cristiana:

“Ch’assolver non si può chi non si pente” Dice Dante nell’Inferno (27, 118)

A questa tradizione si richiama anche Vladimir Jankélévitch nell’Imprescrittibile, (1971) scrivendo dei tedeschi dopo la Shoah:
“Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d’essere al perdono” “chiedere perdono! Noi abbiamo aspettato a lungo una parola di comprensione e di simpatia (…) L’abbiamo sperata questa parola fraterna” (4)
Derrida mostra come questo non sia l’unico senso del termine perdono, e mostra le aporie del perdono che, in una logica paradossale e iperbolica, è impossibile e non prescrivibile. Ovvero è possibile come dono-perdono, il dono gratuito che si dà indipendentemente dal fatto che venga chiesto. E’ il perdono inteso storicamente come grazia, divina o regale, come mercy, pardon, clemenza, è il perdono-dono.
Ma perché soffermarsi su questa dibattito? Non per discutere se nella posizione di Derrida sia insita la prescrizione di un tale perdono-dono: non a caso Derrida cita un verso del poeta Paul Eluard:

Non c’è salvezza sulla terra/finchè si può perdonare ai carnefici.

ma perché si tratta di un esempio di discussione oserei dire di tipo talmudistico (o magari un dialogo socratico?) sul concetto di perdono, che non viene svuotato di senso, ma non riceve nemmeno una risposta univoca e definitiva. E ci lascia inquieti, con i nostri interrogativi.
Il lavoro del perdono
Ma il lavoro della Mucci non si ferma a questo e ricostruisce ciò che può andare al di là del trauma. Il sentimento di frammentazione interna e la perdita stessa della vita psichica in un soggetto possono essere superati, e la catena delle identificazioni traumatiche tra una generazione e l’altra può essere interrotta. Oltrepassare il trauma a livello individuale significa superare l’esperienza di disumanizzazione attraverso la capacità di legame. L’autrice segnala come le ricerche convergano nell’indicare che una forte capacità di legame previa, acquisita attraverso l’esperienza di amore ricevuto nell’infanzia è la base per la ricostruzione della diade interna dopo il trauma.
Un terapeuta che testimoni la realtà degli eventi insieme al paziente, e sia capace di giusta distanza favorisce questo processo di recupero e la creazione di nuovi legami. Si tratta per il traumatizzato di attraversare la posizione depressiva abbandonando le identificazioni con i persecutori, accettando la rabbia per gli eventi accaduti. Se il soggetto si riconnette con gli altri può far cadere il legame con il persecutore e abbandonare sia l’idea di ottenere una compensazione dal persecutore sia quella di vendetta: entrambe implicano il perdurare di un legame.
Il lavoro del trauma, che nei traumi collettivi può richiedere più di una generazione, implica liberarsi dai sentimenti negativi verso gli aggressori, e anche dal dolore.
Questo è il “lavoro del perdono”, termine che non ha qui l’usuale accezione religiosa, ma si riferisce piuttosto alla capacità di comprendere il comportamento altrui senza giustificarlo ma senza esserne più né perseguitati né parassitati.

Questo processo, a partire dal livello individuale, conclude Clara Mucci, si riverbera sulle relazioni umane e “ha conseguenze anche sul mondo”. Non si tratta di “perdonare gli accadimenti”: non li si può né si deve cancellare perché questo sarebbe immorale, ma, come mostrano gli interventi psicologici di gruppo dopo guerre e genocidi, in Africa e in altri paesi, ci si può liberare dall’odio, dalla ripetizione, dalla disperazione.

Aprirsi al futuro

Un richiamo al legame pentimento-perdono si trova nella Arendt, osserva Stefano Levi della Torre :
“Pentimento da un lato e perdono dall’altro sono i termini di un dialogo oltre l’offesa… Il perdono non cancella un passato insanabile, ma apre una nuova prospettiva per il futuro; spezza -scriveva Hanna Arendt- la coazione a ripetere, la catena della colpa e della vendetta, le simmetrie dell’odio” (Il girasole p. 171)
Ma sono i commenti al racconto autobiografico di Wiesenthal, il famoso cacciatore di nazisti, nel libro Il girasole. I limiti del perdono, che ci permettono di ampliare la discussione sul tema. Mi soffermerò sul libro espandendo il riferimento che ne fa Clara Mucci.
Simon Wiesenthal racconta un episodio altamente drammatico vissuto da internato in campo di concentramento a Leopoli, in Polonia, nel 1942. Simon viene portato in ospedale al capezzale di un soldato tedesco, una SS di ventun anni, ferito a morte, che gli racconta di aver partecipato ad un’azione contro un gruppo di ebrei inermi, donne uomini e bambini ammassati in una casa minata con fusti di benzina. Il plotone aveva lanciato bombe a mano dentro le finestre della casa, che aveva preso fuoco avvolgendo nelle fiamme quelli che vi erano intrappolati. Il soldato è perseguitato dall’orrore per ciò che ha fatto: un padre che cercava scampo alle fiamme gettandosi dalla finestra con il bambino in braccio mentre i soldati aprivano il fuoco contro chi avesse cercato di scampare da quell’inferno. L’immagine della famigliola intrappolata tra le fiamme lo perseguita. Durante un’azione di guerra l’immagine gli si presenta con tanta intensità (flashback traumatico?) che non si accorge di una granata russa che lo colpisce, accecandolo e riducendolo in fin di vita.
Il ferito chiede a Wiesenthal perdono in quanto ebreo, per morire in pace. Wiesenthal prova orrore e pietà per il ferito, lo ascolta in silenzio, caccia le mosche dalla ferita, gli dà l’acqua, ma non gli dà il perdono richiesto. Appena possibile si allontana, e viene riportato al suo blocco di deportato. Dopo tragiche vicende in cui perderà quasi tutti i compagni di prigionia, e verrà trasferito in altri campi di sterminio, Wiesenthal finisce a Mauthausen, dove nel maggio 1945 arriva la liberazione.
Nel 1946 rintraccia la madre del soldato tedesco, che è morto due giorni dopo il loro incontro e le dice parole di conforto sul figlio. Ma non cessa di domandarsi se avrebbe dovuto o no perdonarlo. Ne parla da deportato ai compagni di prigionia, e poi successivamente rivolge la domanda a pensatori, scrittori, filosofi, uomini di legge, teologi di diverse religioni. Dalle loro risposte nasce nel 1970 il libro Il girasole che poi si sviluppa in edizioni successive. Le risposte sono molto diverse, alcuni autori osservano che Wiesenthal ha dato anche più del perdono al ferito, gli ha dato la sua umanità, e la sua pietà ascoltandolo e andando dalla madre. Altri entrano nel merito del diritto/dovere di perdonare o del dovere di non perdonare. Molti sottolineano che non si può perdonare ciò che è fatto ad altri, come sottolinea con ironia amara Paolo De Benedetti: “non si deve porgere la guancia dell’altro”… (p.110)
Tra i vari commenti quello del rabbino Kushner apre ad una prospettiva che spezza il legame tra persecutore e offeso e vede la parte lesa riappropriarsi della sua soggettività, mettendosi in posizione attiva, rifiutando la condizione di vittima:

“ Quello che avete fatto è assolutamente mostruoso e vi mette fuori dalla categoria degli esseri umani Ma rifiuto di darvi la possibilità di definire me una vittima…Io non vi odio, vi rifiuto”
(p. 164)

Concludo con una citazione di Imre Kertesz, che apre al futuro dopo la distruzione dovuta ai traumi collettivi e mi pare consonante con lo spirito di questo libro:
“Sul fondo delle grandi prese di coscienza, anche se si basano su insuperabili tragedie, si nasconde l’elemento della libertà che inonda la nostra vita con qualcosa in più, con una certa ricchezza, facendoci accorgere del semplice fatto della nostra esistenza e della responsabilità della stessa. Perciò, quando considero l’effetto traumatico di Auschwitz, in modo paradossale penso al futuro anziché al passato” ( La lingua esiliata in Il secolo infelice, p. 219)
Note
(1) Cfr Bohleber W. Identità, trauma e ideologia, p.115.
(2) Cfr. Trauma e perdono, p. 171
(3) Auerhan, N.C., Prelinger E. “Repetition in the concentration camp survivor and her child”, in Trauma e perdono, p.117
(4) Cfr Derrida J. Perdonare, pp.40-41
Bibliografia
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