Clara Mucci (2014)
Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale
Raffaello Cortina Editore
Il libro di Clara Mucci Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale si segnala innanzitutto per la cura e la completezza con cui ricostruisce la storia e la “fortuna” del concetto di trauma individuale e sociale in ambito psicoanalitico, trattandone il background storico. E per la capacità di integrare le ricerche cliniche con quelle psicosociali e neurobiologiche sull’attaccamento, commentate e corredate da una vastissima bibliografia.
Questo a partire dalla domanda: “che cosa è un trauma?” per arrivare al cuore del problema: “che cosa fa soffrire il traumatizzato”? Un evento “reale”? O una fantasia, cioè una costruzione fatta di pensieri, di immagini?
Il dibattito è cruciale in psicoanalisi, perché la psicoanalisi vera e propria nasce quando Freud, scoprendo le fantasie edipiche, attribuisce un ruolo patogeno alle fantasie di seduzione, mettendo in secondo piano l’eziologia traumatica della nevrosi. Ancor oggi, parte della psicoanalisi osserva come l’analista dovrebbe potere tollerare di non sapere, di non poter raggiungere una verità storica. Ci sarà sempre la verità psicologica del transfert e controtrasfert a orientarlo.
Diversa da questa posizione è quella di Ferenczi, che fu e rimase, in polemica con la “teoria del fantasma”, il più forte sostenitore della tesi della “realtà” degli abusi: con lui “al percorso freudiano del conflitto e della rimozione si contrappone quello del trauma e della dissociazione”.( IX)
La Mucci riprende i due poli della discussione sul peso della “realtà” nei traumi a partire dallo studio delle tracce psichiche causate dai traumi collettivi che hanno gettato nuova luce anche sul lavoro sui traumi individuali. Commentando il pensiero di Fonagy il quale ritiene che la psicoanalisi debba astenersi da cercare la verità storica del trauma, Clara Mucci segnala il rischio di negare alle vittime quel riconoscimento della realtà dei traumi subiti che è il primo passo della cura e il primo passo per uscire da un meccanismo di ripetizione che può stritolare il soggetto traumatizzato nelle sue spire: minando la sua salute mentale e quella delle generazioni successive.
La testimonianza attiva del traumatizzato e del sopravvissuto, il suo ricordare, il suo raccontare, il suo voler essere ascoltato è il primo passo di un recupero psichico, ci segnalano le ricerche. Ma è una dura conquista, come sappiamo da Primo Levi e da Elie Wiesel: al ritorno dal Lager chi voleva raccontare trovava poco o niente ascolto, perché negli astanti prevaleva la richiesta a evitare, o a dimenticare. Chi poi non voleva raccontare o ricordare poteva al contrario trovarsi assillato da richieste invadenti. Il paradosso della testimonianza del traumatizzato viene ben descritto da un brano che l’autrice trae da Testimony (1992) di Dori Laub, analista sopravvissuto al campo di concentramento,:
“Chi ascolta deve sapere che il sopravvissuto al trauma (…) teme profondamente quella conoscenza, rifugge da essa e può chiudersi a ogni momento (…)Il silenzio è (…) un esilio predestinato, tuttavia anche una casa, una destinazione e una promessa solenne” (171)
Ma il lavoro della Mucci non si ferma a questo e ricostruisce ciò che può andare al di là del trauma. Il sentimento di frammentazione interna e la perdita stessa della vita psichica in un soggetto possono essere superati, e la catena delle identificazioni traumatiche tra una generazione e l’altra può essere interrotta. Oltrepassare il trauma a livello individuale significa superare l’esperienza di disumanizzazione attraverso la capacità di legame. L’autrice segnala come le ricerche convergano nell’indicare che una forte capacità di legame previa, acquisita attraverso l’esperienza di amore ricevuto nell’infanzia è la base per la ricostruzione della diade interna dopo il trauma. Un terapeuta che testimoni la realtà degli eventi insieme al paziente, e sia capace di giusta distanza, favorisce questo processo di recupero e la creazione di nuovi legami. Si tratta per il traumatizzato di attraversare la posizione depressiva abbandonando le identificazioni con i persecutori, accettando la rabbia per gli eventi accaduti. Se il soggetto si riconnette con gli altri può far cadere il legame con il persecutore e abbandonare sia l’idea di ottenere una compensazione dal persecutore sia quella di vendetta: entrambe implicano il perdurare di un legame.
Il lavoro del trauma, che nei traumi collettivi può richiedere più di una generazione, implica liberarsi dai sentimenti negativi verso gli aggressori, e anche dal dolore. Questo è il “lavoro del perdono”, termine che non ha qui l’usuale accezione religiosa, ma si riferisce piuttosto alla capacità di comprendere il comportamento altrui senza giustificarlo ma senza esserne più né perseguitati né parassitati. Questo processo, a partire dal livello individuale, conclude Clara Mucci, si riverbera sulle relazioni umane e “ha conseguenze anche sul mondo”.
Non si tratta di “perdonare gli accadimenti”: non li si può né li si deve cancellare perché questo sarebbe immorale, ma, come mostrano gli interventi psicologici di gruppo dopo guerre e genocidi, in Africa e in altri paesi, anche collettivamente ci si può liberare dall’odio, dalla ripetizione, dalla disperazione.
Valeria Egidi Morpurgo
Maggio 2016