Judith Dupont
Sul filo della memoria. Un itinerario psicoanalitico in compagnia di Ferenczi e Balint
Data originale del libro: 2015
Data della versione italiana: 2018
Casa Editrice: Arpa Edizioni
Stampato da: UNIVERSALBOOK s.r.l., Rende (Cosenza)
Recensione a cura di Franco Borgogno
Tutti i saggi di questo volume autobiografico – uscito in francese nel 2015 – ci parlano della Renaissance di Ferenczi, di cui con Haynal l’Autrice è stata ed è la principale artefice al di là di tutto il lavoro compiuto in precedenza da Michael Balint, Alice Balint, Enid Balint in questa direzione. Si deve infatti a Judith Dupont sia la pubblicazione in francese del Diario Clinico nel 1985, sia quella dei tre volumi della Corrispondenza fra Sigmund Freud e Sándor Ferenczi anch’essi usciti per la prima volta in francese a partire dal 1992 (prima di essere tradotti in molte altre lingue) grazie all’assidua collaborazione di un gruppo di colleghi della rivista Le Coq-Héron che lei ha contribuito a fondare svincolandola da ogni appartenenza di scuola.
Nominata nel 1969 erede letterario di Ferenczi da Balint in accordo alla di lui moglie Gizella e alle sue due figlie Elma e Magda, si può dire che Judith Dupont sia nata al centro dell’universo ferencziano che in tutto il libro lei descrive insaporendolo di aneddoti curiosi e di parecchie fotografie, molte delle quali inedite, che raffigurano suoi familiari e mentori, o persone della stretta cerchia dei Balint con cui era imparentata (tutti quanti allievi di Ferenczi che viveva a due passi dalla loro casa). Fra questi: sua nonna Vilma Kovács (psicoanalista ungherese importantissima per le sue riflessioni sui processi di transfert e controtransfert all’interno della formazione analitica), la cui figlia maggiore Alice sposò Michael Balint divenendo entrambi anch’essi, dopo un’insoddisfacente esperienza d’analisi a Berlino con Hans Sachs, pazienti e fervidi allievi di Ferenczi; Alice Balint, i cui assai poco conosciuti scritti sono – quale invito alla loro lettura – commentati e posti nel giusto rilievo che meritano da Dupont; la propria madre Olga, brillante pittrice – famosa a Londra per i ritratti di Melanie Klein e dei suoi figli piccoli, della figlia di Paula Heimann…e a New York per il ritratto di Gillespie e altri – che in uno dei suoi regolari soggiorni a Parigi per esporre i suoi dipinti e i suoi disegni incontra Laszlo Dormandi che diventerà il suo futuro marito (prolifico scrittore che a Budapest aveva dato la luce in ungherese a Thalassa per i tipi della rilevante casa editrice Panthéon da lui gestita). Parigi, dove con l’Anschluss emigrerà con tutta la famiglia sostenuta dall’amica Marie Bonaparte, mentre i Balint aiutati da John Rickman (altro allievo di Ferenczi e secondo analista di Bion) ottennero con non poche difficoltà il visto per trasferirsi a Manchester.
Dopo aver presentato i suoi avi, non si può non esclamare <<che famiglia!>>: una famiglia di grandi psicoanalisti e di amanti dei libri in seno alla quale l’Autrice è cresciuta facendosi vieppiù appassionata sia dei libri e della loro traduzione (tipografo-editore e medico è anche il suo sposo proprio come suo padre), sia della psicoanalisi di cui ha “bevuto il latte” sin da molto piccola. A queste due passioni – libri e psicoanalisi – sono dedicate per l’appunto le ultime pagine del primo saggio di questo libro da cui emerge – tratto distintivo della dinastia da cui proviene – la sua netta e chiara indipendenza di pensiero e il rifiuto di ogni conformismo e di ogni autoritarismo. Preziose e profonde al riguardo le sue riflessioni su cosa significa essere analisti e come lo si diventa e la sua gustosa descrizione, al momento di dover scegliere il suo analista e la società a cui appartenere (1954), del perché avesse finito per optare a favore di Daniel Lagache e dell’Association Psychanalytique de France (APF) che le parvero alquanto più democratici e meno settari delle altre società e dei diversi psicoanalisti francesi con cui fece più colloqui.
Non potendo per motivi di spazio soffermarmi come vorrei sul secondo e sul terzo saggio di questo libro (l’uno incentrato su Ferenczi e sul suo percorso, l’altro su Michael e Alice Balint), mi limiterò qui a segnalare la mirabile equidistanza dell’Autrice nello sviscerare le idee di Ferenczi e il rapporto con Freud e nell’illustrare l’elaborazione creativa che i Balint (Michael, Alice, Enid) ne fecero. Rispetto a Ferenczi e Freud, Dupont non è mai partigiana, ma sempre esamina e giustifica le loro ragioni e le loro emozioni transferali marcate da quell’ambivalenza che connota ogni relazione autentica, mostrandoci un Ferenczi più freudiano e un Freud più ferencziano di quanto comunemente li si pensi e come le loro divergenze si situassero sostanzialmente a livello dell’atteggiamento e della tecnica utilizzati per rendere la vita dei loro pazienti più vivibile. Interessante e stimolante il suo introdurre tra Freud il Professore e Ferenczi il Dottore la figura di Groddeck e il suo tentativo di integrare mente e corpo, florida sessualità inclusa.
Per quanto riguarda invece i Balint, Dupont enumera i vari concetti ferencziani da loro ripresi e sviluppati con immaginazione inventiva e fedeltà al Maestro: l’importanza del rapporto madre-bambino; la presenza di un infante in ogni adulto; la cura ad personam di qualsivoglia paziente; la regressione in cui incorre inevitabilmente l’analisi, in specie con i pazienti più gravi e con gli psicotici; l’universalità dei traumi da distinguersi a seconda dei casi e le loro conseguenti diverse difese, dipendenti dalla natura degli eventi che li hanno determinati, dalla risposta che l’ambiente vi ha dato, dai fantasmi che ne sono scaturiti; la “non-indifferenza” necessaria a un “nuovo inizio”; la confusione delle linguee l’identificazione con l’aggressore agente del trauma; e, infine, il peso del ruolo del padre per la soggettivazione dell’individuo.
Elementi essenziali tutti questi che sono esitati nei Balint nella concezione: dell’amore primario e dell’odio reattivo a carenze e a reiterate frustrazioni; del difetto fondamentale con le sue immancabili derive ocnofiliche e filobatiche; dei due risvolti della regressione (quella benigna che esige il riconoscimento del bisogno, quella maligna che mira alla gratificazione delle pulsioni senza potere mai essere soddisfatta); delle varie fasi del trauma; della costituzione dell’apparato psichico in tre aree: l’area della creazione, l’area del difetto fondamentale, l’area del complesso edipico, che richiedono ciascuna d’esse un differente modo di avvicinare il paziente con linguaggio e atteggiamento a lui appropriati.
Colpisce in questo libro – che raccomando non solo ai lettori ferencziani poiché intreccia l’influenza dei Balint con quella della psicoanalisi francese entro cui l’Autrice ha trovato casa come analista – la ripetitività con cui quest’ultima passa in rassegna gli originali contributi di Ferenczi e dei Balint coniugandoli anche con gli accenti transgenerazionali di Nicholas Abraham e di Maria Torok, e con l’enorme esperienza di bambini e famiglie di Françoise Dolto. Ripetitività dovuta al suo convincimento della facilità con cui ancor oggi può essere malintesa una forma di pensiero che si discosta dalle prospettive più classiche e frequentate, in parte rettificandole. Assolutamente da leggere per la loro disarmante semplicità openminded le finali considerazioni su un articolo dimenticato di Michael Balint del 1926 intitolato “La lotta dell’adolescente contro la masturbazione”.