La Ricerca

“Sul filo della memoria” di J. Dupont. Recensione di F. Borgogno

31/12/21
Bozza automatica 6

Judith Dupont

Sul filo della memoria. Un itinerario psicoanalitico in compagnia di Ferenczi e Balint

Data originale del libro: 2015

Data della versione italiana: 2018

Casa Editrice: Arpa Edizioni

Stampato da: UNIVERSALBOOK s.r.l., Rende (Cosenza)

Recensione a cura di Franco Borgogno

Tutti i saggi di questo volume autobiografico – uscito in francese nel 2015 – ci parlano della  Renaissance di Ferenczi, di cui con Haynal l’Autrice è stata ed è la principale artefice al di là di tutto il lavoro compiuto in precedenza da Michael Balint, Alice Balint, Enid Balint in questa direzione. Si deve infatti a Judith Dupont sia la pubblicazione in francese del Diario Clinico nel 1985, sia quella dei tre volumi della Corrispondenza fra Sigmund Freud e Sándor Ferenczi anch’essi usciti per la prima volta in francese a partire dal 1992 (prima di essere tradotti in molte altre lingue) grazie all’assidua collaborazione di un gruppo di colleghi della rivista Le Coq-Héron che lei ha contribuito a fondare svincolandola da ogni appartenenza di scuola.

Nominata nel 1969 erede letterario di Ferenczi da Balint in accordo alla di lui moglie Gizella e alle sue due figlie Elma e Magda, si può dire che Judith Dupont sia nata al centro dell’universo ferencziano che in tutto il libro lei descrive insaporendolo di aneddoti curiosi e di parecchie fotografie, molte delle quali inedite, che raffigurano suoi familiari e mentori, o persone della stretta cerchia dei Balint con cui era imparentata (tutti quanti allievi di Ferenczi che viveva a due passi dalla loro casa). Fra questi: sua nonna Vilma Kovács (psicoanalista ungherese importantissima per le sue riflessioni sui processi di transfert e controtransfert all’interno della formazione analitica), la cui figlia maggiore Alice sposò Michael Balint divenendo entrambi anch’essi, dopo un’insoddisfacente esperienza d’analisi a Berlino con Hans Sachs, pazienti e fervidi allievi di Ferenczi; Alice Balint, i cui assai poco conosciuti scritti sono – quale invito alla loro lettura – commentati e posti nel giusto rilievo che meritano da Dupont; la propria madre Olga, brillante pittrice – famosa a Londra per i ritratti di Melanie Klein e dei suoi figli piccoli, della figlia di Paula Heimann…e a New York per il ritratto di Gillespie e altri – che in uno dei suoi regolari soggiorni a Parigi per esporre i suoi dipinti e i suoi disegni incontra Laszlo Dormandi che diventerà il suo futuro marito (prolifico scrittore che a Budapest aveva dato la luce in ungherese a Thalassa per i tipi della rilevante casa editrice Panthéon da lui gestita). Parigi, dove con l’Anschluss emigrerà con tutta la famiglia sostenuta dall’amica Marie Bonaparte, mentre i Balint aiutati da John Rickman (altro allievo di Ferenczi e secondo analista di Bion) ottennero con non poche difficoltà il visto per trasferirsi a Manchester.

Dopo aver presentato i suoi avi, non si può non esclamare <<che famiglia!>>: una famiglia di grandi psicoanalisti e di amanti dei libri in seno alla quale l’Autrice è cresciuta facendosi vieppiù appassionata sia dei libri e della loro traduzione (tipografo-editore e medico è anche il suo sposo proprio come suo padre), sia della psicoanalisi di cui ha “bevuto il latte” sin da molto piccola. A queste due passioni – libri e psicoanalisi – sono dedicate per l’appunto le ultime pagine del primo saggio di questo libro da cui emerge – tratto distintivo della dinastia da cui proviene – la sua netta e chiara indipendenza di pensiero e il rifiuto di ogni conformismo e di ogni autoritarismo. Preziose e profonde al riguardo le sue riflessioni su cosa significa essere analisti e come lo si diventa e la sua gustosa descrizione, al momento di dover scegliere il suo analista e la società a cui appartenere (1954), del perché avesse finito per optare a favore di Daniel Lagache e  dell’Association Psychanalytique de France (APF) che le parvero alquanto più democratici e meno settari delle altre società e dei diversi psicoanalisti francesi con cui fece più colloqui.

Non potendo per motivi di spazio soffermarmi come vorrei sul secondo e sul terzo saggio di questo libro (l’uno incentrato su Ferenczi e sul suo percorso, l’altro su Michael e Alice Balint), mi limiterò qui a segnalare la mirabile equidistanza dell’Autrice nello sviscerare le idee di Ferenczi e il rapporto con Freud e nell’illustrare l’elaborazione creativa che i Balint (Michael, Alice, Enid) ne fecero. Rispetto a Ferenczi e Freud, Dupont non è mai partigiana, ma sempre esamina e giustifica le loro ragioni e le loro emozioni transferali marcate da quell’ambivalenza che connota ogni relazione autentica, mostrandoci un Ferenczi più freudiano e un Freud più ferencziano di quanto comunemente li si pensi e come le loro divergenze si situassero sostanzialmente a livello dell’atteggiamento e della tecnica utilizzati per rendere la vita dei loro pazienti più vivibile. Interessante e stimolante il suo introdurre tra Freud il Professore e Ferenczi il Dottore la figura di Groddeck e il suo tentativo di integrare mente e corpo, florida sessualità inclusa.

Per quanto riguarda invece i Balint, Dupont enumera i vari concetti ferencziani da loro ripresi e sviluppati con immaginazione inventiva e fedeltà al Maestro: l’importanza del rapporto madre-bambino; la presenza di un infante in ogni adulto; la cura ad personam di qualsivoglia paziente; la regressione in cui incorre inevitabilmente l’analisi, in specie con i pazienti più gravi e con gli psicotici; l’universalità dei traumi da distinguersi a seconda dei casi e le loro conseguenti diverse difese, dipendenti dalla natura degli eventi che li hanno determinati, dalla risposta che l’ambiente vi ha dato, dai fantasmi che ne sono scaturiti; la “non-indifferenza” necessaria a un “nuovo inizio”; la confusione delle linguee l’identificazione con l’aggressore agente del trauma; e, infine, il peso del ruolo del padre per la soggettivazione dell’individuo.

Elementi essenziali tutti questi che sono esitati nei Balint nella concezione: dell’amore primario e dell’odio reattivo a carenze e a reiterate frustrazioni; del difetto fondamentale con le sue immancabili derive ocnofiliche e filobatiche; dei due risvolti della regressione (quella benigna che esige il riconoscimento del bisogno, quella maligna che mira alla gratificazione delle pulsioni senza potere mai essere soddisfatta); delle varie fasi del trauma; della costituzione dell’apparato psichico in tre aree: l’area della creazione, l’area del difetto fondamentale, l’area del complesso edipico, che richiedono ciascuna d’esse un differente modo di avvicinare il paziente con linguaggio e atteggiamento a lui appropriati.

Colpisce in questo libro – che raccomando non solo ai lettori ferencziani poiché intreccia l’influenza dei Balint con quella della psicoanalisi francese entro cui l’Autrice ha trovato casa come analista – la ripetitività con cui quest’ultima passa in rassegna gli originali contributi di Ferenczi e dei Balint coniugandoli anche con gli accenti transgenerazionali di Nicholas Abraham e di Maria Torok, e con l’enorme esperienza di bambini e famiglie di Françoise Dolto. Ripetitività dovuta al suo convincimento della facilità con cui ancor oggi può essere malintesa una forma di pensiero che si discosta dalle prospettive più classiche e frequentate, in parte rettificandole. Assolutamente da leggere per la loro disarmante semplicità openminded le finali considerazioni su un articolo dimenticato di Michael Balint del 1926 intitolato “La lotta dell’adolescente contro la masturbazione”.

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Ferenczi Miskolc Sándor

Leggi tutto

VideoIntervista a Franco Borgogno

Leggi tutto