La Ricerca

“Psicoanalisti in Lockdown” di M. Horovitz e A. Lucattini. Recensione di J. De Luca

28/06/22
"Psicoanalisti in lockdown" a cura di M. Horovitz e A. Lucattini

Psicoanalisti in Lockdown. Efemeridi di menti a distanza

A cura di Monica Horovitz e Adelia Lucattini

(Solfanelli ed. 2022)

Recensione a cura di Jones De Luca

Parole chiave: #ricerca #trauma #pandemia #campo #metodo #tecnica  

È possibile scrivere qualcosa sull’esperienza che abbiamo avuto di noi stessi e del nostro lavoro durante il tempo del Covid-19 che, non ancora passato, vorremo già dimenticare?

E poi, abbiamo voglia di leggere qualcosa di cui vorremo anche liberarci col timore di non riuscirci mai, colti – ancora? Ma non era finita? – da notizie d’intere megalopoli in Lockdown?

Nel libro “Psicoanalisti in Lockdown” si tratta di questo.

Le curatrici ci propongono un inizio impegnativo: viene esaminato con una lucidità quasi spietata quello che succede quando c’è “un mondo sovrapposto”, quando cioè in un contesto più o meno traumatico per analista e paziente insieme, la stessa capacità di condividere, la più grande risorsa dell’analista, diventa fonte di un effetto pericoloso in cui il materiale proveniente da questo “mondo sovrapposto” irradia un effetto patogeno molto complesso che può trasformare lo sforzo analitico.

Si tratta di un lavoro di Janine Puget e Leonardo Wender, presentato all’Associazione Psicoanalitica di Buenos Aires nel 1982. Il riferimento è a una crisi istituzionale in cui “le coppie analisti-pazienti, condividevano un medium e una problematica sui quali ciascuno di essi disponeva di informazioni e notizie dotate di interessi e valori comuni I pazienti assunsero a volte il ruolo di informatori indispensabili per l’analista … Era difficile delimitare il campo analitico rispetto alla realtà esteriore, che invece tendevano a confondersi sia per l’accumulo di informazioni, sia per alcune fragranti omissioni che riguardavano ciò che era già presente in ambito pubblico…” (p. 24).

Ci viene descritto come l’analista rischi di sentirsi in trappola e possa sentire che la “parete protettiva” va in frantumi.

La sua “capacità discriminante” è posta sotto uno sforzo particolare, il tempo condiviso può essere inconsciamente al servizio dell’elaborazione di informazioni traumatiche che riguardano lui stesso, l’analista, in prima persona.

Condizionato dalla precarietà che vive, potrebbe allora produrre una risposta a partire dal suo essere sociale e non a partire dal suo essere analista.

Così la fine dell’ora non segnerà una separazione dal paziente, né la rottura temporanea del legame e l’analista cadrà in uno stato di sospensione e di irrisolutezza” (p.31).

In questo contesto l’analista è esposto a “esondazioni, offuscamenti emotivi che si esprimono attraverso il silenzio stuporoso o altrimenti attraverso impulsi a chiedere più elementi concreti da interpretare. Lo stato di attivazione narcisistica e confusionale porta l’analista a regredire alle tappe inziali del lavoro analitico in cui l’intero universo della sicurezza professionale, materiale di separazione dalla psicosi, dipenderà da ciò che solo un oggetto può fornire: il paziente (…). Vi sono informazioni traumatiche che isolatamente possono venir metabolizzate durante la seduta, ma se sono ripetute da più pazienti durante la stessa giornata provocheranno una saturazione emotiva …tale accumulazione traumatica ha un effetto insidioso.” (p.32)   

Questo è l’inizio: un lavoro di quarant’anni fa.

Ma veniamo ai giorni nostri.

Monica Horovitz della Société Psychanalytique de Paris (SPP) e della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) invita una delle autrici del lavoro dell’82, Janine Puget, ad unirsi al gruppo di studio su Wilfred Bion da lei voluto e tenuto dal 2003 per l’SPP, che in occasione del lockdown internazionale del 2020 estende anche a psicoanalisti di altre nazioni e continenti.

Chiede alla psichiatra e psicoanalista argentina, di scrivere qualcosa come stimolo di riflessione al gruppo: il testo del 1982, rivisitato, fornisce ai tredici autori di questo saggio, promosso dal gruppo, un contenitore potente per descrivere quello che a loro è successo nel 2020 con la pandemia e i loro primi pensieri.

Mi sono soffermata su questo incipit perché è una cornice importante per il libro e permette di passare alla fase successiva del testo, dove il registro della comunicazione cambia radicalmente.

In quattro Atti che si susseguono incalzanti, ci viene riproposta l’esperienza dei primi mesi del Lockdown che, in una registrazione “dal vivo”, quasi giornalistica, prende la forma della “testimonianza”.

Arrivano ricordi, pensieri, osservazioni a caldo, riferimenti agli autori cari a ognuno, tentativi di dare una prima forma alla “sovrabbondanza di realtà” (Lorgeoux Gallais, p. 204), rimedi improvvisati, prove, scoperte, errori e timori. In una cascata di emozioni e riflessioni, guidando attraverso città improvvisamente vuote e silenziose, fermati ai posti di blocco da poliziotte dagli occhi chiari, ci ritroviamo là, dove eravamo appena stati, a provare quello che ci eravamo già dimenticati di aver provato.

Non vorrei con troppe anticipazioni, privare il lettore della scoperta personale della ricchezza di esperienze e osservazioni che questo libro ci porta, farò solo alcuni accenni.

Leggendo, potremmo scoprire che abbiamo quasi dimenticato quello che ci è successo quando abbiamo dovuto perdere la vicinanza fisica, rinunciando di colpo al soccorso del corpo che ci era sempre venuto in aiuto quando la mente non poteva o non riusciva a dare spiegazioni e contenimento (Lucattini, p. 50).

Potremo ritrovare la stanchezza fisica, che ancora non passa, di cui tutti parlavamo e non sapevamo spiegarci (Gloukhovskaia, p.79; Torrente, p.107), arricchita di osservazioni e riflessioni. Il bisogno di rassicurare ed essere rassicurati (Tabet, p.105) nei momenti “vertiginosi di simmetria, sovrapposizione e confusione tra due mondi di angosce” (Zannier, p. 111), ci faceva temere di perdere la nostra funzione analitica.

Potremmo ricordare lo stato di sospensione (Lucattini, p.177) che tutti abbiamo vissuto e che forse, sottotraccia, ancora viviamo.

C’è chi, davanti a catastrofi ulteriori in città dilaniate come Beirut, ha sentito che non disponeva ancora di parole adatte, ma che poteva ringraziare i colleghi del seminario per l’affetto e la solidarietà che avevano espresso (Tabet, p.102). C’è anche chi pensava di rimettere in discussione le critiche fatte in precedenza alla tecnologia della comunicazione, ora diventata irrinunciabile (Augoyard, p. 77).

La lettura, superato lo scoglio inziale, diventa allora avida, veloce.

La brevità di molti interventi e il loro ritmo quasi giornalistico la rendono intensa fino ad arrivare nel IV Atto, datato “27 giugno 2020”, a un’estate senza primavera dove cominciano a riapparire i sogni (Lucattini, p. 232).

Come molti autori ci hanno insegnato (Bejamin, Bohleber, Krystal, Beebe Tarantelli) la funzione di testimonianza, centrale nel momento dell’elaborazione del trauma, è imprescindibile nella rievocazione del trauma collettivo che, diversamente da altri traumi, non può essere elaborato in solitudine o solo nella coppia analitica.

Qui, raccontata e conservata in un gruppo di lavoro che indoviniamo pieno di affetti e intelligenza, troviamo la testimonianza di quello che ci è accaduto dentro e le cui le tracce sperse presenti ora prendono senso.

Vediamo soprattutto la mente analitica al lavoro, comunque, sempre, inarrestabile.

Buona lettura.

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"Psicoanalisti in lockdown" a cura di M. Horovitz e A. Lucattini

Leggi tutto

"Lock-mind" di P. R. Goisis e A. A. Moroni. Recensione di D. Lisciotto

Leggi tutto