La Ricerca

Psicoanalisi e luoghi della negazione

5/06/13

Psicoanalisi e luoghi della negazione, Edizioni Frenis Zero, Lecce ,2012

Recensione con interviste  di Daniela Scotto Di Fasano

Psicoanalisi e luoghi della negazione è un volume imponente.

“Sono le dieci di sera. Squilla il telefono a casa di un’analista. A chiamare è una vecchia paziente, che ha concluso da più di dieci anni la sua lunga analisi” (7). È l’incipit di Ambra Cusin che precipita il lettore nel tumulto di vicende traumatiche che hanno come inevitabile correlato i luoghi della negazione. Ecco perché la “vecchia paziente” chiama: ha scoperto cose che aveva taciuto a sua stessa insaputa. Sente, per questo, di aver fatto “un’analisi finta”. Nella seconda analisi, che avrà luogo in seguito alla ripresa dei contatti, si comprenderà che emergono “non ricordi ma collegamenti tra singoli ricordi spezzettati”. 

Scotto Di Fasano: Perché i ‘collegamenti’ non hanno valenza di ‘ricordi’? Come potranno funzionare? Quali strumenti di senso nei confronti dei traumi.
Cusin: “La paziente telefona anni dopo aver finito una lunghissima analisi dove mai aveva parlato delle origini ebraiche della sua famiglia. Più volte in analisi aveva accennato a tanti fatti, ma mai era riuscita a pensare ai collegamenti tra questi fatti. Per esempio, il fatto che i genitori erano andati nel 1942 in Alto Adige: la paziente dava per scontato che fosse stato per lavoro. Contemporaneamente, sapeva che negli stessi anni una significativa parte della sua famiglia era scappata per nascondersi e che la bisnonna e uno zio di sua madre erano stati deportati e mai più erano tornati. Tali informazioni mai si erano collegate tra loro per farle venire il dubbio sul fatto che forse i genitori erano in uno sperduto paesino di montagna per evitare le persecuzioni che a Trieste erano state devastanti: la comunità ebraica vi è stata quasi distrutta. Aveva, mi disse, sempre conosciuto questi fatti. Mai però si era potuta chiedere quali emozioni li impregnavano: nonostante una lunghissima analisi! Finché un  noto intellettuale triestino la coinvolge in una ricerca sui figli dei perseguitati dal nazismo. La colpisce il fatto che nessuno ha particolari ricordi e si accorge di non  aver mai pensato che sua sorella è una di quelle persone. Lo pensa e dovrà passare un altro anno prima che si ricordi di parlarne con il conduttore della ricerca. Ogni volta “le sfugge di mente”….. È una rimozione? Una vera e propria negazione? Comprenderemo che è come se il ricordo di questa domanda venisse chiuso a chiave in un sottoscala e non potesse neanche gridare per farsi sentire. E’ un pensiero che “veniva sparito” (è l’errore grammaticale/sintattico con il quale me ne parla): desaparecido…. Per questo trovo utile la parola “nascondimento” utilizzata da Antonio Semi…. Per dire come si possa scoprire d’aver vissuto in un “nascondimento” che ha coinvolto anche l’analista, così potente da rendere incapaci di pensare, da interrompere i fili del pensiero ed emotivi. Che li scollega. Una sorta di obnubilamento, di stupidità. Ancora oggi la paziente non riesce a capacitarsene.
Ne ho parlato con il collega argentino Jorge Corrente: ritiene un bene che la paziente non avesse nella prima analisi potuto vedere, poiché in tal modo ha potuto sviluppare le strutture indispensabili, anni dopo, a sostenere l’angoscia di questa presa di coscienza. Prima sarebbe stato troppo presto. Come dire che l’analisi può dare i suoi frutti anche molti anni dopo la conclusione. Dei rifugi della mente parla Steiner (1996); li chiama  rifugi – dice Curi Novelli (2012) in un suo intervento al Centro Ricerche Psicoanalisi di gruppo – “perché forniscono al paziente un luogo dove stare tranquillo, perciò possono bloccare l’analisi evitando il contatto con l’analista, mantenuto estraneo a tali aree”. Nel caso della mia paziente non si tratta di fantasie ma di qualcosa di reale che non è maistato detto – i genitori raccontavano il passato come si raccontano le storie ai bambini. Così a fatica ha potuto “ricordare” che la sua famiglia aveva vissuto con paura la persecuzione nazista e aveva cercato di proteggere la propria bambina, che porterà molti segni del ‘rimosso’ di questi fatti: l’ansia, la tendenza a dire col corpo cose indicibili, la costante incertezza, il bisogno di tenere tutto sotto controllo. Segni caratteristici dei figli dei sopravissuti alla persecuzione nazista. 

Quando affermo che ci sono “non ricordi, ma collegamenti tra singoli ricordi spezzettati” intendo dire come siano i legami tra i fatti a essere attaccati, distrutti o resi impossibili. Iniziò a ricordare e a dare significato ad una frase che la madre diceva alla vicina quando gliela affidava per recarsi al lavoro: “Se qualcuno le chiede di chi è questa bambina, dica che è una vostra parente”. Perché questa richiesta alla vicina altoatesina? Un perché che si può porre solo oggi che ha estratto dal rifugio della mente una paura mai detta. È importante comprendere, anche emotivamente, il significato importante della negazione sottostante, che si manifesta con un “nascondimento” dei nessi.
Nei luoghi della negazione si parla del perché non si può ricordare, sperimentare emotivamente i collegamenti tra i ricordi. Sono i legami tra i significati a essere attaccati (Bion 1959), con il ‘disinnesco’ del dispositivo di ‘legame’ emozionale (Britton 1989, 121). 

Scotto Di Fasano. Mi chiedo se in tal senso “incontrare la memoria” – in analisi e nel sociale – non permetta di situare il passato in una prospettiva di profondità: “rifletterlo”. Lo domando a Giuseppe Leo alla luce degli approfondimenti metapsicologici che ha condotto nel libro.
Leo: Memoria e negazione sono i due poli dialettici e antitetici di un nuovo paradigma della psicoanalisi che affianca i due paradigmi tradizionali basati uno sul conflitto e l’altro sulla carenza. Psicoanalisi intersoggettiva ed evidenze provenienti dall’Infant research e dalle neuroscienze convergono nell’evidenziare l’importanza del riconoscimento come processo alla base della memoria. Ma “riconoscere” in molte lingue ha un duplice significato: ri-identificare qualcosa/qualcuno; accordare/concedere un determinato status a qualcosa/qualcuno. L’attuale psicoanalisi intersoggettiva assegna un posto centrale al riconoscimento soprattutto nel secondo significato.
Per Sander nell’Infant  Observation l’individualità emerge in un sistema evolutivo in cui esiste una complementarietà specifica e sincronizzata tra gli stati interni del bambino e la capacità materna di riconoscerli. Punti di non riconoscimento nel percorso evolutivo del bambino in termini di mancanza di regolazione affettiva (Schore) o di sintonizzazione affettiva (Stern) possono costituire altrettanti punti di ancoraggio di dis-sintonie e dis-conoscimenti (corrispondenti ai concetti di negazione e diniego della psicoanalisi classica) che, se protratti nel tempo e reiterati in loops amplificantisi, porterebbero a disfunzioni e disregolazioni in molti sistemi motivazionali (Lichtenberg), in primis in quello dell’intersoggettività, con possibili prodromi psicopatologici. 

Scotto Di Fasano. Come mostrano tutti gli autori del libro, ciò che rende un trauma più traumatico è il carattere di “violenta interruzione del processo di sviluppo normale, attraverso la rottura del legame con l’altro, inteso come presenza empatica e significativa [per cui va in frantumi] l’assunzione di base che il mondo sia un luogo sicuro e ordinato” (Varvin 1999, 800-801).
A Sverre Varvin chiedo se può dirci in che modo il trattamento psicoanalitico contribuisce anche in funzione del setting a rifare del mondo un ‘luogo sicuro e ordinato’.
Varvin: Si tratta di una domanda molto importante, alla quale è difficile rispondere in breve. Approssimativamente, direi che i soggetti traumatizzati, in particolare coloro che hanno subito traumi estremi, come la tortura o altre forme severe di atrocità, sperimentano nella vita una insicurezza di base, una esperienza di frammentazione, un senso del tempo disturbato e la paura che in qualunque momento possa capitare qualcosa di terribile. La psicoanalisi è caratterizzata da un setting e da una cornice all’interno dei quali gli incontri sono regolari e avvengono nello stesso luogo: un luogo prevedibile, caratterizzato da continuità, stabile. L’analista stesso è una personastabile, emotivamentedisponibile nei confronti del paziente, empatico, teso a capirne e accettarne lo stato mentale. Il paziente può far proprio, prendere in sé e interiorizzare l’insieme di fattori descritti (che possiamo intendere come il setting): ciò gli fornisce gradualmente un vissuto (feeling) di sicurezza di base, che per molti, dalla traumatizzazione in poi, è quasi totalmente assente. 

Scotto Di Fasano. I traumi generano modi anomali di organizzare l’esperienza che allontanano l’individuo dal mondo condiviso, mancando un modello di ragione ospitale (Bodei 2001) e umani significativi fidati. L’analista in questi casi può costituirsi come porta-parola al servizio di aspetti scissi e rimossi che, dall’esilio, possono tornare attivi nel mondo interno. Con Domenico Chianese (2010), penso che “Si costruisce su tracce”. Ho scritto (2003) come con alcuni pazienti non si possa parlare di ricordi, tanto meno immediatamente suscettibili di diventare coscienti, quanto, piuttosto, di tracce, che necessitano di un lavoro di costruzione(Freud 1937; Chianese 1997) e di co-narrazione(Ferro 1999 2002) per arrivare a un significato mentale condiviso. Ma, se si tiene conto del fatto che la costruzione della mente è in continua formazione nel corso della vita, tali tracce diventano pensabili come Fiori Cinesi (nota 1) grumi accartocciati di insensatezza, testimonianza di esperienze che non hanno trovato accesso alla mentalizz-azione e, quindi, al  significato condiviso, non potendo di conseguenza accordarsi né con ciò che nel frattempo il soggetto è diventato né con le persone del contesto in cui egli vive.
Come mostra Silvia Amati Sas, è vero quanto afferma Chianese (2010): i nostri racconti hanno anche un valore di testimonianza, se non di riscatto. Come nota Varvin (1999), “ciò che il sopravvissuto vive, in misura più o meno intensa, è una estrema alienazione da se stesso, dalla sua storia e dall’altro, in cui è compresa l’esperienza di essere al di fuori della comunità umana normale” (802). In tal modo si crea uno stato di indifferenza e di accettazione, in cui i valori e i principi della morale condivisa sono fuori gioco.
Un tema interessante trattato nel libro concerne i ‘migranti’: perso lo statuto di ‘stanzialità’garantito dal participio passato, restano coloro che non si fermano (Francesconi 2010): come far casa del paese ospitante che ti giudica ‘di passaggio’ e ‘extracomunitario’? Si tratta della “metodologia immunitaria” (Esposito 2002; e Menatti, Bonesio 2004) contro gli S.D.F. (‘senza domicilio fisso’) di Altounian (209). Problema più che mai attuale oggi, data la produzione dell’uomo usa e getta (Ogilivie 1994) nei cui confronti “si profilano prospettive di eliminazione e di sterminio che non sono soltanto violente, ma particolarmente crudeli” ((Balibar 1996, 58) al cui servizio è utile la funzione di cassa di risonanza svolta dai mass media nel consentirne l’esibizione, parte della crudeltà stessa: “…è alla fin fine strano che ci si stupisca tanto dell’estrema crudeltà dell’epurazione etnica in un universo culturale in cui, nonostante la pace e il suo comfort, una crescente produzione di scritti e di immagini privilegia l’uso sadico della sessualità nelle rappresentazioni estetiche” (Nahoum-Grappe 1996, 190).
A Cusin e Leo chiedo un parere su tali fatti.
Cusin: Tu poni questa domanda partendo da una citazione di Nahoum-Grappe sulla quale mi sono interrogata anche in funzione del pensiero di Varvin. Credo che nel nostro contesto il privilegio dell’uso sadico della sessualità nelle rappresentazioni estetiche serva a mascherare e a negare in maniera quasi orrorifica l’incapacità di vivere in modo vitale la sessualità. La sessualità coincide con la conoscenza. Credo che oggi della sessualità intesa come forza vitale abbiamo veramente paura perché implica l’entrare in una relazione molto intima comunque, anche se si fa solo sesso. Il sadismo espresso nei racconti e nelle immagini (anche quelle del mondo della moda) ha lo scopo di distanziare dalla vitalità implicita nella sessualità. La quale è intrisa di vitalità e distruttività. Perché esibire modelli emaciati, fotografati in fabbriche dismesse, con abiti di valore indossati come fossero stracci? O immagini di donne con atteggiamenti violenti abbinate a auto di lusso? Perché romanzi e film dove sono descritti aspetti profondamente perversi? Ha ragione Amati Sas: tutto questo porta ad uno stato mentale ‘protettivo’ di indifferenza, accettazione acritica, che ci rende lentamente e inesorabilmente incapaci di indignazione: de-umanizzati. Quanto tale contesto sociale fondato sulla negazione della vitalità (spesso solo distruttivamente agita) condiziona i trattamenti psicoterapici e analitici? Quanto l’immagine sadica, rappresentata esteticamente, compare nei nostri studi attraverso pericolose seduzioni miranti a distruggere la coppia terapeutica, che vorrebbe essere germinativa e generativa?
Leo: Colgo la domanda soprattutto in relazione al cinema, in particolare laddove questo si occupa di psicoanalisi e di “psicoanalisi al femminile”. Il film di Cronenberg A dangerous method (2011) è emblematico: l’uso di scene sado-maso tra Jung e Sabine Spielrein ha lo scopo di banalizzare questioni serissime quali quelle dello sconfinamento del setting o  dell’amore in psicoterapia. L’accanimento voyeuristico di certe produzioni estetiche raggiunge poi le sue vette quando il personaggio centrale è una donna, e una pioniera della psicoanalisi per giunta, come Spielrein. Il film non lascia nulla dei suoi lasciti umani e professionali; ciò che lascia è un interesse pettegolo che dal buco della serratura, al posto dei dilemmi della psicoanalisi, si occupa di scudisciate sulle natiche. 

Scotto Di Fasano. Nel libro un’altra preziosa occasione di riflessione ha a che fare con la bugia, che, come nota Resnik (171), può rivelarsi in terapia una “forma di verità mascherata”, laddove compito dell’analisi consiste nel permettere “d’introdurre i non-detti (l’anonimato o il principio di omertà) in modo adeguato”.
A Salomon Resnik chiedoperché la bugia può rivelarsi in terapia una ‘forma di verità mascherata’.
Resnik. Artaud diceva del sogno che si tratta di una serie di menzogne “vere”. Questo significa che il sogno è una verità mascherata, quindi un’apparente menzogna, vera per quello che è capace di “svelare” (aretè nel pensiero greco). Socrate aveva la capacità di svelare la verità intrinseca di quello che viene mascherato nell’apparire. In Biografie dell’inconscio dico metaforicamente ma anche veramente che l’inconscio è visivo ma viene mascherato o velato dalle proiezioni inconsce del soggetto. Dopo una buona interpretazione spesso il paziente dirà: “è vero, come mai non l’ho visto prima?”. Quello che Freud chiama “sogno manifesto” è l’espressione realistica ma al tempo stesso mascherata da quelle menzogne vere di Artaud che sono lo svelamento e il contatto con il contenuto latente che si avvicina alla “verità” del messaggio. Io ho messo verità tra virgolette perché credo che mai sia assoluta: se la si considera tale, sarebbe una “vera menzogna” che non chiede di essere smascherata. Questo si trova nelle persone ossessive o troppo rigide che non tollerano il minimo di ambiguità riflessiva (vedere il dubbio categorico in Cartesio o piuttosto l’ambiguità pre-riflessiva con i termini del grande filosofo francese Merleau-Ponty). Quando un bambino dice una menzogna formale alla mamma o al papà è perché ha paura di dire le cose direttamente e ha bisogno di un’alternativa indiretta che sarebbe la maschera dell’apparente non verità che è anche la sua verità. 

Scotto Di Fasano. Chiedo ancora a Resnik perché intende con ‘non-detti’ l’anonimato o il principio di omertà e perché li distingue.
Resnik.Con anonimato intendiamo una realtà o una certa “verità”, che non ha nome o il cui nome o autore è ignoto. Bion parla del “nameless dread”, cioè di un’esperienza di paura, di panico o di scoperta impattante, che provoca una paura senza nome o priva di espressione diretta di un’esperienza impattante e quasi impossibile da esprimere. Nel principio di omertà, c’è un nome dietro a ciò che manifestamente è nascosto o mascherato, che non dev’essere pronunciato perché potrebbe scatenare scandalo, un terrore innominabile, soprattutto un tradimento alla cosiddetta “famiglia” che si protegge con l’omertà. Preziosi, infine, i contributi di Leo e Litowitz, tra le ricapitolazioni più efficaci ed esaustive dell’evoluzione e delle possibili declinazioni dei concetti di negazione, diniego, disconoscimento, rigetto

Nota 1: “Pezzetti di carta apparentemente privi di colore e di forma messi in acqua, si aprono assumendo forme affascinanti e colorate: si chiamano Fiori Cinesi” (Heimann 1992). 

Bibliografia

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