La Ricerca

Prendersi cura.Sul senso dell’esperienza psicoanalitica

11/01/13

Prendersi cura. Sul senso dell’esperienza psicoanalitica

Editore Franco Angeli, pp.207, (2012)

Recensione di Lucia Monterosa

Gli autori ci accompagnano in un itinerario attraverso cui narrano la loro ricerca sul senso dell’esperienza psicoanalitica e dei vissuti che l’hanno animata. Nello snodarsi dei capitoli ci vengono trasmesse mappe e punti di riferimento, comunicate passioni ed infine indicate prospettive possibili per continuare a ricercare. Grazie ad uno stile espositivo concepito come un lungo dialogo, Il lettore si sente, sin dalle prime righe, coinvolto nel discorso come interlocutore attivo. Il lavoro si richiama, a partire dal titolo, alla responsabilità che lo psicoanalista si assume quando accetta un paziente, ma si rivolge anche a quelle persone che in varie forme si « prendono cura » di una altro essere umano utilizzando una relazione psicologica.  Uno dei centri gravitazionali del testo è la convinta asserzione che la cura psicoanalitica sia molto lontana da qualsiasi forma di artificio e che per essere compresa vada immaginata «molto vicina alle funzioni della vita: amare e odiare, sognare e percepire, pensare e fantasticare, diffidare e avere fiducia negli altri, comprendere o illudersi di comprendere. Sono le vicende emotive di una coppia quelle che permettono di prenderci cura, esprimendo noi stessi senza finzioni» (74).   Come ogni atto terapeutico necessita di specifiche competenze umane, psichiche e culturali ed in particolare di « una spiccata capacità etica e deontologica nei riguardi della vita e delle sue malformazioni » (26). Soprattutto mediante quest’ultima attitudine, l’analista sarà in grado di vedere oltre la sofferenza e di cogliere la forza creativa attraverso cui il paziente è riuscito ad organizzare le proprie risorse residue. La cura psicoanalitica non viene concepita all’interno di un modello unificabile teoricamente, ma come un processo in continuo movimento. Gli autori ritengono che la formazione di ogni psicoanalista necessiti di un’approfondita conoscenza del pensiero di Freud, Winnicott e Bion; lo studio va usato però come un bagaglio culturale attraverso cui rispecchiarsi con la propria singolare esperienza e le teorie non debbono diventare modelli di cura. Sono citati numerosi autori contemporanei appartenenti a correnti teoriche eterogenee e tra loro vengono individuati punti di contatto soprattutto sul tema dell’ascolto. Secondo Vergine e De Silvestris le diversità teoriche talvolta possono essere solo apparente, gli psicoanalisti sono spesso propensi ad esprimersi con un linguaggio proprio e ciò sembra « una modalità necessaria per affermare un’esperienza singolare rispetto ad un’unica teoria sempre in costruzione » (59). E’ di fondamentale importanza quindi sia nella stanza di analisi che nel dibattito scientifico mettersi in ascolto del pensiero dell’altro in una condizione di permeabilità . E’ accolto in pieno il pensiero di Freud quando affermava che la psicoanalisi, essendo una teoria del pensare, sarebbe stata utile a tutte le discipline senza sopraffarne nessuna, ed è con questo spirito che vengono esplorate le possibilità di dialogo con altre aree del sapere. Alcuni capitoli sono dedicati ad approfondire alcune recenti scoperte neuroscientifiche, questo campo viene indagato per la fecondità con cui può aprire varchi a nuove ipotesi sul funzionamento dell’apparato psichico e delle sue potenzialità relazionali.  Molto stimolanti sono i numerosi riferimenti all’arte, importante veicolo di suggestioni che provoca « emozioni simili a una coincidenza affettiva vissuta nella relazione analista-paziente» (184). La fruizione artistica è un’esperienza particolarmente feconda per l’analista proprio perché permette di entrare in contatto con una visione viva dell’umano « che immediatamente parla alle ferite degli altri» (195 ). Il cuore pulsante di questo testo è costituito dalle riflessioni intorno alla clinica. Gli autori si interrogano sul compito dell’analista di fronte a nuove forme di sofferenza psichica caratterizzate da una carenza del lavoro della simbolizzazione: « Si tratta, secondo la nostra ipotesi, in una gran parte dei casi che arrivano oggi alla nostra osservazione, di soggetti che portano un deficit sia egoico che super-egoico di autoregolazione che dà luogo a una costituzione gravemente depressiva che mette in pericolo la vita e ci si riesce a difendere soltanto con una pretesa e una rivendicazione esaltata o con un’alleanza dell’me con l’Es, attendendo che i suoi desideri siano esauditi per non morire .[….] In altri termini nella nostra epoca ci troviamo quasi a ricominciare daccapo l’esperienza della psicoanalisi » (70-71). Vergine e De Silvestris, attraverso articolati riferimenti teorici ed esempi tratti da analisi di adulti, di adolescenti e bambini, delineano la loro idea sulla posizione attraverso cui l’analista si può mettere a disposizione di queste nuove configurazioni cliniche.  L’analista dovrebbe assolvere alla sua funzione ricoprendo il ruolo di un «testimone », capace di ascoltare con tutti i sensi, di tollerare il silenzio, di farsi usare, «rosicchiare » e contaminare dal paziente.« Per tendere a tutto ciò, l’analista deve essere colto, come dice Freud, deve conoscere molte discipline delle scienze umane ma deve anche avere una conoscenza delle teorie psicoanalitiche, anche quando non le condivide, per evitare di diventare un proselita di un’unica fede » (123), ma è altrettanto essenziale che nella sua mente rimanga attiva una disposizione  creativa che può permettere l’emersione di una « modalità psichica nuova del pensiero » ( 194 ). Ed è su queste ultime questioni che vengono individuate possibili traiettorie per la ricerca torico-clinica.  Vergine e De Silvestris affrontano molte questioni fondamentali per l’analista dei nostri tempi e lo fanno con chiarezza e rigore, attingendo alla ricchezza della loro umanità, ad un profondo senso etico e all’eterogeneità delle esperienze culturali che hanno attraversato. 

Gennaio 2013    

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