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“Male su male” A cura di R. Corsa, L. Fattori, G. Vandi. Recensione di S. Anfilocchi

22/12/23
"Male su male" A cura di R. Corsa, L. Fattori, G. Vandi. Recensione di S. Anfilocchi

Parole chiave: male; giustizia; psicoanalisi; religione; filosofia; Bibbia

“Male su male. Lo psicoanalista incontra il libro di Giobbe”

A cura di Rita Corsa, Lucia Fattori, Gabriella Vandi

(Alpes, 2023)

Recensione a cura di Silvia Anfilocchi

“L’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità.”

(Sigmund Freud “Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni. Lezione 31: La scomposizione della personalità psichica” 1932)

“Oggi direi che il male del secolo è la violenza cieca, la violenza di cui ci si appropria per farsi giustizia.”

(André Green intervistato da Daniel Friedman. KnotGarden 2022/1 André Green. A Dieci anni dalla morte. CVP)

“Che cos’è dunque il male? Niente di più di un cattivo incontro”

(Sophie de Mijolla-Mellor p. 77)

“La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra; propendiamo a considerarla in certo qual modo un ingrediente superfluo, quantunque possa essere non meno fatalmente inevitabile della sofferenza di provenienza diversa.”

(Sigmund Freud “Il disagio della civiltà” 1929)

Male su male, terzo volume della collana che L. Fattori, G. Vandi curano per Alpes, abborda, senza pretendere di dare risposte definitive, un tema universale:

Perché esiste il male? Perché è capitato proprio a me?

Questione “umana troppo umana” che da sempre interroga l’Uomo, alla quale cerchiamo risposte nella religione, nel mito, nei dati antropologici, nella scienza, nella nostra personale Weltanschauung.

A questi interrogativi vorrei aggiungere:

Perché tante vittime innocenti? Perché la sventura si accanisce sempre contro gli stessi?

Se non facciamo inconsciamente ricorso al diniego per mantenere il nostro equilibrio, questi dilemmi ci tormentano perché “c’è qualcosa in noi che ci spinge a desiderare che il mondo funzioni secondo giustizia” (Lasorsa, p. 3). Almeno finché crediamo di non essere noi i “cattivi” perpetratori. Violenze, guerre, carestie, povertà, catastrofi naturali, ecc. oggi ci paiono particolarmente vicine, ma in altre aree di questo minuscolo frammento di universo che è il pianeta che ci ospita non hanno mai smesso di flagellare le vite di chi le abita.

Il bisogno di trovare un senso ad eventi e circostanze che ci paiono incomprensibili e irragionevoli preme con urgenza in questo nostro tempo, come rivelano le molte iniziative e pubblicazioni dei soci SPI e le pagine di Spiweb, testimonianze dell’impegno a non smettere di scandagliare i meccanismi psichici individuali e gruppali (colloquio di Venezia Diniego, illusione e speranza, giornata a Padova su La distruzione dellalterità. La violenza disumanizzante; le recensioni di P. Moressa a Trasformazioni del trauma in analisi, di A. Cordioli a Still life, di S. de Cristofaro a Zakhor e la psicoanalisi; il volume Perché il male? a cura di A. Baldassarro; molti numeri di Psiche; gli interventi di S. Thanopulos sui quotidiani; di R. Jaffé in convegni e seminari; ecc.). Non solo sulla comunità psicoanalitica. Nei giorni in cui ho avuto la possibilità di leggere le bozze di Male su male, in distribuzione dal 15 dicembre, la parola “male”, a volte accompagnata dall’aggettivo “assoluto” è stata ripetutamente usata anche negli approfondimenti di diversi organi di informazione a proposito del conflitto deflagrato in medio oriente e della violenza contro le donne.

“Il male è senza perché” concludeva provvisoriamente A. Green nell’ultimo capitolo de La follia privata, giungendo poi a proporre che niente ha senso, né scopo, non esiste nessun ordine e nessuna legge che non sia quella di “imporre la propria volontà agli oggetti dei propri appetiti” (p. 340). Drastica soluzione sulla linea del pessimismo freudiano, che non pare senza ragione se pensiamo come ogni volta ci lascia attoniti e senza parole, come se avessimo bisogno di dimenticarcene, la scoperta della distruttività che l’essere umano riserva ai suoi simili.

Pur disponendo di teorie che ce la spiegano, forse, non riusciamo ad abituarci.

Gli autori di Male su male (psicoanalisti, filosofi, storici e teologi) si interrogano su come l’uomo risponde e reagisce al male, all’ingiustizia, alla sofferenza “dell’universale condizione umana” (Corsa, p. 136), a partire da un’attenta rilettura del Libro di Giobbe, uno dei testi sapienziali dell’Antico Testamento, di cui è considerato il capolavoro letterario “squisitamente filosofico”. Interpretazioni diverse che invogliano a conoscere direttamente le parole scritte da quello che R.M. Rilke ha elogiato come “il più grande poeta di tutti i tempi” (Lasorsa, p. 1).

Non propongo un riassunto dei drammi che travolgono il “paziente” Giobbe perché il filosofo V. Lasorsa ce ne fa una sintesi ampiamente commentata nel capitolo introduttivo, mettendo in evidenza gli elementi poetici che fanno del protagonista l’uomo universale in cui tutti possiamo riconoscerci. In parte anche S. Diena ripercorre le tappe di una storia ingiusta e dolorosa, aiutandoci ad apprezzarne lo stile letterario.

Mi limito a ricordare che Giobbe, sottoposto a prove durissime, dopo aver attraversato sventure e disgrazie, inizialmente sopportate in silenzio, si arrabbia, protesta e grida le “domande dell’uomo”, per poi ritrovare la fiducia nel Dio che, istigato dal satana, lo ha messo alla prova e infine, nella seconda parte della sua vita terrena, lo ricompensa lautamente.

Una figura complessa, dunque, che è stata oggetto di numerose letture, contrastanti tra loro, come rileva D. Cavagna. Per esempio, lo psicoanalista francese Jean-Pierre Winter ci trova “una dimensione sovversiva” che pone problemi agli ebrei, ai cattolici, ai filosofi e agli psicoanalisti (in Italia, prima degli autori di Male su male: Recalcati, Giannakoulas, Raniolo, Contri e pochi altri) per il tentativo di unificare il campo del desiderio diabolico e dell’amore divino. E se per T. Reik, Giobbe è l’uomo che ha osato sfidare la potenza e la giustizia di Dio e, come gli eroi della tragedia greca colpevoli di hybris, deve essere punito per il suo orgoglio e l’intollerabile presunzione di aver osato considerasi uguale a Dio (tesi non condivisa, per es. da Lasorsa), P.L. Assoun lo considera un perfetto masochista che trasforma il dolore vissuto in godimento inconscio.

La ricchezza del testo biblico e la complessità della figura di Giobbe non si esauriscono in queste interpretazioni e hanno offerto materiale per nuovi originali approfondimenti anche agli autori di Male su male, di cui passo rapidamente in rassegna i capitoli a partire dalle “Note a margine”, ultima sezione in cui le infaticabili curatrici del volume hanno modestamente inserito i loro commenti.

Il saggio a quattro mani di G. Vandi e M. Moscara riprende e arricchisce, grazie alla loro lunga esperienza di psicoanaliste, un tema ampiamente trattato dalla letteratura psicoanalitica (Ferenczi, Pontalis, Cancrini, Lupinacci, Tagliacozzo, de Zulueta, Aubert, Semi, Neri, giusto per ricordare i primi autori che mi vengono in mente, senza volerli ordinare in base ad alcun criterio): il dolore che le sofferenze di alcuni pazienti risvegliano nel terapeuta. A partire dal patire di Giobbe “agglomerato di lutti, di abbandoni, di dolore fisico e psichico indicibili”, usato come “metafora della sofferenza di tutta l’umanità” (p. 123), Vandi e Moscara ci confidano, con la loro peculiare sincerità, come l’incontro con condizioni di sofferenza intollerabile le abbia fatte sentire “messe a nudo, spogliate delle nostre teorie e delle nostre conoscenze” (p. 124).

L. Fattori dialoga con la dimensione agnostica proposta da S. de Mijolla-Mellor nel capitolo in cui cerca di spiegare l’incomprensibilità del male, relativizzandolo sulla scorta di Baruch Spinoza. “Il male non esiste”, conclude l’autrice di Bisogno di credere e di La mort donnée, dipende da chi l’ha voluto. “Che cos’è dunque il male? Niente di più di un cattivo incontro, cioè di un incontro che diminuisce il nostro potere di agire e può arrivare fino ad annientarlo se provoca un processo di decomposizione della relazione su cui poggia il nostro equilibrio individuale, sia a livello del corpo sia a livello del pensiero … non esiste una ‘essenza’ del Male perché si tratta sempre di una relazione di discrepanza tra elementi” (p. 77). Fattori trova in queste parole una posizione non lontana dall’ambiguità (Bleger, Amati Sas, Argentieri), meccanismo di difesa arcaico che elude il conflitto e “consente di vivere in circostanze estreme” evitando la responsabilità e la fatica. Ci esorta, pertanto, a superare la posizione schizo-paranoide che distingue nettamente il buono dal cattivo, senza rinunciare a fare differenze e avendo come punto d’arrivo “una (più avanzata?) posizione depressiva” (p. 133) che conduce a una visione totale, quindi complessa, dell’offensore. Prospettiva a cui sta molto lavorando insieme ai colleghi del Centro Veneto, come testimoniano gli interventi sul n. 2/2022 del loro KnotGarden A centanni da Psicologia delle masse e analisi dellIo” di Sigmund Freud, in particolare le parole di Maria Ceolin “Pensare è, platonicamente, distinguere identità e differenze, operazione fondamentale anche per il suo valore etico: il male diviene banale se non è distinto dal bene.”

L’originale approfondimento di R. Corsa tratta del valore difensivo delle interpretazioni della malattia psicosomatica che mirano a individuare un’origine per arginare l’angoscia di morte, come ogni nostro tentativo di trovare la causa di ciò che ci fa sentire impotenti. Posizione che mi pare discendere dalla antica concezione di una giustizia retributiva, proprio quel punto di vista che Il libro di Giobbe invita a superare aprendo la strada alla nascita di una medicina scientifica che non considera più la malattia come un castigo divino (Lasorsa, p. 13).

La domanda di Giobbe: “che colpa ho commesso per essere stato punito con questa malattia?” è un interrogativo vicino a quelli a cui risponde chi spiega la patologia fisica come auto-punizione per una colpa inconscia, considerando la mente “capace di creare ogni tipo di male nel corpo”. Corollario delle operazioni razionalizzanti del tentativo di accettare un lutto insopportabile facendolo dipendere dai comportamenti autodistruttivi di chi non c’è più.

Chiude il libro il lavoro di M.A. Balbo che prende spunto dall’opera teatrale Il visitatore di E. Schmitt, a cui ha assistito con gli altri partecipanti al gruppo Psicoanalisi e fede, per riprendere il tema della laicità di Freud e la sua profonda appartenenza alla cultura ebraica.

Completo la presentazione di Male su male, ritornando al capitolo di S. Diena che si accosta alla figura dell’uomo Giobbe, con le sue vicende e reazioni, con il suo trauma più grande, quello di aver perso fiducia e speranza, come al paziente con cui lavora per trasformare e interrompere la forza maligna delle coazione a ripetere attraverso la rielaborazione della storia personale e familiare. Giobbe diventa così il prototipo della persona politraumatizzata che l’analista “eccezionalmente empatico e paziente“ sa accogliere e può aiutare a superare le difficoltà causa di disperazione, consentendogli di tornare a vivere in modo anche più pieno e soddisfacente di quanto potesse fare prima che gli eventi gli fossero tanto avversi (p. 35).

Mentre rilegge Il libro di Giobbe, S. Diena riprende l’evoluzione delle teorie sul trauma in un percorso a ritroso: dagli approcci contemporanei alle tappe del pensiero freudiano, intrecciandoli con alcune delle ipotesi neuropsicologiche più recenti.

La già nominata psicoanalista/filosofa S. de Mijolla-Mellor giustifica la posizione della tradizione giudaico-cristiana usando dialetticamente la posizione di Baruch Spinoza e la lettura di Piera Aulagnier, che spiega nei termini di attribuzione al desiderio dell’Altro ciò che produce il nostro dispiacere. La conclusione che ne discende è che nessun oggetto è buono o cattivo in sé ma può rivelarsi tale in base alla relazione che, momentaneamente, lo unisce a noi, a seconda di quanto aumenti o diminuisca il nostro potere di agire (p. 76).

La sua prospettiva ci permette di dare una collocazione al male, sia quello di cui siamo vittime – malattie, traumi, persino omicidi – sia quello di cui siamo agenti, essendone, in realtà, contemporaneamente vittime, perché ci priva di un incontro che avrebbe potuto essere buono. Il male esiste solo per chi lo compie e chi lo subisce; non ha alcun senso sul piano globale, generale; non si può parlare di un male assoluto. Che sia in forma individuale o collettiva, solo il riconoscimento di una comune umanità a carnefice e vittima ci fa ritenere “male” la distruzione dell’altro che, in sé, mira ad affermare la vita del soggetto. “Nel momento in cui commette l’atto, che sia di natura distruttiva o costruttiva, il soggetto, preso dalla hybris dell’eccesso, penserà di andare nella direzione della vita e persino di un’iper-vita maniacale”. Ritroviamo qui la lezione de La violenza e la vita di J. Bergeret che de Mijolla-Mellor segue quando sostiene che, per essere diretta verso l’esterno e rivelarsi come aggressività, la pulsione di morte si deve legare alla pulsione di vita.

Le sue conclusioni si allargano sul piano sociale e politico e offrono ipotesi di uscita dalle crisi per mezzo della sublimazione, ovvero andare verso l’invenzione di nuovi spazi per realizzare i propri obiettivi, anziché scegliere la soddisfazione immediata con conseguenze auto ed etero distruttive.

Di carattere più filosofico, le dotte pagine di D. Cavagna cercano una spiegazione della marginalità di una figura come Giobbe, tanto ricca di significati e potenzialmente ispiratrice di riflessioni sulla natura umana, nel panorama psicoanalitico e mettono l’uno di fronte all’altro Giobbe ed Edipo e il modo in cui vivono ed elaborano la colpa e il dolore; mentre P.C. Devescovi ci offre una ricostruzione storica del lavoro di Jung culminato in “Risposta a Giobbe” in cui ha fornito una interpretazione innovativa del testo biblico. Lo psicologo analitico, ci dice Devescovi, si era interessato “ai problemi religiosi fin dall’adolescenza”, campo in cui si misurava col padre, Pastore e cappellano all’ospedale psichiatrico (come suggerisce Cavagna, né Jung né Freud parevano aver felicemente risolto il problema del padre), della cui fede dubitava proprio rispetto alle questioni sollevate dal Libro di Giobbe: “il rapporto fra la divinità e la presenza del male nel mondo e l’ipotesi che i presunti interventi di Dio potevano derivare anche dall’attività del proprio inconscio” (p. 60).

La ricostruzione storica di Devescovi si chiude con una citazione tratta da Risposta a Giobbe in cui Jung, come Freud in Perché la guerra?, pone la questione etica più attuale a proposito della “potenza” dell’uomo e della sua acquisita capacità di distruggere l’umanità intera grazie allo sviluppo scientifico e tecnologico.

Solo un rapidissimo accenno ai capitoli di stampo teologico, campo che mi è estraneo, che hanno risvegliato la mia curiosità intellettuale. G. Barbaglio mostra le due immagini contraddittorie di Dio presenti nella Bibbia ebraica e cristiana, le stesse su cui spesso si dividono punti di vista personali: l’idea di Dio attivo nel mondo, onnipresente quindi causa e giustificazione di tutto ciò che esiste ed accade e la visione che non considerando Dio il grande manovratore rinvia all’uomo la responsabilità delle proprie scelte e dei propri atti.

G. Ravasi, infine, ci fa apprezzare la lirica del contenuto e degli affreschi naturalistici e paesaggistici descritti con la musicalità dei versi del poeta, mentre ci guida a scoprire le novità del Libro di Giobbe rispetto agli altri testi biblici, le cui strofe sono state riprese da scrittori e filosofi.

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