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L’orecchio dell’analista e l’occhio del critico. Di Benjamin H. Ogden e Thomas H. Ogden (2013). Recensione di Maria Cecilia Bertolani

23/05/16

Benjamin H. Ogden e Thomas H. Ogden (2013)

L’orecchio dell’analista e l’occhio del critico.
Ripensare psicoanalisi e letteratura

CIS Editore, Milano

Il saggio dei due Ogden, un autore psicoanalista e l’altro critico letterario, ripropone e indaga con attenzione nuova le ragioni di un’antica alleanza, quella tra letteratura e psicoanalisi. Già dal titolo, L’orecchio dell’analista e l’occhio del critico, viene suggerita una differenza di percezione che però si orchestra nell’orientarci nel mondo, sia esso quello della lettura o dell’analisi.

Il libro istituisce una tensione tra il critico letterario e quello che è stato definito il lettore letterario psicoanalitico, nel saggio riportato con l’acronimo LLP, ossia il coautore psicoanalista frequentatore assiduo della letteratura. Se da un lato gli autori si propongono di allentare i legami con la critica letteraria che ha usato formule psicoanalitiche riduttive, magari per giungere a interpretazioni selvagge sulla psicologia dell’autore (una tendenza, quest’ultima, che peraltro è stata abbandonata dalla maggior parte della critica letteraria), dall’altro sottolineano l’importanza da parte dell’analista di essere in sintonia con ciò che il paziente sta facendo con il linguaggio così come con tutto ciò che egli non è capace di fare con le parole. Il lettore letterario psicoanalitico tratta dunque l’opera letteraria come una creazione, per mezzo della scrittura, di uno stato mentale che l’autore ha sperimentato nel passato o sta sperimentando nell’atto stesso di scrivere. Infatti ciò che lo psicoanalista (ma anche colui che Ogden chiama il critico letterario “responsabilmente psicoanalitico”) può portare alla letteratura è un particolare tipo di consapevolezza della relazione esistente tra voce, effetti del linguaggio e stati d’animo complessi. Il LLP muove dalla convinzione che la letteratura trasmetta particolari stati emotivi e che questi stati emotivi della mente possano essere uditi e compresi nello stesso modo in cui gli stati emotivi possono essere uditi o compresi quando sono parlati da un paziente. Inoltre, un aspetto che contraddistingue la lettura del LLP come psicoanalitica è il modo in cui lo psicoanalista scrive a proposito della voce e del linguaggio, cioè l’uso delle parole che lo psicoanalista stesso fa nel discutere la propria risposta a un brano letterario. A questo punto Thomas Ogden offre una lettura di una poesia di Frost in cui la voce narrativa viene considerata come se fosse la voce di una persona reale, senza tuttavia portare il lettore a perdere la consapevolezza che la voce del testo è altra cosa. Un tale tentativo di entrare negli effetti del linguaggio, e di creare attraverso di esso uno spazio terzo, non può che ricordare la concezione del “terzo analitico” variamente teorizzata da Ogden in altri contributi. E come l’esperienza clinica dell’analista entra in gioco nella lettura di un testo letterario, così l’esperienza letteraria può portare contributi all’ascolto clinico, secondo la logica del lettore letterario psicoanalitico, incarnato da Thomas Ogden, per cui la realtà psicologica è integrata nel linguaggio e il linguaggio, incluso il suono, dà forma alla realtà psicologica.

Nella lettura che T. Ogden fa del bellissimo racconto di Kafka “L’artista del digiuno” si vede bene come la dimensione psicologica del racconto sia una creazione del linguaggio e in particolare degli effetti di un linguaggio che esiste al di là di ciò che viene semplicemente detto, cioè al di là del contenuto. Kafka riesce a presentare la conversazionetra i personaggi non tanto come se fosse un ordinario dialogo, ma come creazione reciproca di un campo psicologico. Sostanzialmente, secondo la tesi degli autori, la relazione tra il critico e l’opera può in alcuni momenti riflettere le qualità di un’esperienza intersoggettiva. Nell’analisi del racconto di Kafka, Ogden riesce a evidenziare come il linguaggio di Kafka esprima forme di interazioni di aspetti inconsci e coscienti della mente, a partire dall’incipit: “Durante queste ultime decadi l’interesse per il digiuno professionale è notevolmente diminuito”. Nella frase di apertura, che ha un effetto di straniamento, Kafka riesce a comunicare una dimensione di follia, suggerendo l’esistenza di una professione grottesca, ossia il digiunatore professionale. Il racconto prosegue delineando la decadenza dell’artista del digiuno (cui non viene dato un nome), una professione ormai caduta in desuetudine, mentre, un tempo, “l’artista” era il principale oggetto di interesse della cittadinanza. Il racconto ha poi una svolta inattesa quando apprendiamo che la cosa più difficile da sopportare per l’artista del digiuno è che egli solamente sapeva quanto fosse facile per lui digiunare, una consapevolezza troppo dolorosa. Rinchiuso in un pensiero onnipotente che solo poteva apportare qualche sollievo alla sua sofferenza psichica, proprio mentre l’artista proclama follemente di poter digiunare per periodi sempre più lunghi, il digiuno va completamente fuori moda; l’artista del digiuno è costretto unirsi a un circo in cui è tenuto in gabbia come un animale. Nel vuoto di ogni significato e di ogni possibile libertà, rinchiusi in un presente immobile, assistiamo alla scena in cui il sorvegliante del circo scopre l’emaciato artista del digiuno sepolto nella paglia sul fondo della gabbia. Il sorvegliante rassicura l’artista del digiuno che l’ammirazione per lui non si è persa, ma l’artista gli risponde che nessuno dovrebbe ammirarlo perché in realtà lui non riesce a fare a meno di digiunare. Il sorvegliante stupito gli chiede perché non possa farne a meno: perché, risponde l’artista del digiuno con un soffio di voce, “non ho potuto trovare un cibo che mi piaceva. Se l’avessi trovato, mi creda, mi sarei rimpinzato come lei o come chiunque altro”. Per la prima volta, dopo che il racconto ha introdotto un nuovo personaggio (il sorvegliante, una persona che pensa, sente e osserva), l’artista del digiuno prende la parola e parla di sé. Sono le sue ultime parole. Il racconto sembra finire qui, ma in realtà rimane un breve paragrafo: “Seppellirono l’artista del digiuno, paglia e tutto. Nella gabbia misero una giovane pantera… La pantera andava bene. Il cibo che le piaceva le veniva portato senza esitazione dagli addetti; non sembrava nemmeno sentire la mancanza della sua libertà (…)”.
La pantera, nella sua fame soddisfatta, sembra inizialmente l’incarnazione del sogno dell’artista del digiuno di trovare finalmente un giorno il cibo che gli sarebbe piaciuto; in realtà la pantera, se pur vitale nei suoi appetiti animali, non è consapevole della sua prigionia. Gli esseri umani, scrive Ogden, sono condannati a sperimentare il dolore di sapere chi sono, a meno di non rinunciare alla loro sanità mentale. Divenire umani rimanendo sani significa essere vivi per il dolore specificatamente umano che nasce dalla consapevolezza. L’analisi che l’Ogden analista fa di questo splendido racconto di Kafka mostra come un analista possa usare alcuni fondamenti della teoria e della pratica psicoanalitica per leggere e scrivere sulla letteratura. Nell’analisi del linguaggio e delle rappresentazioni letterarie, Ogden utilizza concetti come quello della rêverie come esperienza alla frontiera del sogno, o come quellodell’esperienza inconscia generata sia individualmente sia come co-creazione di due o più persone, tra cui anche il lettore e l’autore. Infine Ogden sostiene che l’esperienza di vitalità e di inerzia del linguaggio costituiscano una misura dello status di una esperienza, sia in analisi sia nel leggere un testo letterario.

Rimane l’altro versante, ossia quello della critica letteraria che potrebbe giudicare, a detta dei due Ogden, troppo soggettiva e poco motivata, in altri termini poco scientifica, l’interpretazione del testo che è implicita nella lettura del lettore letterario psicoanalitico. Non bisogna infatti dimenticare che la letteratura non è solo creazione di un campo intersoggettivo ma è, prima di tutto, un’operazione estetica, come sostiene anche lo scrittore Roth, in un’intervistata citata dai due autori, quando afferma che un romanziere non scrive per risolvere problemi psicologici bensì problemi letterari. Il critico letterario può infatti individuare le radici linguistiche oggettive e pertanto dare maggior fondamento alle intuizioni soggettive del LLP, meno attento alla dimensione di concreta analisi formale della parola. Inoltre il critico letterario presterà attenzione ad altri fattori come il ruolo della metanarrazione, delle convenzioni letterarie, delle figure retoriche, fino ai dettagli minimi della punteggiatura (un esempio di lettura critica è dato da Benjamin Ogden nel suo saggio sull’incipit di un romanzo di Roth, Lo scrittore fantasma, riportato in appendice). Le differenze tra i modi in cui il lettore letterario psicoanalitico e il critico letterario pensano e scrivono sulla letteratura derivano almeno in parte daimodi diversi in cui concepiscono le trasformazioni della vita in linguaggio. Qui il discorso potrebbe essere ampliato, divenendo inevitabilmente più complesso, qualora si considerasse anche la dimensione storica che è costitutiva di ogni parola, e particolarmente di quella letteraria. A detta degli autori, per il critico letterario il linguaggio sembra avere una qualità sistemica, analoga a quella descritta dalla linguistica e dallo strutturalismo;  funziona insomma come un sistema dotato di una serie di norme che sono in parte dettate dalla storia della forma letteraria e dalla variazione delle sueconvenzioni. Per il lettore letterario psicoanalitico sembra invece che il linguaggio sia più vicino alla voce parlata, più legato a qualcosa di affettivo ed espressivo, legato al corpo, agli impulsi inconsci, alla fantasia e alle relazioni interiorizzate. In breve per il lettore letterario psicoanalitico il linguaggio nella forma parlata ordinaria o letteraria deriva da una combinazione di esperienza di vita dell’autore, dalle sue capacità immaginative e dalla sua capacità di far risuonare gli stati emotivi attraverso l’uso del linguaggio. Nell’uno e nell’altro caso il critico letterario e lo psicoanalista risentono della loro esperienza, in un caso con le persone, nell’altro con i testi. In un caso i testi sono fatti per essere letti, non sono parlati, a differenza della voce del paziente. Ma anche il testo attende, oltre all’occhio, anche una voce che lo faccia vivere, e qualcuno che la ascolti. I campi della critica letteraria e della psicoanalisi possono essere compresi solo quando si capiscono le rispettive forme del pensiero. Costituisce un indubbio pregio del libro l’infondere nuova vitalità al dialogo tra i due mondi, pur rispettandone le specificità.

Maria Cecilia Bertolani

Maggio 2016

 

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