L’intima Stanza. Teoria e tecnica del campo analitico.
Borla, pp. 230, (2008)
Recensione di Anna Scansani
Cercheremo una terza tigre. Anch’essa come l’altre sarà solo una forma del mio sogno, un sistema di parole umane, non la tigre vertebrata che prima assai delle mitologie calcò la terra. Lo so, ma qualcosa m’urge a questa avventura indefinita insensata ed antica, e io mi ostino a cercare nel tempo del tramonto quell’altra tigre, che non sta nel verso.
J. L. Borges, “L’altra tigre”, 1960
L’intima stanza – Teoria del Campo Analitico raccoglie una serie di lavori densi di ricerca clinica e teorica. Già nel titolo l’Autore ci pone di fronte a clinica e teoria insieme e nel suo libro ci mostra i concetti teorici di cui ci parla attraverso esempi clinici che ce li rendono chiari e sono inoltre caldi, affettivi.
Pregio di questo libro è la presenza di diversi vertici: troviamo un approccio ai modelli della psicoanalisi attraverso una mappa storica di concetti chiave (setting / transfert / interpretazione / decostruzione / teoria del campo analitico, per citarne alcuni ) ed una capacità di dialogare con la psicoanalisi inglese, francese, americana senza preclusioni, pur essendo la sua posizione e il suo “scendere in campo” molto precisi.
È straordinariamente interessante, ad esempio, nel capitolo VI “Dagli archivi” seguire l’evoluzione del concetto di transfert partendo dall’incipit di Searles:
«È indispensabile riaggiornare le nostre teorie sui fenomeni transferali», scrive Searles, una delle figure più autorevoli della psicoanalisi nordamericana, «sia tenendo conto dell’odierna nuova crescente attenzione degli psicoanalisti verso i fenomeni dinamici, interpersonali e verso il qui-e-ora della situazione terapeutica, sia valutando la rispettiva ricaduta di queste modificazioni teoriche che in parte contrastano la tendenza di Freud a vedere l’individuo in termini, per certi versi, statici, meccanici e storici» (1979, 175-176). Nell’articolo, redatto nel 1947-48, Searles sottolinea la natura proiettiva dei fenomeni transferali e il fatto che essi sono invariabilmente suscitati da qualcosa che si trova nell’atteggiamento emotivo «attuale» dell’analista. Non si proietta nel vuoto. «Per quanto riguarda la mia esperienza clinica», egli annota «ho sempre trovato in me stesso una qualche base reale per le caratteristiche che i pazienti, tutti i miei pazienti, sia che fossero, ad esempio, paranoidi o ossessivo-compulsivi o isterici proiettano su di me» (ibid. 140).
E siamo nel 1947-48…
L’emozione che ho provato mentre leggevo il libro di Civitarese è stata quella di trovarmi di fronte all’agilità particolare di chi si destreggia con sicurezza su piste non facili. E lo fa con un senso di contentezza: Giuseppe Civitarese è “contento” quando riesce – e ci riesce! – a esprimere la ricchezza della sua cultura analitica e non solo, basti pensare ai rimandi filosofici, letterari, poetici, semiologici di cui ogni capitolo è denso, in un concetto. E ha ragione, perché di concetti abbiamo bisogno, ma di concetti che si coniughino con la clinica.
Qui noi troviamo il pensare teorico sulla clinica.
Accanto alla sensazione dell’agilità mi sono trovata a ricordare, con un certo divertimento, J. Cortazar quando scrive:
«Che le tartarughe siano grandi ammiratrici della velocità è cosa del tutto naturale.
Le speranze lo sanno e se ne infischiano. I famas lo sanno e ne ridono. I cronopios lo sanno e ogni volta che incontrano una tartaruga tirano fuori i gessetti colorati e sulla curva lavagna della tartaruga disegnano una rondine».
Apro una breve parentesi letteraria: Italo Calvino nella presentazione a Storie di Cronopios e di Famas ci dice che Cronopios e Famas possono essere definiti solo nell’insieme del loro comportamento.
I Famas sono imbalsamatori ed etichettatori di ricordi, bevono le virtù a cucchiate e si incontrano colmi di vizi, se hanno la tosse abbattono un eucalipto e non prendono le pasticche valda.
I Cronopios sono poesia, intuizione, capovolgimento delle norme; si lavano i denti alla finestra spremendo tutto il tubetto per far vedere volare al vento festoni di dentifricio. Se dirigono una radio fanno tradurre tutto in rumeno… ecc.
Calvino, dopo averlo incontrato a Parigi, conquistato dal suo linguaggio immaginifico, dallo stile sperimentale, in cui l’onirico irrompe nel reale, lo farà pubblicare in Italia; in Argentina sarà Borges ad accorgersi di Cortazar, facendolo pubblicare ed includendolo nell’Antologia di Letteratura Fantastica.
Dicevo che Civitarese si destreggia così bene nel campo dei concetti da far dire a Ferro nella sua appassionata presentazione:
«Se volessimo mettere il libro di Giuseppe Civitarese nella Griglia di Bion avremmo uno strano effetto: ci sarebbe segnalato come una palla da bigliardo che fa sponde su sponde con tutte le angolature e geometrie possibili. Dalle file più astratte a quelle del sogno e del mito, a quelle ancora più concrete, oscillerebbe da A ad F, per poi zigzagare dalla Colonna 1 alla 6 e oltre, sempre producendo effetti sul lettore. Nello slang di Bion mi sia concesso di dire che è un libro che usa costantemente il linguaggio dell’Effettività. L’unico libro con cui mi viene da paragonarlo per profondità, ricchezza, apertura di orizzonti è lo straordinario testo A Beam of Intense Darkness appena pubblicato da James Grotstein» (10).
È anche vero però che siamo nell’intima stanza. L’intima stanza citata da S. Giovanni della Croce, da Emily Dickinson, l’intima stanza della relazione analitica.
Siamo di fronte alla visione interiore dell’analista che guarda ai fatti della seduta in modo antirealista, poiché tutto ha a che fare con il transfert, con il pensiero onirico della veglia, con la realtà psichica.
Già dal primo capitolo, partendo da Freud continua il suo pensiero: il punto di vista che in quanto analisti ci concerne l’adozione dell’onirico in seduta.
Con Nino Ferro ci apriamo al modello del pensiero onirico della veglia, e a tutto quanto ci è presentato nel bellissimo “Tormenti di anime” (gli sviluppi postbioniani, il dreaming ensemble di Grotstein, il parlare come sognare di Ogden).
Ci troviamo così a guardare in modo radicalmente intersoggettivistico a quanto avviene nella stanza d’analisi, un intersoggettivismo che non dimentica mai il mondo interno. Mi sta molto a cuore sottolineare ciò perché il pensiero dell’Autore ha radici profonde e con vigore sviluppa una ricerca che permetta di “fare dentro di sé un posto per l’altro” (Di Chiara, 1985).
Il libro sviluppa una precisa linea teorica decostruttivista e intersoggettivistica. Jacques Derrida è chiamato in causa per il decostruttivismo e non solo, ricordiamo anche quanto Nino Ferro ci raccomandi di utilizzare costantemente operazioni di decostruzione narrativa per attivare processi realmente trasformativi.
Torniamo al libro di Civitarese e al suo stile intimo, gentile, affettivo, delicato, discreto, disponibile, quando ci parla dei suoi pazienti e della loro relazione analitica. Può divenire anche divertito, capace di compassione, mai lontano: ecco Alberto, Carla, Anna, Sara, Nora, Alessia, di cui ci riporta ampie sequenze cliniche. Troviamo anche il racconto di intere sedute e ci incontriamo con un Analista che generosamente ci mostra tutto quanto dice o sceglie di non dire, e perché lo fa e i pensieri che attraversano la sua mente, siano teorie di riferimento, sensazioni, ricordi di sedute precedenti.
Proverò poi a fornirvi un esempio ma è dalla lettura del testo che il lettore potrà cogliere l’intensità del lavoro analitico che avviene in seduta e che raggiunge il paziente in una dimensione che definirei di “preziosa semplicità”.
Mi trovo a pensare ai quadri di Vermeer che sanno trasmetterci un senso di intimo raccoglimento, e ci rendono partecipi di una scena di vita quotidiana, o di eventi semplici appunto: di colpo però siamo di fronte a una persona, a un “ambiente”, al suo mondo interno. E a noi stessi.
Un poco di teoria e andiamo poi a vedere ciò che avviene nella stanza d’analisi.
In Civitarese studio della tradizione e innovazione si coniugano felicemente. Ad esempio in “Vincolo e setting”, partendo dai referenti principali della teoria moderna del setting, Winnicott e Bleger e dopo avere parlato del nucleo agglutinato, dell’equazione setting-simbiosi-istituzione-nucleo identificatorio, egli si confronta con altri Autori, interessato ai funzionamenti di base della mente.
Con Marcelli ci parla del pointing, il gesto tipico di indicare del bambino un oggetto, cui la madre, con la propria rêverie, dà significato: è quindi, esso, un organizzatore presimbolico, ha funzioni comunicative solo se viene raccolto: così anche il setting se la funzione di simbolizzazione dell’analista è carente diviene un rituale vuoto, un oggetto autistico (Ogden, 1989).
Ho citato questo capitolo, certo per il suo interesse ma anche per notare, dal vivo, quanto Civitarese sia capace di sviluppare una rêverie sui concetti.
Il III e IV capitolo, bellissimi, si uniscono nella mia mente, ci portano al cuore di tematiche fondamentali.
Civitarese ci descrive concetti narratologici e loro derivazioni: scopriremo concetti come Trasparenza, Mapping, Accessibilità.
«La teoria del campo analitico (TCA) (…) è il prodotto estremo della radicalizzazione della natura artificiale della scena dell’analisi e, insieme, si presenta come un modello «forte» della realtà sociale inconscia dei fatti che vi si rappresentano. In questo (…) la TCA punta a tenere in equilibrio questi due aspetti, cioè l’utilità per gli attori e autori del dialogo analitico di perdersi nella finzione istituita dal setting – il che vuol dire intimità, vicinanza, spontaneità, intensità emotiva, autenticità – e la necessità di riemergerne per accedere alla pluralità dei mondi possibili in cui essi vivono simultaneamente» (95).
«Qualsiasi evento è visto innanzitutto come radicato per effetto del transfert nel qui-e-ora della seduta, generato da una matrice intersoggettiva» (Ogden, 1991, p. 117).
«La storia stessa è un luogo del campo o un suo genere narrativo» (Ferro, 2002, 117).
Ricordo Francesco Corrao (1986) nella sua definizione di campo: «Una funzione il cui valore dipende dalla sua posizione nello spazio tempo: sistema ad infiniti gradi di libertà forniti da infinite determinazioni possibili che esso assume in ogni punto dello spazio e in ogni istante nel tempo». E con piacere lo ricordo perché possiamo così notare l’estensione del concetto che Civitarese ci propone e trovare una fertile linea di continuità e innovazione.
La TCA tende a realizzare un equilibrio tra le tecniche immersive che hanno a che fare con coinvolgimento, gioco, curiosità, e le tecniche interattive che rischiano rotture troppo brusche della finzione, mira quindi a prevenire le possibili malattie del Campo.
Proseguendo vediamo come l’Autore si ponga il problema di evitare il rischio di interpretazioni traumatiche e cerchi gli strumenti per attuare ciò.
Nell’esposizione delle sequenze cliniche viene ben descritta la funzione e alcune caratteristiche dell’interpretazione che un poco riassumo, citando dal libro:
«Interpretazione debole, insatura, aperta, proposta negoziabile o dono per l’ospite, un sogno o rêverie che l’analista fa sul sogno/racconto del paziente.
L’interpretazione narrativa o insatura veste il saio dei francescani, rifugge l’arroganza, dosa la violenza, coglie l’emozione dominante…
Ciò che precede o dovrebbe precedere l’interpretazione è un’emozione, un’intuizione, qualcosa che sorprende, che ha una sensazione di “vero”» (Bezoari, Ferro 1992; Civitarese, 2008; Ferro, 1996; Ogden, 2003).
Vi segnalo una breve sequenza clinica: però leggetela nel testo per non perderne la vivacità e la completezza. Civitarese ci parla della paziente che chiama Sara precisandoci che all’inizio dell’analisi a lungo ella sta con la testa rialzata in una posizione di infaticabile vigilanza.
L’analista comunica, in una seduta, che non potrà esserci in un giorno della settimana successiva. Segue un silenzio che possiamo pensare pesante, doloroso. In questo spazio/tempo l’analista si trova a toccare fogli sparsi sulla scrivania.
Ci mostra poi tutto quanto percorre la sua mente, affiorano ricordi.
Si trova a ripensare alle sedute precedenti, ad una interpretazione data cui era seguito un sogno della paziente che ci racconta dettagliatamente (riguarda scenari esplosivi, di guerra, e altro..).
Sara accenna a dire qualcosa, esitante: “Vorrei dire tante cose, ma è troppo…”. Ha
però superato una cupa disperazione se può affacciarsi alla scena, come ci fa intendere il suo attento analista.
Egli, dopo aver raccolto le idee che solo in parte, per motivi di spazio, ho ricordato con delicatezza le parla dell’esplosione emotiva realizzata dalla comunicazione del salto di seduta.
“Ci si può pensare ” dice Sara.
“Forse ci ha già pensato troppo. Tanto da non riuscire a dire nulla. Farsi sasso tra i sassi, pietrificarsi ” risponde l’analista.
Compaiono ricordi che riguardano il padre, gli appuntamenti mancati con lui, il senso di sconfitta in quel rapporto e il silenzio pesante che seguiva. Si può ora, nell’interpretazione, riprendere l’appuntamento mancato. Ora, non prima.
Se quest’interpretazione fosse data subito potrebbe gelare la paziente; qui l’attesa e la delicatezza permettono la condivisione emotiva.
Il punto di svolta è dato dal “toccare” perché il silenzio era divenuto insostenibile all’analista come alla paziente.
Toccare che ha significato «Riparare l’incrinatura di una componente fusionale o sensoriale del setting prodotta dall’improvvisa prefigurazione del vuoto della seduta cancellata del venerdì; vuoto che, sofferto dalla paziente, riverbera in qualche modo su di me (…)» ci dice l’Autore (84).
“Dopo” si potrà accedere alla raffigurabilità.
La condivisione emotiva pone le premesse perché qualcosa accada, nella seduta seguente vedremo lo sviluppo di nuovi temi: essi si sono sviluppati perché sono stati lasciati germogliare.
«O chestnut-tree, great rooted blossomer, / Are you the leaf, the blossom or the bole? (Yeats, 1974)», cita infatti l’Autore nel capitolo “Transfert” (181).
Non perdete i capitoli seguenti, sulla Nachtraglichkeit, Transference, USA. E gli altri.
Non si può infatti che accennare, riflettendo su un libro così denso di concetti, ad alcune tra le molte strade che si aprono davanti a noi.
Toccanti e segno di quanto la cifra di questa psicoanalisi siano affettività e disponibilità sono anche le ultime pagine sull’etica dell’ospitalità.
«Ma l’ospitalità pura o incondizionata non consiste in un simile invito (“Io l’invito, io le do il benvenuto nella mia casa, a patto che lei si adatti alle leggi e norme del mio territorio, d’accordo con il mio linguaggio, tradizione, memoria, ecc., “). L’ospitalità pura e incondizionata, l’ospitalità in sé, si apre o è preliminarmente aperta per qualcuno che non è aspettato né invitato, per chi vuole che arrivi come un visitatore assolutamente straniero, come un nuovo arrivato, non identificabile e imprevedibile, insomma, totalmente un altro. Io chiamerei questa ospitalità di visitazione più che un invito. La visita potrebbe in verità essere molto pericolosa, e non dobbiamo ignorare questo fatto; ma sarà che una ospitalità senza rischio, una ospitalità fondata su certe garanzie, protetta da un sistema immune contro l’altro totalmente, sarebbe una vera ospitalità?» (Jacques Derrida, in Filosofia in tempi di terrore).
Con Freud e Derrida, ospitalità autentica vuol dire accettazione assoluta dei propri numerosi Sé, dell’alterità costitutiva dell’Io, di tutto ciò che è umano, ci ribadisce l’Autore (209).
«Se la psicoanalisi è alla ricerca di un nuovo paradigma, la TCA è tra quei modelli che possono raccogliere la sfida» (204).
L’antitesi alla tirannia (anche ideologica) è la democrazia, la conversazione civile, il consenso. Occorre però «…sapere che la stessa democrazia produce i suoi ghetti e che persino la sensibilità per le minoranze, le differenze, e il politically correct può pervertirsi in violenza, come ci racconta P. Roth (2000) con un sentimento di pietas ne “La macchia umana“» (206).
Aggiungo, dal romanzo, poche parole, di Roth sul protagonista: «…Dalla naturalezza di lei trae il piacere d’essere naturale a sua volta (…) quello che prova adesso è il piacere di essere disarmato» (Roth, 147).
Le aggiungo perché Giuseppe Civitarese non è armato di teorie, le percorre, ma nei confronti del paziente è “ospitale” e naturale.
ottobre 2010
Bibliografia
Bezoari M. e Ferro A. L’oscillazione significati-affetti nella coppia analitica al lavoro, Riv. Psicoanal., vol. 37, N. 2, 381-403 (1992).
Borges J. L. (1960). “L’altra tigre” Antologia personale, Longanesi, Milano 1967.
Corrao F. (1986). Il concetto di campo come modello teorico. Gruppo e funzione analitica. 7, 9-21.
Cortazar J. (1962). Storie di Cronopios e di Famas, Einaudi, Torino 2005.
Di Chiara G. (1985). Una prospettiva psicoanalitica del dopo Freud: un posto per l’altro. Rivista di psicoanalisi, 31, 451-461.
Derrida J. Filosofia in tempi di terrore, citato da Giovannetti de Freitas Marcio in “L’ospitalità nella clinica psicoanalitica di oggi”, Lavoro presentato al XXV Congresso Latino-Americano di Psicoanalisi, settembre 2004.
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Ferro A. Some implications of Bion’s thought: the waking dream and narrative derivates, Int. J. Psycho-Anal., vol. 83, 597-608 (2002).
Ferro A. Tormenti di anime. Passioni, sintomi, sogni, Cortina, Milano 2010.
Marcelli D. Reflexion sur une conduite particuliere de l’enfant autiste: prendre la main, Neuropsychiatrie Enfance et Adol., vol. 31, 259-261 (1983).
Ogden T. H. (1989). Il limite primigenio dell’esperienza, Tr. It. Astrolabio, Roma 1992.
Ogden T. H. Analysing the matrix of tranfererence, Int. J. Psicho-Anal., vol 72,593-605 (1991).
Ogden T. H. On not being able to dream, Int. J. Psicho- Anal., vol. 84, 17-30 (2003).
Roth P. (2000). La macchia umana, Einaudi, Torino 2001.
Searles H. F. Concerning Tranference and Countertransference, Int. J. Of Psichoanal. Psychotherapy, vol. 7 (1979).
Yeats W. B. Poesie, Mondadori, Milano 1974.