Parole chiave: Psicoanalisi; Freud; Migrazione; Rifugiati; Integrazione; De Micco
L’inquietante intimità. Legami e fratture nei transiti migratori
di Virginia De Micco, Alpes Italia, 2024
Recensione di L. Ravaioli
Si può decidere di voltare completamente le spalle all’abisso
fingendo che riguardi qualcun altro,
o si può essere costretti a fissare lo sguardo sul suo fondo
come accade a chi solca il Mediterraneo sui barconi
e si perde nel buio liquido della notte in mare aperto,
buio che infiltra la mente e la circonda da ogni parte,
oppure si può cercare di avanzare sul margine di quell’abisso (p.128)
Siete pronti a guardare, ad avanzare sul margine dell’abisso delle nostre ipocrisie, pregiudizi, paure del diverso? Allora apriamo insieme il libro “L’inquietante Intimità. Legami e fratture nei transiti migratori” che anche secondo la prefazione di Anna Ferruta “ci aiuta a incontrare lo straniero/noi stessi, senza girarci dall’altra parte spaventati e sottrarci, ma avvicinandoci e aprendoci con timore, curiosità, desiderio, distanza” (p.XIV).
Qui troveremo una formazione antropologica perfettamente armonizzata con l’esperienza psicoanalitica. Virginia De Micco è attualmente Coordinatore Nazionale del Gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati) della SPI e sotto la sua guida il gruppo ha incrementato le proprie riflessioni teorico-cliniche fino a diventare un gruppo di studio e di ricerca con lo scopo di creare un metodo per esaminare le multiple dimensioni dello “straniero”: psichico, relazionale e sociale che può assumere anche caratteristiche perturbanti ed estranee.
In questa pubblicazione, che riunisce molti dei suoi lavori, condivide la sua grande esperienza sulle dinamiche della migrazione, nelle sue componenti culturali ed intrapsichiche.
Come la stessa autrice presenta nell’introduzione, “gli articoli contenuti nel presente volume tracciano un itinerario che si snoda nell’arco di quasi due decenni, attraversando le trasformazioni e le evoluzioni non solo del fenomeno migratorio ma anche dei nostri modi di intenderlo ed interpretarlo, così come le trasformazioni che a loro volta i movimenti migratori stessi hanno indotto nei paesi ospiti, con i loro cambiamenti culturali e le loro ibridazioni più o meno conflittuali.
E cambiamenti, ripensamenti, nuovi e vecchi interrogativi, attraversano anche i lavori riuniti in questo testo: mi sono chiesta a lungo come armonizzare riflessioni e autentici dilemmi che mi hanno accompagnato in questi anni, ma ho preferito alla fine lasciare le cose come si sono presentate in momenti diversi e permettere così al lettore di seguire il movimento di un pensiero vivente che si interroga…” (Introduzione, p.XXIII).
Questa pubblicazione è un percorso quindi attraverso i pensieri, i riferimenti teorici e alcune intense vignette cliniche, che lasciano l’interrogativo su come sia proseguito l’incontro, e la vita, dei tanti Aki, Anitha, Youssef, Andrej e Niccolò.
Tra gli approfondimenti della letteratura scientifica antropologica e psicoanalitica, tornano a più riprese lungo il testo il lavoro di Michele Risso e il suo concetto di microtraumatismo quotidiano, rielaborato da Virginia De Micco quando sottolinea il bisogno di “guardare al trauma non più come ad un evento, ma come a un processo” (p.50); è omaggiata l’eredità di Leon e Rebeca Grinberg che “nel loro pionieristico studio sulla “Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio” equiparavano l’esperienza migratoria ad una vera e propria “esperienza di rinascita” (p.82) e approfondita l’instabilità dei referenti metapsichici e metasociali, come li definisce René Kaës, oltre a tanti altri autori, tra cui Ferenczi, Fédida, Winnicott, che rendono questa pubblicazione fondamentale a chi si interessa delle dinamiche migratorie, ma utilissima ad ogni psicoanalista.
Il libro si compone di quattro parti, o sezioni. La prima: “Dalla ricerca etnografica alla psicoanalisi”, ci introduce al concetto di clinica interculturale che si differenzia dalla clinica dello sguardo medico, raggiungendo una clinica dell’ascolto (p.7) ulteriormente approfondita di sensibilità culturale, necessaria nella presa in carico diagnostica e terapeutica, per poter trovare un equilibrio in quel “gioco a rimpiattino tra alterità culturale e alterità psichica, tra sintomo e cultura, (che) può portare a sovrastimare il disturbo psichico in una popolazione culturalmente eterogenea etichettando come deviante, come “malato” ogni comportamento non omogeneo dal punto di vista culturale oppure, o, al contrario, a sottostimare la sofferenza psichica equivocando per specificità etnica, per diversità culturale quelle che sono manifestazioni di disagio, seppure culturalmente connotate” (p.16).
Di questa sezione ho trovato particolarmente interessanti alcune considerazioni sull’utilizzo di un idioma diverso dalla propria “lingua madre” per cui “nuove esperienze talvolta possono essere “nominate”, con tutto ciò che questo significa, proprio perché ciò avviene in una lingua “straniera”, il che comporta una sorta di parziale estraneazione rispetto a quello che si sta dicendo; se ben utilizzata la lingua “straniera” all’interno della relazione terapeutica può funzionare dunque come un compiuto “sistema di oggetti verbali transizionali”. Non è detto infatti che sia necessariamente utile condurre una terapia nella lingua già conosciuta dal paziente (come si sa si tratta spesso delle lingue europee adottate in epoca coloniale, molto difficilmente si potrebbero usare dialetti o lingue locali), può essere utile comprenderla, seguire le frequenti oscillazioni da una lingua all’altra, ma non necessariamente scegliere di usarla nella relazione” (p.20)
Nel narrarci l’incontro con alcuni bambini l’autrice ci mostra come l’adesione alla lingua “comporti una pressione identitaria notevolissima: se parlo italiano, penso in italiano, allora sono italiano” (p.37) e più avanti nel testo De Micco riprende il tema e osserva che “non si tratta solo di un apprendimento cognitivo ma di una complessa ridefinizione di sé collocandosi in un diverso universo linguistico, così ad esempio vivere tra due lingue significa vivere tra due mondi” (p.101).
La seconda parte, più corposa con i suoi nove articoli e che riprende il sottotitolo del libro: “Legami e fratture nei transiti migratori” riporta riflessioni storiche di realtà migranti italiane: “Si ricorderà come già negli anni 70, in Germania e Francia in particolare, venisse descritta come tipica dei migranti una forma di “sinistrosi”, ovverosia una sorta di elaborazione delirante in seguito a incidenti sul lavoro che si incentrava sulla richiesta di un “risarcimento” rivolta soprattutto ad agenzie governative ed assicurative” (p.90). Il corpo è analizzato nelle sue trasformazioni, nella “vera e propria “regressione” da soggetto a “corpo” carico di bisogni elementari (che) impegna la mente innanzitutto nella necessità di sopravvivere, sollecitando quei nuclei ambigui e indifferenziati cui fa riferimento Bleger” (p.94), un corpo iperinvestito perché è “meglio restare un corpo murato nel dolore o “ottuso” dallo stordimento che tornare ad essere una mente che dovrà soffrire tutto quello che il corpo ha attraversato” e che “diventa contemporaneamente il luogo più resistente e più vulnerabile dell’esperienza migratoria, luogo in cui si scaricano e si coagulano tutte le antinomie costitutive dell’essere “migrante”, di quell’essere sradicato, corpo senza radice, senza involucro e sostegno, che la stessa natura primaria hilflos dell’umano indica” (p.95)
Le riflessioni cliniche provengono da interventi sul campo, in centri di prima accoglienza, attraverso supervisioni gruppali alle equipe e interventi individuali agli ospiti, adulti e bambini. E’ nella clinica che riusciamo a riconoscere ed apprezzare maggiormente quel “‘dare voce dando ascolto’, restando la qualità specifica dell’ascolto analitico la cifra e la garanzia della funzione analitica in un setting così singolare” (p.136), un lavoro che chiede “di essere ancora più profondamente analisti, attraverso una rinnovata profondità di ascolto di quanto ci è da un lato così straniero, dall’altro così immediatamente vicino” (p.137).
Questo significa anche saper riconoscere quelle “mimesi mutilanti”, quelle “integrazioni (che) si rivelano così molto spesso frutto solo di attitudini mimetiche, di imitazioni sul piano psichico, piuttosto che di autentiche introiezioni” (p.124). Alcune storie di iperadattamento mimetico alla cultura del paese di accoglienza, sono osservate indagando l’esperienza infantile, e successivamente approfondite secondo il vertice osservativo genitoriale, che vivono i figli come “estranei”, e quindi “vissuti come un’intollerabile minaccia all’ordine del proprio mondo” (p.150).
“Cornici teoriche in movimento” è il titolo della terza parte, dove De Micco riprende ed approfondisce il tema del sistema culturale “incarnato in uno psichismo” (p.174) e il vissuto doloroso della “doppia assenza”, sintetizzato da Abdelmalek Sayad in quell’esperienza dell’ “essere assente sia dal paese di origine che dal paese di accoglienza, non poter cioè effettivamente “abitare” – ovverosia appartenere a – nessuno spazio perché non si è davvero presenti in nessun tempo” (p.197).
In questa sezione c’è un passo, inoltre, che sembra condensare il messaggio del libro (o almeno ciò che il libro ha comunicato a me, se è vero che i libri appartengono al lettore quanto all’autore) in cui Virginia De Micco afferma che “lo straniero/estraneo è ciò che viene da fuori, non solo è extra, dunque esterno ma, vorrei sottolinearlo, la sua specificità è un esterno che si avvicina, che dunque la mente è costretta a registrare, a registrare costantemente come estraneo, verso il quale dunque non è possibile effettuare né un’operazione di stabile appropriazione né un’operazione di definitivo allontanamento” (p.204). Lo straniero è “alterità radicale o doppio deformato”? Si chiede l’autrice, perchè egli “appare cioè sempre troppo lontano o, all’opposto, troppo vicino, come se appunto non fosse mai possibile porlo ad una “giusta” distanza: anche quando l’integrazione appare perfettamente riuscita può essere invece fonte di inquietudine o addirittura di rigetto.” (p.208-9).
Un libro che ci aiuta a riflettere sulla stranierità, in tutte le sue forme, anche quelle attivate dalla pandemia in cui il pericolo del contagio veniva identificato “in un qualsiasi tipo di “gruppo esterno”, di volta in volta i cinesi, i lombardi, o addirittura gli anziani” (p.213). Il lavoro di supervisione le ha permesso di accedere al contagio traumatico subito dagli operatori “i primi apparati psichici che “reagiscono” al trauma (…), i primi a risultarne “affetti”, soprattutto nel senso di sviluppare le massicce reazioni emotive che la percezione (la vista, l’udito) dei traumi comporta” e per i quali “vivere accanto ad un sopravvissuto è una delle esperienze più difficili da elaborare, da reggere senza farsene distruggere” (p.226). Per difendersi da questa traumatizzazione secondaria, De Micco propone che “la mente dei terapeuti debba funzionare a lungo come un’incubatrice, accontentandosi dapprima di fornire strettamente condizioni di sopravvivenza senza potersi presentare come oggetti troppo umani, non ancora investibili psichicamente” e che “lo psicoanalista supervisore si faccia “garante” del setting che si incarica di far rispettare e mantenere, preservandolo dagli attacchi che inevitabilmente subirà, consentendo di fatto che questa “funzione pensante” abbia luogo”. (p.229)
La quarta e ultima sezione: “Il lavoro psicoanalitico in territori di confine” introduce più specificamente le riflessioni e le esperienze con i migranti sfuggiti alla guerra.
Nel suo lavoro con minori stranieri non accompagnati, Virginia De Micco ci aiuta a vedere come il rischio di radicalizzazione e fondamentalismi abbia uno filo diretto con l’esperienza dell’essere sradicati, con l’assunzione imitativa di modelli culturali occidentali e una carenza di uno “strumento culturale efficace” ovvero uno “strumento capace di fornire loro una simbolizzazione efficace sul piano psichico, capace di indicare il loro posto nell’ordine dei generi e delle generazioni” (p.243). A ciò si aggiunge un pesante senso di colpa e tradimento nel migrante che fugge dalla guerra, perché “non c’è nulla di più “imperdonabile” che sentirsi al caldo e al sicuro mentre l’angoscia e l’incertezza circonda altri legami ed affetti: ecco perché non ci si sente “salvati” nel rifugio temporaneo” (p.286).
In questa sezione è ripresa una delle concettualizzazioni più importanti ed originali di Virginia De Micco: attraverso quel gioco di parole e assonanze che è la sua cifra stilistica e di pensiero, afferma che “soprattutto sembra indispensabile la capacità analitica di favorire il ripristino delle barriere di contatto nei funzionamenti psichici, di valorizzare quel lavoro sulle soglie di cui già altrove avevo sottolineato la centralità nel lavoro con migranti e rifugiati: si tratta di quegli scambi profondi ma fugaci che possono avvenire spesso solo sulle soglie delle stanze, nei corridoi o nelle sale d’aspetto, nei tragitti d’accompagnamento etc., spazi fisici dunque, non ancora simbolizzabili, che fungono da cornice “concreta” per una funzione psichica non ancora attingibile pienamente, né tantomeno stabilmente interiorizzabile, spazi in cui si potrà effettuare giusto una “toccata e fuga” dei contenuti psichici più angosciosi e “intoccabili”, come del resto accade con quelle comunicazioni “esplosive” che spesso i pazienti fanno sul finire della seduta o sulla soglia della stanza d’analisi appunto” (p.292).
Il libro si chiude con un capitolo: “In margine”, che “rappresenta la condizione psichica stessa dell’essere migrante: anche quando si sono trovate e sperimentate efficaci forme di adattamento, buoni percorsi “di integrazione” lavorativi e scolastici, nondimeno la percezione di essere sempre gli ultimi arrivati, quelli il cui posto è più precario e instabile permane attraverso le generazioni” (p. 303).
Virginia De Micco ci aiuta a distinguere il singolo, la storia individuale umana in quella massa indistinta di cui ha parlato anche nel suo scritto, in esclusiva per Spiweb, in occasione della giornata del rifugiato, in un libro ben scritto e scorrevole nella lettura, pur trattando di temi importanti, dolorosi, spinosi.
C’è solo una mancanza: questo libro non si può avvalere della passione che trapela dalla voce della sua autrice quando parla di questi temi di persona. Alla prima occasione, andate ad ascoltarla.