
Parole chiave: inconscio filmico, film eminenti, rappresentazione, inconscio non rimosso, traduzione
L’inconscio filmico –
Il cinema tra psicoanalisi ed ermeneutica
di G. Martini (Jaka Book, Psyché, 2024)
Recensione di P. Boccara
Il bel libro di Giuseppe Martini, L’inconscio filmico – Il cinema tra psicoanalisi ed ermeneutica, si colloca a pieno diritto nell’ambito degli studi che propongono il cinema come un importante dispositivo in grado di attivare diverse e multiformi dinamiche nella mente dello spettatore. Nel solco della tradizione della filmologia (disciplina nata intorno alla metà del Novecento che ha coinvolto nello studio dei film e del cinema specialisti nei vari campi delle cosiddette scienze umane), il testo di Martini si concentra attorno a un’idea centrale: il cinema non si limita a raccontare storie, ma opera anche a un livello più profondo della nostra mente, instaurando un dialogo con l’inconscio di noi spettatori.
Siamo così invitati a guardare in modo diverso un film e ad apprezzarne il piacere del testo che ne può derivare provando ad avvicinarci a quella dimensione inconscia (non rimossa) che sta prima di qualsiasi distinzione tra esterno e interno, tra soggetto e oggetto, testo e interpretazione, affetto e rappresentazione.Una dimensione che ha che fare con i vari tentativi che avvengono nella nostra vita (e quindi non solo in analisi) di pervenire al messaggio dell’esperienza di questo stato interno enigmatico, attraverso l’ascolto dei fallimenti stessi della simbolizzazione, ‘dentro’, ‘ai margini’ o anche ‘fuori’ del discorso verbale e rappresentativo.
Un inconscio, inteso qui non solo come ‘un passato che tende a ripetersi’, ma anche e soprattutto come “una forma di rappresentanza dello psichico correlata all’incontro con un’altra mente” (Ogden, 2022) e che si riferisce non solo ai contenuti ma alla funzione simbolizzante stessa. Al centro del processo di simbolizzazione c’è l’oggetto, “l’altro” (in questo caso l’oggetto filmico), la “funzione simbolizzante dell’oggetto” e l’esperienza che il soggetto ne fa. Oggetto dunque, “non solo da simbolizzare, ma per simbolizzare; oggetto paradossale, che proprio attraverso la presenza [e io direi: l’essere usato], consente di elaborare quell’alterità di cui esso stesso è la causa e che permette di costituire” (Barale, 2021).
Il libro si inserisce quindi a pieno titolo nello studio sulle precondizioni della pensabilità: un terreno pre-cognitivo dove si gioca il prodursi, prima ancora che di un senso, di un reticolo di pre-significazioni, di ri-condivisioni, di esperienze affettive dal quale può nascere anche un riconoscimento potenzialmente efficace di significati. Una riflessione sul lavoro con ‘stati non rappresentati della mente’, connessi in psicoanalisi anche alla traumaticità della relazione primaria, che è diventato, un punto centrale dell’attuale sviluppo delle teorie di molti autori, una questione fondamentale per riconoscere ed elaborare il ripresentarsi di tali configurazioni nel vivo della relazione analitica.
I punti di riferimento dell’autore sono le nuove concezioni della psicoanalisi contemporanea (relative, tra l’altro, all’inconscio non rimosso, alle nuove concezioni del sogno, al tema della traduzione), gli apporti della filosofia ermeneutica (con particolare riferimento a simbolo, narrazione e traduzione), le proposte di alcuni teorici del cinema (i formalisti russi, Barthes, Deleuze, Metz, Pasolini, Tarkovskij), dell’arte (Henry), della letteratura (Ricoeur).
Attraverso il concorso armonico di questi diversi contributi, il testo esplora anche il modo in cui il linguaggio cinematografico – dal montaggio fino alla composizione dell’inquadratura- può evocare differenti livelli dei processi psichici, influenzando la ricezione e l’effetto delle immagini.
Al centro di tutti gli undici capitoli del libro, si colloca il confronto tra la rappresentazione cinematografica e la rappresentazione (e la ‘non rappresentazione’) inconscia, insieme alla continua sottolineatura di come le identificazioni immaginarie che il cinema induce nello spettatore possono essere messe in parallelo con quelle che avvengono nel percorso analitico.
Nei primi capitoli si propone proprio un cambiamento di prospettiva nel rapporto tra psicoanalisi cinema e si introduce l’idea di ‘inconscio filmico’. Cosa intende Martini per ‘inconscio filmico’? “Una dimensione emozionale che si genera a partire dalla fusione di orizzonti e dall’ intersezione tra opera filmica e spettatore”. Qualcosa di nuovo e originale che si genera in questa relazione, paragonabile al terzo interpersonale di Ogden e che si attiva nel momento in cui lo spettatore si abbandona recettivamente al flusso delle immagini, rendendo possibile l’emergere non solo dei contenuti manifesti e latenti, degli aspetti simbolici e/o rappresentazionali già presenti in qualche modo sia in se stesso che nel film, ma anche attivando l’area della propria sensorialità. Si viene a generare un ampliamento dell’inconscio stesso “attivato dalla creatività dell’inconscio non rimosso” e favorito dalla consegna – da parte dell’opera cinematografica – di proprie rappresentazioni alla dimensione irrappresentabile dello spettatore. Non una ‘psicoanalisi dell’arte’, ma semmai (come la definisce Martini stesso, richiamandosi a Di Benedetto) “una psicoanalisi dall’arte”.
Una riflessione su ciò che arte e psicoanalisi condividono: una dimensione primigenia di pensiero, l’area “del non-visto, del non udito e del non-detto che è al confine del “pensiero nascente” (Di Benedetto) e l’area di quel “commercio estetico col mondo” (Merleau-Ponty), che precede qualsiasi linguaggio, nella quale il senso prende forma attraverso le immagini.
Nel terzo capitolo la riflessione si sposta sulla modalità di visione del film, soprattutto alla luce dei processi di identificazione studiati e teorizzati dalla psicoanalisi. Il quarto capitolo è dedicato alle interessantissime tematiche del doppio e della dissociazione che il cinema spesso rilegge come paradigma della condizione umana. Segue nei capitoli cinque, e sei una riflessione sul film in quanto testo ‘eminente’ che valorizza il cinema di poesia e l’immagine simbolo e che sono definiti tali da Martini in quanto elementi scelti per lo sviluppo creativo dell’inconscio filmico I capitoli successivi (settimo ottavo e nono) affrontano il cinema attraverso tre dimensioni che assumono una funzione di rilievo nell’attivare peculiari dinamiche emozionali: il tempo, il sogno e le psicosi. Nel decimo si affronta la questione identitaria come tema che attraversa il cinema incessantemente, sia dal lato della ricerca dell’identità sia dal lato delle defezioni delle identità stessa. L’ultimo capitolo, l’undicesimo, è dedicato alla ‘traduzione’, proposta sia nel passaggio dal testo preesistente al film sia in quello che procede dalla sua visione all’interpretazione e alla trasformazione in materia affettiva inconscia.
Martini ci accompagna così attraverso i modi in cui la psicoanalisi e il cinema si rincorrono nel rendere visibile l’invisibile, sia nel senso di ‘non visto’, ma anche del ‘non ancora visto’, dell’’accaduto non sperimentato e non pensato’, ma anche del ‘non ancora pensato’. Il film come generatore di inconscio, appunto, esattamente e al pari del dialogo tra analista e analizzando.
La proposta che Martini continuamente ci offre è quindi quella di confrontare le nostre esperienze cinematografiche e psicoanalitiche anche con la ricerca del percorso che la nostra mente fa nel produrre senso: un senso non primariamente definito sempre al di là delle immagini, ma neanche traducibile sempre solo in immagini. Anzi un senso che può scaturire dalle immagini a patto che siano intese come l’occasione per la sua stessa costituzione. Un senso che acquista valore anche per come in questo particolare percorso si esprimono e si riformulano gli elementi della sua iniziale irrappresentabilità.
Il tutto attraversando innumerevoli e stimolanti riflessioni teoriche in cui le sue originali proposte si intersecano a una indiscutibile passione per il cinema, utilizzando spesso un serrato dialogo tra teorie psicoanalitiche, una robusta esperienza clinica insieme a solide radici nel pensiero ermeneutico.
Ne risulta un impasto di particolare qualità, che richiede al lettore un indubbio impegno, ben ricompensato e facilitato però dalla vivacità con cui Martini illumina la sua materia (con innumerevoli scorci tratti della sua ricca esperienza di cinefilo).
Un’interpretazione originale del rapporto tra spettatore e immagine filmica che mostra in maniera chiara come il cinema sia in grado di strutturare un’esperienza psichica che trascende la semplice fruizione estetica, coniugando rigore teorico e applicazione pratica e offrendo un’analisi approfondita senza perdere di vista la dimensione esperenziale del cinema.
Uno dei principali punti di forza del libro è senz’altro la capacità di Martini di coniugare teoria e analisi cinematografica, offrendo una lettura stimolante sia per gli studiosi di cinema sia per chi si interessa di psicoanalisi. La scrittura è chiara e coinvolgente, pur mantenendo un rigoroso impianto teorico che dà al libro anche il valore di un testo originale e nuovo di psicoanalisi contemporanea.
Riferimenti bibliografici
Barale F. (2021). “Su alcuni aspetti della psicoanalisi contemporanea. Al di là dell’interpretazione”. Post-fazione a “Ascoltare con tutti i sensi” di Bastianini T., Ferruta A., Guerrini Degl’Innocenti. Giovanni Fioriti Editore. Roma
Ogden T.H. (2022), Prendere vita nella stanza di analisi, Raffaello Cortina, Milano.