La Ricerca

L’impronta del trauma

3/03/10

Sui limiti della simbolizzazione

Collana Gli sguardi, Franco Angeli editore, pag. 217

Centro Psicoanalitico di Roma (2009)

Recensione di Laura Contran

In questo volume vengono riproposti i lavori presentati in occasione del Convegno dal titolo“L’impronta del trauma. Sui limiti della simbolizzazione” svoltosi a Roma nel dicembre del 2008 organizzato dal Centro Psicoanalitico Romano sezione locale della Società Psicoanalitica Italiana.

Gli autori affrontano il trauma e i suoi effetti da diverse angolazioni, offrendo al lettore la possibilità di orientarsi in un tema complesso ritenuto un nodo cruciale, uno scibbolet, della teoria psicoanalitica.

Il concetto di trauma, infatti, ha origini lontane, a partire da Freud e dalla controversa questione del trauma della sessualità infantile, ma nel suo lungo cammino ha incontrato evoluzioni e sviluppi grazie alla ricerca post-freudiana.  

Un elemento di convergenza che contraddistingue l’insieme degli scritti psicoanalitici presenti nel volume è la prospettiva metapsicologica senza la quale il trauma, sia esso evento reale o immaginario, dato storico o elemento fantastico, perderebbe la sua specificità di realtà psichica collocandosi piuttosto, o esclusivamente, nell’area esperienziale-fenomenologica.

A tale riguardo Luchetti ricorda che esiste di una «traumaticità fondativa che assume […] una valenza strutturante per lo psichismo» (Luchetti, 186) e la nozione di trauma «riunisce esemplarmente e indissolubilmente il punto di vista economico, topico, dinamico […] fino a costituire un modello dell’apparato psichico» (ibid. 185).

Un altro filo rosso che percorre i numerosi contributi, ricchi peraltro di riferimenti letterari e filosofici, è l’attribuire al trauma una valenza non solo individuale bensì collettiva con un implicito richiamo al pensiero freudiano secondo cui “la psicologia individuale è, sin dal’inizio, psicologia sociale”.  Un richiamo anche di natura etica, potremmo aggiungere, dal momento che la psicoanalisi si fonda sull’incontro-riconoscimento dell’alterità, in primo luogo dell’inconscio. L’interesse della psicoanalisi per il trauma contrasta dunque con l’idea di una disciplina che «si chiuderebbe in una dimensione solipsistica e si rifiuterebbe di considerare l’impatto dei mutamenti che si stanno determinando nella società» (Cruciani, 55).

Su questo argomento si apre la prima parte del volume dal titolo “Un alfabeto per rappresentare il dolore“. Gli psicoanalisti si chiamano in causa al fine di pensare a «nuove forme di concettualizzazione per rappresentare il dolore traumatico» (Cupelloni, 22) in un’epoca connotata da un “traumatismo diffuso” e nella quale la linea di demarcazione tra la vita e la morte è diventata sempre più labile. Sopravvivere a un evento catastrofico richiede all’essere umano la capacità di fronteggiare gli effetti destrutturanti e disorganizzanti che si ripercuotono nella sua esistenza e nella sua vita psichica. D’altra parte anche sul versante sociale e culturale assistiamo a una sorte di frammentazione del pensiero: la velocità e la saturazione di notizie e immagini (violente e orrorifiche) che ci giungono attraverso i mezzi multimediali, non permettono che si venga a  creare uno spazio per l’elaborazione del lutto e la «possibilità di simbolizzare il trauma» (Ibid. 21).

È dello stesso avviso lo scrittore A. Pascale secondo il quale il nostro sistema comunicativo attuale induce, con la sua spettacolarità, l’illusione della condivisione. Nel condurci ossessivamente sulle scene del trauma in verità ci distoglie “eludendolo in continuazione” (Pascale, 31) e suscita, al contrario, sentimenti di estraneità ed estraneazione. In una cultura dominata dall’immagine e dalla visibilità l’esibizione dei traumi, individuali e collettivi, si svuota di un significato «veramente capace di parlare alla nostra soggettività» (Thanopulos, 34) allontanandoci dalla dimensione tragica a cui essi appartengono e alla quale, peraltro, la prospettiva psicoanalitica è molto vicina.

La seconda parte del volume “Psicoanalisi del trauma” comprende gli scritti di T. Bastianini, P. Cruciani, G. Maffei, L. Russo, A.Giannakoulas ed è centrata sulle vicissitudini storiche di questo concetto, sulle più recenti articolazioni concettuali e sulle nuove possibili vie da intraprendere in termini teorici e clinici «per una psicoanalisi attenta ai processi di costituzione dell’identità soggettiva e delle condizioni di rapporto con gli oggetti» (Bastianini, 52).

Giannakoulas, nel ripercorrere il pensiero di Winnicott, Ferenczi e Khan, si sofferma sul traumatismo precoce nella relazioni primarie e sull’instaurarsi nel bambino di difese arcaiche quali il diniego, la scissione e le formazioni reattive organizzate, laddove la madre e l’ambiente non si sono rivelati “mediamente attendibili” nel costituirsi come schermo protettivo. Questi vissuti traumatici originari, che interferiscono nell’esperienza del Sé e dei processi maturativi, sono difficili da scoprire clinicamente, ma possono riemergere nella relazione transferale riproducendo «forme primitive e precoci di esistenza e funzionamento» (82).

Russo, invece, nel mettere in luce la differenza in termini spazio-temporali tra l’evento traumatico reale ed esterno e la sua rielaborazione nella realtà psichica, si sofferma sul duplice status del trauma in quanto evento «esistente nel passato, ma ‘dichiarato scomparso’, non esistente nel presente» (115). Trauma fantasmatico, connotato da un investimento affettivo, e trauma reale diventano dunque indistinguibili. Rimangono nella memoria delle tracce stratificate che ne rendono impossibile la sua ricostruzione, ma solo la sua costruzione. Russo inoltre pone la questione sull'”analizzabilità del trauma reale” (118) e di conseguenza sulla posizione dell’analista che può sentirsi “pietrificato” di fronte al “dolore assoluto”. Da questo limite, nasce l’esigenza di trovare una teoria e un metodo psicoanalitici, in grado di tradurre i traumi in “codici simbolici e umanizzati”(123) e in quanto tali appartenenti all’umanità.

Tema di grande rilevanza ripreso nella terza parte del libro “Clinica del trauma” che ci rende partecipi attraverso le storie di alcuni pazienti di ferite (somatiche oltre che psichiche) e dolori non nominabili, storie raccontate dagli autori con una scrittura attenta e rispettosa.

Il reale che irrompe nella stanza d’analisi e sembra resistere ad ogni simbolizzazione mette alla prova l’analista e la sua facoltà di tollerare un eccesso di realtà “insopportabile”.  La condivisione e la co-sperimentazione, sia pure “in differita” (Bolognini, 132) delle esperienze traumatiche vissute dal paziente diventano la condizione preliminare e necessaria a un lavoro analitico propriamente interpretativo.

La funzione dell’après coup e la risignificazione del trauma è ben evidenziato, nei suoi passaggi, da M.G. Fusacchia la quale sottolinea l’importanza per il paziente di giungere ad una capacità auto interpretativa come nella situazione clinica descritta: una giovane donna con una storia infantile di deprivazione e abusi sessuali dopo un lungo periodo di mutismo porta in seduta con un (pre)testo teatrale che ha come oggetto “una relazione incestuale”, il suo vissuto «per testimoniare all’analista il lavoro autointerpretativo, di simbolizzazione della propria storia» (146).

L’idealizzazione, la persecutorietà, il senso di colpa, l’identificazione con l’aggressore, e il sentimento della vergogna nelle sue varie declinazioni (Gaburri, Maffei) costituiscono le istanze e le zone psichiche da attraversare e esplorare al fine di uscire da quel “amalgama indifferenziato”(Gaburri, 161) saturo di identificazioni primitive o di “memorie identificatorie traumatiche”(Bastianini, 51) che minacciano l’annientamento del soggetto, la sua afanisi.

Il contributo di P. De Silvestris pone altresì degli interrogativi sugli effetti positivi del trauma e se questi possa «paradossalmente diventare un argine della pulsione di morte» (137) freudianamente intesa come ritorno all’inorganico. L’esperienza clinica conduce l’Autrice a ipotizzare l’esistenza, di un nucleo traumatico (una cifra traumatica) che funzioni da operatore psichico, una sorta di strategia difensiva e al tempo stesso strutturante che permette «di organizzare quella possibilità di vita che è adeguata a ognuno di noi e che per ciascuno di noi conviene credere che sia la migliore che esiste» (143).

Concludono la raccolta le considerazioni interpretative di A. Luchetti “Il trauma e la sua impronta Per una interpunzione” e una Nota storico-critica “Il trauma psichico: il percorso freudiano, la sua eredità e altre vicissitudini” di C. Genovese.

 

Lo spazio di una recensione non permette di citare né tantomeno approfondire tutti gli scritti, ognuno meritevole di un’attenta lettura. Senza dubbio, questo impegno collettivo costituisce un momento di confronto per rivisitare ed ampliare i confini dei nostri attuali modelli teorico-clinici al fine di renderli più idonei a misurarsi con le nuove forme di sofferenza psichica. È inoltre l’occasione per ripensare come la psicoanalisi, sull’impronta lasciata da Freud, possa continuare a svolgere, per quel che le compete, la sua “opera di civiltà”.

Laura Contran

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

“Al cinema con il mio paziente"  di G. Riefolo. Recensione di P. Boccara

Leggi tutto

"Femminile melanconico" di C. Chabert. Recensione di S. Lombardi

Leggi tutto