L’imperfezione dell’identità. Riflessioni tra psicoanalisi e antropologia
Edizioni Alpes
*immagine di Nidaa Badwan
Il libro di Alfredo Lombardozzi ha il pregio di offrire un’infinità di stimoli e di interessanti collegamenti tra la psicoanalisi, l’antropologia, la filosofia, la letteratura e perfino la biologia. In tutta questa ricchezza si corre però il rischio di perdersi, come Alberto Sobrero nota nella Postfazione. Ho dunque imbastito una sorta di filo d’Arianna per orientarmi in questo affascinante “labirinto culturale”.
Una breve premessa. A proposito di psicoanalisi e antropologia, Virginia De Micco scrive nella Prefazione che “La stanza d’analisi diventa sempre più una sorta di ‘cartina al tornasole’ delle trasformazioni che attraversano la costituzione del legame sociale….svelandone il ‘rovescio inconscio’, secondo la definizione di Laurent Assoun”: non possiamo che essere d’accordo.
Michel Foucault sottolineava come psicoanalisi ed etnologia siano animate da un perpetuo principio di inquietudine perché in fondo sono entrambe scienze dell’inconscio.
In modo più provocatorio, Lacan diceva che l’antropologia si interessa all’uomo e la psicoanalisi a ciò che gli manca. Del resto, nell’area francese le origini dei due pensatori si intrecciano in uno sviluppo comune: basti pensare al decollo della psicoanalisi nei salotti culturali della Parigi anni ’20 e di come l’utopia dell’inconscio e il fascino del sogno offrano il loro contributo a quello straordinario movimento ‘culturale-politico-artistico-letterario’ di cui fanno parte i surrealisti come Breton e Bataille, tra i primi a farsi analizzare. A questo movimento appartiene l’etnologo Michel Leiris della nascente scuola etnologica di Parigi che intraprende un’analisi personale.
Qualche considerazione sul titolo: “L’Imperfezione dell’identità”. Questo titolo, nella sua valenza di ossimoro, mi ha molto intrigato perché mi è sembrato che l’identità, un processo implicante un’idea di movimento e di trasformazione, si accosti, secondo una linea di contrasto, al “fermo immagine” della perfezione che evoca invece una certa staticità. Una tensione dialettica che permea tutto il libro: tra qualcosa che è in movimento e che cerchiamo di afferrare ed il tentativo, spesso deluso, di formulare definizioni destinate a essere caduche. L’antinomia ricorrente che cogliamo nel libro si esplicita in binomi opposti o complementari. Ne citerò alcuni che hanno costituito il mio filo d’Arianna: identità-alterità; perfezione-imperfezione; puro-impuro; confine-frontiera; profilo-volto.
Identità-alterità. A proposito dell’identità si legge nell’Introduzione, a pagina 19: “in psicoanalisi l’identità si articola con le declinazioni dell’Io o del Sé a seconda del contesto teorico-clinico prevalente”. Mi sembra una definizione lineare che racchiude una certa complessità e nel contempo esprime bene l’idea di una funzione in movimento.
Riflettendo sulla crisi dell’identità e dei ‘cambiamenti catastrofici’ nel paragrafo “Quale idea dell’identità per la psicoanalisi?” Lombardozzi offre molti spunti e cita autori diversi tra cui Bion. Il riferimento a Bion mi ha fatto pensare a quanto possa essere adeguata, per gli adolescenti che attraversano un momento chiave di trasformazione, l’idea dell’ identità in movimento. A questo proposito Bion scrive infatti: “Non è facile dire se lo stato mentale che stiamo guardando o che stiamo studiando stia cadendo in rovina o stia giungendo a maturità”. Penso alla metafora di un cantiere e alla sua ambiguità: la casa è in costruzione o la si demolisce? Forse i due processi ad un certo punto si incontrano.
Sempre nell’ambito della identità e della perdita, si affronta a più riprese il tema del lutto. Quando il processo del lutto sfocia un in un meccanismo di perpetuità e si fa incompleto, prende spazio la ‘nostalgia’. Anche il lutto appare vincolato ad una necessità di movimento per non essere soggetto al rischio di “cristallizzazione”. Il bel libro dei coniugi Grinberg citato a proposito di psicoanalisi ed emigrazione, descrive tra l’altro lo smarrimento del migrante di ritorno nel paese d’origine. In questo libro mi ha particolarmente colpito una frase che sottolinea l’esigenza non sempre realizzabile di avviare un “lutto continuo”: “Coloro che ritornano non sono più gli stessi rispetto a quando sono partiti e il luogo di ritorno è anch’esso cambiato” (Grinberg L.,Grinberg R.,1982).
Il concetto di perdita si collega associativamente al tema della rinuncia dell’identità. Nel Capitolo 10 si rammenta il dialogo di Lanternari con le figure di Geza Roheim e di Georges Devereux; quest’ultimo, di origine ungherese antropologo, sociologo e psicoanalista, è considerato il padre dell’etnopsicoanalisi. Lombardozzi si sofferma su una frase di Devereux nella quale si evidenzia come il sovrainvestimento dell’identità etnica porterebbe all’annientamento della reale identità dell’individuo. Una frase che mi ha fatto ripensare alla conferenza di Devereux tenuta nel 1964 in occasione della sua ammissione alla Società Psicoanalitica di Parigi, dal titolo: La renonciation à l’identité: défense contre l’anéantissement. (Cerea A., 2015). Si tratta di uno scritto molto interessante realizzato in un momento in cui Devereux, a Parigi da un anno, cambiò il proprio nome (il suo nome originale era György Dobó) per mascherare, secondo alcuni, le sue origini ebraiche. Talvolta per sopravvivere bisogna dunque uccidere la propria identità affinché il sé più profondo possa emergere.
Proseguendo con la lettura del libro, si passa dalla crisi dell’identità alla crisi della definizione di identità con frequenti riferimenti al pensiero del sociologo Remotti, una figura carismatica, che compare in vari capitoli del libro. Remotti, come emerge nei suoi libri L’Ossessione identitaria e Contro l’identità, ipotizza di abolire il termine di identità sostituendolo con quello di somiglianza: propende maggiormente per il noi e la noità, sbilanciandosi in questo modo verso l’alterità. Del resto sul piano psicoanalitico l’identità si costruisce nel confronto con l’alterità attraverso la relazione che, in condizioni ottimali, permette lo sviluppo del processo di soggettivazione.
Il binomio perfezione-imperfezione è connesso all’idea di puro-impuro: non possiamo non ricordare il dibattito attorno al tema delle culture pure e impure, come sottolinea l’antropologo Fabietti (2012). Sembra che non ci si voglia sbarazzare solamente dell’identità, poiché la stessa idea di cultura rappresenta un concetto scomodo, imbarazzante, come già Clifford sottolineava nel 1933 proponendo di sostituirlo con quello di struttura sociale. Oggi assistiamo, come sottolinea Lombardozzi, a un traffico di culture immerse in un flusso dinamico dove si influenzano l’una con l’altra. La cultura di oggi appartiene a una dimensione più transnazionale o delocalizzata che va ben al di là del concetto di frontiera.
A proposito di frontiera qui affronterei un altro interessante binomio: quello del confine-frontiera. L’autore cita Anzieu (a pag.11) il quale ricorda come il confine rappresenti soprattutto il ristabilimento delle frontiere. Ma potremmo chiederci se questi due termini, in qualche modo sovrapponibili, non rivelino delle differenze poiché mentre il confine implica un’idea statica, una cesura netta dell’identità, la frontiera rappresenterebbe piuttosto una zona di transizione, un fronte in movimento dove l’identità si stempera. Lo storico statunitense Frederick J. Turner (1920) definisce così la frontiera: “La frontiera è il versante esterno dell’onda, il punto di incontro tra barbarie e civiltà.”
Da notare infine in questa prima parte del libro, l’espressione mutuata da Montaigne, “coltivare l’imperfezione” unita alle riflessioni degli psicoanalisti Bodei e Chianese relative a questo autore. Essi approfondiscono il rapporto tra il profilo e il volto sottolineando la duplicità dell’individuo.
Nella seconda parte del libro vi sono tre capitoli molto interessanti: la Genitorialità, le Adolescenze e i Narcisismi. Si affronta il tema del materno e di come il complesso edipico possa o meno adattarsi alle diverse latitudini. La realtà indiana su cui Lombardozzi si sofferma mi ha fatto pensare alle similitudini con la psicoanalisi giapponese e con il cosiddetto complesso di Ajase. Questo complesso, che lo psicoanalista giapponese Kosawa sottopose a Freud nel 1935, rappresenta la rivisitazione del complesso di Edipo influenzato dal buddismo, dove l’ambivalenza materna appare dominante.
Le riflessioni sul rito che viene visto sotto diverse angolature sono molto stimolanti. Nel contesto adolescenziale, le pratiche del tatuaggio e del piercing oscillano dalla ricerca di un “involucro sensoriale” come precisa Anna Nicolò, al tentativo di esprimere la necessità di distinguersi e nel contempo di appartenere ad un gruppo, fondando, secondo l’espressione di Canevacci, la “cultura giovanile”.
Concludo la mia recensione nella speranza di aver saputo, almeno in parte, “coltivare l’imperfezione” secondo l’augurio che illumina tutto il libro.
Bibliografia
Cerea A.(2015)(a cura di).Georges Devereux. La rinuncia all’identità. Una difesa contro l’annientamento.Milano, Mimesis, Collana Filosofia/Scienza.
Fabietti U., Malighetti R., Matera V., (2012).Dal tribale al globale, Introduzione all’antropologia. Milano, Bruno Mondadori.
Turner F.J.(1920). La Frontiera nella storia americana, Bologna, il Mulino,1975.
Chiara Rosso
Ottobre 2015
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