“Lezioni sulla tecnica”
di Melanie Klein
(Raffaello Cortina, 2020)
Recensione a cura di Laura Colombi
Iniziare la lettura di un libro di tecnica psicoanalitica con curiosità e interesse e sentire come questo interesse si colori in breve di autentico piacere, non è poi così consueto. Le Lezioni sulla Tecnica di Melanie Klein, sorprendono anche per questo: un’esperienza che coinvolge dalle prime pagine per più motivi, che si alimentano vicendevolmente. Sorprende e coinvolge perchè è un inedito di raro interesse e perchè raccoglie gli unici appunti dalla Klein relativi alla tecnica con pazienti adulti. Perchè le 6 Lezioni – tenute nel 1936 ai candidati della British Psychoanalitycal Society- hanno un particolare interesse storico come testimonianza della vivacità del suo pensiero in costruzione e perché hanno un indubbio impatto sul lettore contemporaneo per la modernità di alcuni passaggi dal carattere quasi visionario. Perché, oltre alle Lezioni, raccoglie anche Seminari tenuti nel ’58 a un gruppo di giovani analisti della British Society che, in contrappunto alle Lezioni, danno un’idea del successivo approccio alla tecnica, permettendo di cogliere la misura della continuità e del cambiamento, e di fotografare, attraverso le domande dei partecipanti, punti su cui ci si interrogava allora e che rimangono tuttora centrali nel dibattito sulla tecnica psicoanalitica.
A rendere ulteriormente prezioso il libro e più che consigliabile la sua lettura, si aggiunge un’ articolata e stimolante Introduzione di John Steiner, curatore del testo edito da Routledge nel 2017 e due interessanti saggi conclusivi – Approfondimenti – di Silvia Andreassi e Paolo Fabozzi, cui si deve anche la meritevole iniziativa di aver promosso la pubblicazione in italiano.
Nell’Introduzione, Steiner, che riesce appieno nel suo intento di “comunicare il fascino e l’entusiasmo che queste straordinarie lezioni possono suscitare”, procede in prima battuta a spiegare come questi materiali siano stati scoperti, per poi passare a “una rassegna e una lettura critica” delle lezioni e seminari e concludere con una trattazione di “due questioni tuttora controverse che interessano approcci contemporanei alla tecnica”: quella del controtransfert e del grado d’attenzione che deve essere data al ‘qui e ora’ e ai suoi nessi con la storia precoce del paziente.
L’Introduzione, che costituisce il primo dei tre capitoli del libro, ha un incipit , “Scoprire le lezioni”, che è un piccolo cammeo per la precisione e vivacità con cui Steiner accompagna il lettore nella ricostruzione storica del ritrovamento e successiva messa in forma leggibile degli appunti e scritti contenuti nell’archivio. Un archivio costituito da 29 scatoloni, ciascuno contenente circa dalle 800 alle 1000 pagine di documenti – alcuni in tedesco, altri in inglese, alcuni manoscritti, altri scritti a macchina – che Klein (convinta al contrario di Freud che i suoi scritti inediti dovessero essere conservati) ha lasciato alla sua morte al Melanie Klein Trust. Qui Elisabeth Spillius trova anche gli appunti delle Lezioni sulla Tecnica, sistematizzati solo in parte da Klein e resi fruibili dal suo dedito impegno e dal fondamentale lavoro filologico fatto in seguito dallo stesso Steiner.
Se questo esordio storico invita alla lettura, la “Panoramica e Discussione sulle Lezioni sulla Tecnica di Melanie Klein”, che segue, coinvolge e appassiona per la capacità con cui Steiner ci fa ‘ascoltare’ la voce della Klein, potenziandone ulteriormente la geniale profondità. Un intarsio di stralci degli scritti originali e dei commenti con cui Steiner accompagna il testo, che, anche per la scelta magistrale dei titoli di questa “Panoramica”, orienta al meglio nella lettura, valorizzando la raffinatezza dei singoli argomenti e la modernità delle idee, capaci di stimolare pensieri illuminanti anche nell’attualità della clinica.
Il secondo capitolo raccoglie la 6 lezioni tenute da Klein nel ’36. Leggerle è come percorrere le stanze che ospitano la personale di una grande artista: un’esperienza in cui il visitatore s’immerge nel piacere della mostra nella sua totalità, sostando maggiormente di fronte ai quadri che più gli evocano soggettive risonanze interne. Panorami che si aprono su paesaggi costitutivi della psicoanalisi toccando questioni di fondo. Come nel paragrafo “L’atteggiamento psicoanalitico,” in cui conosciamo una Klein nelle sue componenti umanamente più vive, che considera il lavoro analitico “proficuo” solo se sono “pienamente attivi emozioni e sentimenti umani, sebbene tenuti sotto controllo”, emozioni e sentimenti che permettano all’analista di “avvicinare e comprendere il paziente come essere umano”. Una Klein, rispettosa dell’umanità del paziente, che delinea, con un linguaggio appassionato e appassionante, intenti e qualità ritenute essenziali al buon funzionamento dell’analista. Un vero e proprio manifesto – d’impatto anche per le giovani generazioni di analisti – che esce dai confini del suo specifico approccio clinico e abbraccia questioni che vanno al centro di problematiche legate anche alla nostra attuale prassi psicoanalitica: la centralità del transfert e l’importanza dei collegamenti con le relazioni oggettuali precoci, gli ostacoli al cambiamento, la relazione tra realtà e fantasia, l’impronta della fantasia sulla storia infantile e sul presente del paziente, la funzione dell’interpretazione, l’importanza dell’amore e la sua qualità complessa, l’esplorazione tra fattori ambientali esterni e vita fantasmatica, e infine, in estensione questo punto, l’analisi delle rimostranze. Temi conosciuti anche per gli sviluppi che prenderanno nel tempo, ma che in questa rassegna sollecitano in particolar modo il pensiero creativo del lettore per il modo comunicativo e vivo con cui teoria e teoria della tecnica sono integrati ed esemplificati nella clinica adulta. Una qualità della ‘pennellata’, carica di passione oltre che di maestria, capace di dar rilievo anche a particolari che, se pur non in primo piano, emergono in modo originale, suggerendo collegamenti con temi della contemporaneità, dell’attualità della clinica e del dibattito psicoanalitico. Ne sono un esempio, nella Lezione 1, le parti sul rapporto tra dolore, colpa e angoscia come “parte integrante di quella complessa relazione con gli oggetti che chiamiamo amore”; “rigenerante idea”, come scrive Steiner, che ci è familiare per i successivi scritti sulla posizione depressiva, ma che qui assume, in forma di bozzetto, una particolare forza e nitidezza, che favorisce lo sviluppo di pensieri sulla qualità dei sentimenti libidici e sul complesso raggiungimento di una loro autentica profondità. Tema attuale sia nell’ambito della clinica, per il peso che assume a livello identitario soggettivo e dell’ambiente di crescita, che in quello sociale, per il dilagare di strategie difensive tese all’evasione di fronte a crisi sempre più dolorose e pervasive. Di notevole interesse per la questione sul ‘ruolo del trauma’, centrale nel dibattito psicoanalitico più recente, è la parte dedicata alla “teoria del Super-io e la tecnica” – ripresa e ampliata poi nella Lezione 2 – in cui Klein, approfondendo la relazione trauma-fantasia, fornisce un quadro profondo e di ampio respiro sulla complessità dei fattori in gioco nel divenire e strutturarsi delle relazioni tra realtà e fantasia. Tema ripreso e ampliato più avanti nella Lezione 5, dove esplora in profondità le relazioni tra fattori ambientali esterni e vita fantasmatica anche attraverso il resoconto clinico del Signor D.; materiale presentato in appunti abbozzati che sono stati sistematizzati e resi poi coerenti dal lavoro di Steiner (Appendice B), e fruibili per noi dalla scrupolosa traduzione di Sara Boffito, cui si deve il testo italiano delle Lezioni sulla Tecnica.
Il terzo capitolo raccoglie I Seminari sulla Tecnica. La formula seminariale mette in particolare evidenza – oltre allo stile comunicativo interpersonale della Klein – anche come il pensiero dei 6 giovani analisti partecipanti si stesse interrogando su questioni specifiche del divenire della tecnica psicoanalitica: la questione del controtransfert e dell’uso da parte dell’analista dei sentimenti di controtransfert nella formulazione dell’interpretazione; quella del colloquio preliminare; dei silenzi del paziente; dell’opportunità di domande poste dall’analista; del problema dell’esperienza soggettiva dell’identificazione proiettiva sull’analista. E infine, la domanda sui “cambiamenti che hanno avuto luogo nella tecnica nel corso degli ultimi quarant’anni”, che fa emergere nella risposta della Klein anche un’ interessante precisazione (che contrasta certe letture parodistiche della sua tecnica) sull’importanza del timing del transfert e della capacità analitica di tenere molto spesso “sullo sfondo della mente quale sia il significato inconscio di tutto questo e in che modo sia in relazione con l’analista” .
Il libro si conclude con i due bei saggi “Melanie Klein era veramente kleiniana?” e “Armonie creative e irreparabili dissonanze”, rispettivamente di Silvia Andreassi e Paolo Fabozzi. Due lavori di qualità, colti e interessanti, che riescono nella non facile impresa di incuriosire ulteriormente con il piacere di vertici di lettura che aggiungono stimoli e valore alla completezza del testo. Nel saggio della Andreassi la messa a fuoco, attraverso specifiche evidenziazioni, della natura di “una psicoanalisi vitale, ricca, in continua evoluzione, fedele al desiderio di conoscenza” di questa “grande analista al lavoro, tanto appassionata quanto risoluta” e – nel saggio di Fabozzi – la ricostruzione del “contesto nel quale queste lezioni hanno preso forma…le vicissitudini dei rapporti personali tra Melanie Klein e Winnicott e, infine [la possibilità di] contrapporre e far dialogare i loro rispettivi punti di vista.”