La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi
Bollati Boringhieri, Torino, pag. 332
Recensione di Laura Contran
«Di cosa parla il libro? Dell’enorme quantità di pensiero, d’interesse e di ricerca che molti di nostri pazienti ci richiedono […] e dei dubbi e degli affetti che ci accompagnano nel nostro viaggio esplorativo con loro […] Senza mai dimenticare che si parte sempre e inevitabilmente da molto lontano».
Niente mi è sembrato di più appropriato, nel presentare l’ultimo libro di Franco Borgogno, che citare le parole con le quali l’Autore indica al lettore la traccia per seguirlo nel suo percorso di psicoanalista dal 1994 a oggi. La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi contiene, infatti, un insieme di articoli, conferenze, interviste (in parte già pubblicati) e costituisce il “completamento e la continuazione” del suo precedente Psicoanalisi come percorso del 1999.
La prima considerazione che mi è venuta in mente, nel leggere questo libro, riguarda la passione e l’autenticità con cui Borgogno riesce a descrivere la sua esperienza di psicoanalista, oltre alla capacità di trasmettere quel particolare “sapere” che essa veicola. Autenticità, beninteso, che non coincide tout court con la spontaneità o la schiettezza (caratteristiche che pur non mancano a Borgogno come si può cogliere dalle sue note autobiografiche ), ma da intendersi, piuttosto, nell’accezione di autorità, dato che l’analista è implicato, in quanto autore, nel proprio “agire” psicoanalitico. Al di là, aggiungerei, dei modelli teorici di riferimento che legittimano il suo sapere, ma che rischiano, se non rielaborati e soggettivizzati, di rimanere dei vuoti stereotipi. D’altra parte, come afferma lo stesso Borgogno ogni analista ha i propri “tic teorici” che lo guidano nella lettura dei casi clinici (46).
Fatta questa premessa, inizierei da quello che egli definisce il suo tic teorico fondamentale riassumibile « […] nella convinzione che l’ambiente – inteso come insieme di qualità affettive e cognitive dei caregivers – è del tutto fondante per la salute e la malattia dell’individuo, per il suo benessere psichico o per la sua sofferenza […]» (69).
Il tema centrale che attraversa i vari scritti della raccolta è il concetto di deprivazione Spoilt Children, termine, anch’esso, che “viene da lontano” in quanto introdotto da Borgogno nel 1994, già ampliamente trattato ( 1999) e oggetto, nel presente lavoro, del bel dialogo con Dina Vallino (Spoilt Children: un dialogo fra psicoanalisti, 181 ).
Si tratta di una particolare condizione di deprivazione affettiva vissuta dal bambino nelle sue relazioni primarie a contatto con genitori emotivamente assenti, rifiutanti o non responsivi e poco disponibili ad accogliere e sostenere la vitalità del figlio. L’impronta di tale relazione, attraverso un’identificazione massiva con gli oggetti deprivanti, lascerà inevitabili segni nella vita psichica dell’adulto manifestandosi in un pervasivo senso di “non esistenza” e di “morte psichica”, annullando ogni spinta vitale, creativa, in altri termini, libidica.
Paradigmatico è il caso di M una paziente «molto silente e inerte» (22) con una storia familiare travagliata, che diventa il filo conduttore e costituisce, il “cuore” del libro. Nella prima parte l’Autore offre un resoconto clinico ampio e dettagliato di questa lunga analisi, ne delinea i momenti cruciali, si sofferma sul working through dell’analista, e sulla «lunga onda del transfert- controtransfert» (37), privilegiando soprattutto i sogni portati in seduta dalla paziente a partire da quello inaugurale – una sorta di “carta da visita” – nel quale compare «una persona giapponese di identità incerta che faceva hara-kiri» (23). I sogni, esposti nella loro evoluzione, scandiscono i tempi dell’analisi e diventano, soprattutto nelle prime fasi, il mezzo privilegiato «in quanto ospitano nelle loro immagini la trascrizione di frammenti di esperienza muti, silenti, e non assimilati e “lavorati” a livello simbolico in assenza di mezzi realmente disponibili per la messa in parole e per l’elaborazione» (43).
Tocchiamo, qui, una questione di fondo messa in luce da Borgogno circa la necessità di rivedere la posizione dell’analista rispetto ai problemi teorico-tecnici che si troverà ad affrontare nella cura di pazienti con una sofferenza depressiva di tipo schizoide, esprimibile soltanto attraverso «un dolore apatico» (75) che per molto tempo non troverà le parole per essere detto. «Il problema principale sarà […] in primis il cercare di raggiungerli» (127). In questa ricerca l’analista dovrà affidarsi, (nonché fidarsi), almeno in un primo momento, alle sue impressioni e sensazioni controtransferali.
Nel caso di M l’Autore descrive in modo efficace come la latitanza della parola, la difficoltà ad utilizzare un linguaggio metaforico, abbiano richiesto all’analista un’attenzione partecipe e costante al fine di cogliere quei “segni” verbali o corporei che hanno permesso, nel tempo, di stabilire un contatto con la paziente privilegiando, come «scelta obbligata» (97), l’aspetto interpersonale più che l’interpsichico. Borgogno evidenzia che la peculiarità di questi pazienti nella cui vita ha predominato l’assenza (in senso emotivo) delle figure genitoriali (in particolare quella materna in quanto oggetto primario), è il bisogno di essere visti, di sentire uno sguardo di riconoscimento che provi, innanzi tutto, la realtà della loro esistenza.
In questa dialettica del riconoscimento l’analista non potrà sottrarsi – anzi si troverà a viverli sulla propria pelle – a sentimenti di fallimento, di inutilità, essendo le difese primitive messe in atto dal paziente nell’ordine di una «grave frammentazione, dissociazione, scissione, proiezione e totale diniego della vita psichica». Verrà quindi richiesta all’analista la determinazione a non arretrare, a saper sostare, per il tempo necessario, in quella particolare «dinamica interattiva» definibile come «rovesciamento dei ruoli» (292). Altrettanto inevitabili, saranno “i passi falsi” e gli enactments che l’analista dovrà «transitare e modulare con assiduità e pazienza» (39).
Sulla scia di Winnicott quando afferma che per svolgere la sua funzione in modo sufficientemente buono l’analista dovrà “stare sveglio, stare vivo, stare bene” anche per Borgogno si tratta di non arrendersi, di non adattarsi ai momenti di stallo che rendono, a tratti, impervio il percorso analitico e di conservare la fiducia (102). J. Lacan in altri termini ha parlato di desiderio dell’analista e dell’importanza di non cedere rispetto a questo desiderio.
Ciò che l’Autore intende sottolineare, dal punto di vista della tecnica psicoanalitica, è che sono proprio le discordanze, se confrontate con criteri “classici” utilizzati nelle analisi con pazienti “nevrotici”, a diventare fattori di cura che rendono pensabili e possibili le aperture al cambiamento. Come scrive Theodor Jacobs «Franco Borgogno ha convincentemente mostrato con il suo impegno analitico che, per trattare pazienti profondamente sofferenti come M, occorre adottare uno stile esplorativo che getti un ponte tra le realtà intrapsichiche e le realtà interpersonali» (80).
A tale proposito, si rivela particolarmente emblematico e chiarificatore il racconto di un momento dell’analisi con M. Dopo un periodo di apparente buona alleanza terapeutica, il clima analitico ritorna ad essere vischioso, confusivo e immobile. Ai tentativi da parte dell’analista di interpretare alla paziente un silenzio prolungato e ostinato, essa risponde con l’espressione (immagine evocativa) “fare quadrato”. L’analista, esasperato, reagisce allora con un’interpretazione “roboante e veemente” – l’immagine è quella di un rombo «come risposta al quadrato» (27) – esprimendo così il proprio desiderio di essere aiutato a capire per superare l’impasse. Un’interpretazione emotivamente significativa che ripristina, per così dire, una sorta di geometria affettiva nella quale la paziente sembra accorgersi della reciproca alterità: «Se uno scopre che un effetto sugli altri è reale, esiste: quindi anche gli altri esistono per lui e sono reali. E’ questo che lei mi dà. Non un rumore indistinto e tormentante […] E’ qualcosa che giunge a “rombarti” dentro, che è vivo e non morto e ti fa risorgere» (31).
E’ senz’altro un passaggio fondamentale nel quale M sperimenta, in modo inedito, quel senso di agency, vale a dire «il sentimento di avere un impatto sugli altri» (126), che nasce originariamente dal venire riconosciuti dai propri caregivers, e acquisisce la consapevolezza di un proprio valore soggettivo che diventa preliminare a quel processo di decolonizzazione e disidentificazione nei confronti degli oggetti parentali mortiferi introiettati dai quali, e solo a queste condizioni, sarà in grado di separarsi.
Verrà un tempo successivo in cui la paziente potrà trovare lo spazio per ri-costruire la propria storia, «scoprire e narrare la sua verità di fronte all’analista» (34), che diventerà, a questo punto, testimone partecipe e silenzioso del suo racconto.
Bion, Winnicott, Heimann, i Balint, sono alcuni tra gli autori preferiti da Borgogno, oltre naturalmente Freud al quale, tuttavia, egli non risparmia delle critiche (anche se non del tutto condivisibili) riguardo alla “parzialità” della sua lettura del caso del piccolo Hans (Little Hans Updated, 213). Ma il maestro a lui più caro è senza dubbio Ferenczi, le cui intuizioni teoriche e cliniche hanno anticipato le riflessioni più recenti sullo sviluppo infantile e l’Infant Research, ma anche sugli stati limite e le patologie gravi.
Accanto agli scritti dell’Autore che in questa raccolta raggiungono una loro compiutezza, sia in senso teorico che clinico, troviamo i contributi di numerosi colleghi psicoanalisti (Altman, Goretti Regazzoni, Jacobs, Nemirovsky, Schellekes, Sklar, Slavin, Vallino, Vigna-Taglianti), i quali, in modo interlocutorio, con i loro commenti, interrogativi o appunti critici, apportano stimoli e idee permettendo di rileggere il caso di La Signorina che faceva hara-kiri da più angolazioni e prospettive teoriche.
Ho parlato di compiutezza in quanto il lavoro di Borgogno non giunge a delle conclusioni perché, come lui stesso afferma nell’ultimo capitolo «non esiste una conclusione»(283). Se pensiamo, infatti, all’esperienza analitica come alla metafora del viaggio (così cara agli psicoanalisti), sappiamo che tale esperienza non si esaurisce con la fine di un percorso, «non ha una conclusione se non provvisoria», e resta in un certo senso nell’ordine dell’interminabile. Ma questo, ci ricorda Borgogno citando Saramago, i poeti lo sanno dire meglio: «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono continuare ad esistere nella memoria, nel ricordo, nei racconti. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro […]» (284).
Mi ritornano in mente le parole di commiato di Silvia (una paziente con una storia molto dolorosa e per certi aspetti simile a quella di M): “Quello che ho ricevuto dall’analisi, che mi ha permesso di fare dei passi in avanti, che sento appartenermi e desidero saper fare per il mio futuro, è la capacità di spostare le cose sempre un poco più in là.”
Giugno 2011