“La mentalizzazione nel ciclo di vita: interventi con bambini, genitori e insegnanti”
A cura di Nick Midgley e Ioanna Vrouva
(Raffaello Cortina ed., 2014)
Recensione di Simona Calderoni
L’organizzazione del libro si compone di tre parti: la prima è principalmente teorica e ha lo scopo di fornire una panoramica sul concetto di mentalizzazione; la seconda presenta i diversi contesti in cui gli interventi basati sulla mentalizzazione sono stati sviluppati nel lavoro con i bambini e gli adolescenti nel servizio di salute mentale; la terza parte propone gli adattamenti delle idee sulla mentalizzazione al lavoro con i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie nei contesti di comunità. Ogni capitolo si focalizza sul lavoro con persone di differenti età (bambini piccoli e loro genitori, adolescenti), con varie modalità di lavoro (individuali, familiari o di gruppo) in diversi contesti (clinica di salute mentale, scuole, ospedali ecc..).
Quando mentalizziamo siamo impegnati in una forma precoce di attività mentale immaginativa, prevalentemente preconscia, che ci consente di cogliere e interpretare il comportamento umano in termini di stati mentali, come bisogni, desideri, emozioni, credenze, obiettivi, intenzioni e motivazioni. Nella mentalizzazione usiamo l’immaginazione poiché dobbiamo farci un’idea in merito a ciò che gli altri potrebbero pensare o provare. Infatti non possiamo mai sapere con certezza ciò che è nella mente di qualcun altro.
Gli autori di questo libro sostengono che lo sviluppo ottimale della capacità di mentalizzare dipenda dall’interazione con menti mature e sensibili e, di conseguenza, sia indispensabile considerare il ruolo giocato dall’attaccamento in questo sviluppo. La mentalizzazione coinvolge una componente sia autoriflessiva sia interpersonale; è basata sull’osservazione degli altri e sulla riflessione sui loro stati mentali; è nello stesso tempo implicita ed esplicita e riguarda sia i sentimenti che le cognizioni.
I comportamenti di attaccamento del bambino vengono attivati quando qualcosa nel suo ambiente lo fa sentire insicuro; l’obiettivo del sistema di attaccamento è sperimentare un’esperienza di sicurezza. Quindi l’attaccamento costituisce il primo e principale regolatore di esperienze emotive. Nessuno di noi nasce con la capacità di regolare le proprie reazioni emotive. Il sistema dinamico di regolazione evolve gradualmente a partire dalla comprensione della risposta del caregiver ai segnali di cambiamento dello stato del neonato. “Il piccolo apprende che non sarà travolto dall’attivazione emotiva mentre è in presenza del caregiver, perché quest’ultimo è lì per aiutarlo a ristabilire l’equilibrio. Quindi, quando inizia a sentirsi sopraffatto dalle emozioni, andrà in cerca del caregiver o gli rivolgerà segnali, nella speranza di essere consolato e di recuperare l’omeostasi. Verso la fine del primo anno, il comportamento del bambino sembra essere basato su specifiche aspettative. Le sue esperienze passate con le figure di accudimento vengono aggregate nei sistemi rappresentazionali, che Bowlby definì “modelli operativi interni” (p. 24).
Le relazioni di attaccamento giocano un ruolo chiave anche nella trasmissione transgenerazionale della sicurezza. Gli adulti sicuri avranno tre o quattro volte più probabilità di avere figli con un attaccamento sicuro. L’attaccamento insicuro infantile e, in particolare, l’attaccamento disorganizzato, è un fattore di rischio per lo sviluppo emotivo e sociale non ottimale.
La giocosità è un’altra caratteristica del contesto di attaccamento sicuro. Giocare può essere importante per acquisire la mentalizzazione. I bambini non vedenti hanno un gioco di finzione piuttosto limitato e, inoltre, lo capiscono poco; hanno un ritardo nelle prove di falsa credenza che superano solo quando raggiungono un’età mentale verbale di 11 anni a differenza dei più tipici cinque anni. I bambini ciechi perdono anche l’accesso alle informazioni non verbali sugli stati interni; essi sono deprivati degli indizi su tali stati, come le espressioni facciali e possono avere problemi di identità che sono forse associate ai problemi di mentalizzazione. Il maltrattamento può contribuire ad una parziale “cecità mentale” compromettendo una comunicazione aperta e riflessiva tra genitore e figlio. Spesso colui che è stato maltrattato manifesta una “identificazione con l’aggressore”: quando il bambino interiorizza nel sé alieno lo stato mentale del suo persecutore, sperimenta una parte della propria mente come carnefice che distruggerà l’Io. Questo porta uno stato emotivo terribilmente doloroso in cui il Sé è vissuto come cattivo e odioso. In tali circostanze si può percepire come unica soluzione quella di spostare l’attacco che proviene dall’interno della mente sul corpo, attraverso l’autolesionismo. Se il rispecchiamento del caregiver è incongruente, la conseguente rappresentazione dello stato interno del bambino non corrisponderà a uno stato costitutivo del Sé e ciò potrebbe predisporre il bambino a sviluppare una struttura di personalità narcisistica, forse analoga alla nozione di “falso Sé” di Winnicott.
Una perdita specifica di mentalizzazione può essere associata allo stress: la maggior parte delle persone, se esposta a forti pressioni, tende a perdere la capacità di pensare ai pensieri e ai sentimenti altrui. Per esempio, nel corso di scambi emotivamente intensi, negli individui e nelle famiglie possono manifestarsi drammatici fallimenti temporanei della mentalizzazione.
Quando un genitore soffre di depressione maggiore, il bambino potrebbe adottare un comportamento interattivo per stimolare il genitore non tanto per un’attitudine alla mentalizzazione, quanto per creare attraverso comportamenti oppositivi, una connessione con lui, anche se solo per via disciplinare e di altre azioni non mentallizzanti. Alcuni bambini possono adottare un atteggiamento analogo a quello dei loro genitori, scegliendo di non pensare come modalità meno dolorosa per affrontare la trascuratezza emotiva.
I bambini autistici presentano una scarsa mentalizzazione anche durante l’età prescolare. I bambini di due anni affetti da autismo presentano ridotte capacità di imitazione, gioco di finzione e rappresentazione simbolica di un oggetto condiviso. Questi bambini hanno meno probabilità di riuscire a compiere distinzioni tra eventi mentali e fisici o tra apparenza e realtà e di comprendere le funzioni del cervello o della mente.
“I bambini autistici presentano meno spontaneamente il gioco di finzione, hanno difficoltà nella comprensione degli stati mentali complessi, nel seguire la direzione dello sguardo, hanno una ridotta comprensione dell’inganno e tendono a confondere i ricordi delle proprie azioni con quelle delle azioni di altre persone” (p. 52).
Le persone affette da schizofrenia, oltre che presentare una riduzione della mentalizzazione simile a quella osservata nell’autismo, tendono ad attribuire intenzioni laddove non esistono. I pazienti schizofrenici hanno difficoltà a leggere la mente (ipomentalizzazione) e di conseguenza proiettano i propri sospetti paranoici e pregiudizi sugli altri (ipermentalizzazione). L’ipermentalizzazione può svilupparsi non solo in presenza di abusi ma anche in assenza dei fattori protettivi che smorzano l’influenza dello stress. Da alcuni studi è emerso che, i bambini con problemi di condotta, tendono ad attribuire agli altri intenzioni ostili nelle situazioni ambigue. Presumibilmente, quindi, questi bambini rispondono in maniera aggressiva agli altri perché si aspettano, anche in assenza di evidenze, di essere aggrediti.
La funzione riflessiva genitoriale si riferisce alla capacità del genitore di riflettere sulla propria esperienza mentale interiore e su quella del proprio figlio per comprenderne il comportamento alla luce degli stati mentali e delle intenzioni sottostanti. Essa è associata a un positivo sviluppo del bambino e alla trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento sicuro. Elisabeth Meins e i suoi colleghi hanno introdotto il concetto di mind-mindedness materna intesa come la propensione del genitore a trattare il proprio bambino come un individuo dotato di una mente, piuttosto che semplicemente un bambino che ha bisogni che devono essere soddisfatti. La mind-mindedness e la funzione riflessiva genitoriale sono entrambe operazionalizzazioni del concetto di mentalizzazione genitoriale: la prima si esprime nelle interazioni della vita reale con il bambino e la seconda attraverso le rappresentazioni metacognitive della madre a proposito della sua relazione con il bambino. All’opposto le compromissioni nella funzione riflessiva genitoriale risultano associate a varie forme di psicopatologia infantile, dall’attaccamento disorganizzato nell’infanzia e nella fanciullezza a una varietà di disturbi di personalità nell’età adulta, incluso il disturbo borderline di personalità.
I programmi esistenti sulla riflessività genitoriale hanno come obiettivo primario lo sviluppo di un atteggiamento riflessivo nei genitori, per esempio sostenendoli nel pensare i propri figli nei termini della loro esperienza interiore piuttosto che del loro comportamento.
Il sesto capitolo di questo volume tratta le terapie basate sulla mentalizzazione con i bambini adottati e le loro famiglie: una ricerca di Van Den Dries (2010) ha dimostrato che i bambini adottati tra gli 11 e i 16 mesi subiscono, nel primo semestre dopo l’adozione, un grande salto evolutivo in aree specifiche, quali la sviluppo mentale e la crescita fisica. Una meta analisi ha anche rivelato che gli adottati presentano un rischio più elevato di relazioni di attaccamento disorganizzato, rispetto ai bambini non adottati. Allo stesso tempo, il rischio di un attaccamento disorganizzato nei bambini adottati è massimo per coloro che sono vissuti negli istituti. I bambini adottati dopo il loro primo compleanno sono attaccati in modo meno sicuro, mentre coloro che sono adottati prima dell’anno di vita hanno un attaccamento sicuro pari ai bambini non adottati. I soggetti adottati sono presenti in misura maggiore anche nel gruppo dei bambini con disturbo da deficit di attenzione e iperattività e disturbi da comportamento dirompente, come il disturbo della condotta. Hanno anche una probabilità quattro volte maggiore, rispetto ai non adottati, di soffrire di una disabilità nell’apprendimento. Il bambino adottato spesso non è capace di dare un nome ai propri sentimenti o un significato ai propri comportamenti. Tutti i bambini in fase di latenza dipendono, durante lo sviluppo, dalle capacità di funzionamento riflessivo dei loro genitori. Senza un supporto nella mentalizzazione da parte del genitore adottivo o del terapeuta, il bambino adottato non sa connettere o trasferire le memorie codificate all’interno della consapevolezza implicita non verbale delle memorie esplicite, verbali e consce. I genitori adottivi hanno spesso difficoltà nel decodificare o nel riflettere sul comportamento psicopatologico dei loro bambini, a causa del periodo non condiviso precedente all’adozione oppure della mancanza di informazioni sui genitori naturali e sulle circostanze contestuali al concepimento e alla nascita. Per di più, la relazione di attaccamento tra il bambino e il genitore adottivo è ancora in fase di sviluppo, rimane vulnerabile e spesso imprevedibile per ciascun partner.
Il comportamento aggressivo degli adottati è spesso correlato con il tema esistenziale della paura di un nuovo abbandono, con il risultato di mettere continuamente alla prova il legame genitore-figlio. Tuttavia la violenza è fondamentalmente incompatibile con il sentimento di attaccamento all’altro; essere in grado di mentalizzare come l’aggressività addolori una persona amata può aiutare i bambini adottati a controllare le loro esplosioni violente. Questo processo di mentalizzazione può sostenere gli adottati a diventare maggiormente consapevoli dell’effetto del loro comportamento sugli altri significativi. Mentalizzare su se stessi, allo scopo di comprendere la natura dei propri impulsi, è tutt’altro che facile.
I bambini adottati che sono stati traumatizzati nei primi anni di vita riportano frequentemente una rappresentazione frammentata di sé e degli altri e una varietà di sentimenti disturbanti rinchiusi dentro di sé. Di conseguenza, è molto probabile che, a seconda delle circostanze, evochino differenti reazioni nelle persone. I bambini adottati qualche volta si comportano in modo molto diverso a scuola e a casa e possono anche suscitare reazioni aggressive da parte degli altri o possono cercare di mimetizzarsi e di diventare invisibili.
Altri bambini adottivi mentalizzano eccessivamente rispetto agli altri, mostrando una forma di ipervigilanza nei confronti degli stati mentali altrui. Questo accade quando il bambino, in passato, ha dovuto stare estremamente all’erta rispetto a ciò che lo circondava, a causa di una minaccia costante di abuso o di violenza. Questi bambini presentano troppa attenzione agli altri e, nello stesso tempo, mostrano troppo poco interesse per i propri stati mentali; inoltre sembrano mal interpretare gli stati mentali altrui. L’identificazione proiettiva è uno dei meccanismi utilizzati dai bambini adottati per esternalizzare le proprie caratteristiche fisiche ed emotive intollerabili.
Il settimo capitolo approfondisce la tematica dell’autolesionismo negli adolescenti; ‘autolesionismo si riferisce ad azioni volte a far del male a se stessi, tra cui il procurarsi tagli, il bruciarsi, l’avvelenarsi, il procurarsi un’overdose, tentare di impiccarsi, buttarsi da luoghi elevati o ponti e così via. L’autolesionismo è ampiamente diffuso tra i ragazzi ed è associato sia a stati patologici sia a mortalità.
Quando le rappresentazioni del bambino da parte del cargiver sono fondate su attribuzioni non sintonizzate, il neonato interiorizzerà delle rappresentazioni non accurate di se stesso, quindi la rappresentazione secondaria della sua mente sarà aliena rispetto al suo stato mentale autentico e alla sua intenzionalità. Questa rappresentazione aliena, comunque, diventa parte del concetto interiore di sé ed è stata chiamata da Fonagy (2000) sé alieno. Ripetute esperienze di questo tipo, condurranno alla fine a una situazione in cui la mente del neonato o del bambino piccolo è dominata dal sé alieno.
“L’esperienza interiore del sé alieno è simile all’esperienza di un persecutore interno, ossia l’esperienza costante di critica interiore, odio verso se stesso, mancanza di conferma interna e aspettative di fallimento… In questo modo il sé alieno può ostacolare lo sviluppo della mentalizzazione” (pp. 66-67).
In questa prospettiva, dunque, l’autolesionismo è inteso sia come sintomatico di un deficit nella capacità di mentalizzare, sia come un tentativo di liberare il Sé dal sé alieno. L’autolesionismo rappresenta un modo concreto per gestire emozioni forti, nel contesto di un crollo della capacità di occuparsi degli stati mentali propri e altrui. In questa modalità non mentalizzante “parti del corpo possono essere considerate equivalenti a specifici stati mentali e possono, quindi, essere letteralmente rimosse in modo fisico”.
Il libro si chiude con un approfondimento relativo al cervello pensante e al sistema di allarme: al centro del cervello si trova il “sistema di allarme” che conserva le tracce di tutto ciò che è spiacevole e pericoloso. La parte frontale più esterna del cervello è importante per il pensiero in quanto è il nostro “cervello pensante”.
Anche microeventi casuali possono, in circostanze sfortunate, creare nel sistema di allarme un’ipersensibilità permanente (per esempio un film horror). La causa più frequente di squilibrio nel sistema di allarme e l’insicurezza sperimentata nella vita di tutti i giorni, per esempio con i fenomeni di microbullismo in famiglia, a scuola o al lavoro. Il cervello pensante è messo fuori uso quando una persona viene sopraffatta dalle emozioni.
“Quando siamo infastiditi e cominciamo a litigare, diventiamo più simili agli animali, poiché ‘alziamo il volume’ del sistema di allarme e abbassiamo quello del cervello pensante. Ciò accade soprattutto se ci sentiamo personalmente colpiti da un’osservazione critica poiché ci ferisce”(p. 260).
Gli studi indicano che, quando il sistema di allarme è “acceso”, il suo volume di memoria aumenta, mentre il volume di memoria del cervello pensante si abbassa. Quindi, può essere difficile, dopo l’evento, ricordare dettagli in merito a quanto è accaduto in una situazione altamente emotiva. Questo può spiegare perché è difficile per un bambino raccontare, quando torna a casa, un’esperienza spiacevole accaduta all’asilo o a scuola. Una volta che il bambino si calma, è semplicemente troppo difficile ricordare i dettagli, perché la finestra all’interno della memoria del cervello emotivo è parzialmente chiusa.
Al contrario, quando descriviamo come ci sentiamo dentro, la parte pensante del cervello è attivata e siamo già sulla via di uscita dal comportamento che ci accomuna agli animali.
Bibliografia:
Bowlby J., Attaccamento e perdita, Vol. 1: l’attaccamento alla madre. Tr. It. Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Fonagy P. Target M., Attaccamento e funzione riflessiva, Raffaello Cortina, Milano, 2000.
Fonagy P. (2000) “Attachment and borderline personality disorder”. In Journal of the American Psychoanalytic Association, 48.
Meins E., Sicurezza e sviluppo sociale della conoscenza, Ed. Raffaello Cortina, Milano, 1999.
Winnicott D., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 1970.