La storia, il romanzo e il tema delle origini
Celestino Genovese: La fontana di Bellerofonte, 1820, Tullio Pironti Editore
Il XIV aforisma del secondo capitolo de “la Scienza Nuova” di Giambattista Vico così recita: ”Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali indi tali e non altre nascon le cose”. La versione più piana e più nota recita: “La natura delle cose sta nel loro nascimento”.
Oggi, a distanza di oltre due secoli e mezzo, per gli psicoanalisti una simile affermazione è molto vicina all’ovvio. E lo è a maggior ragione per gli sviluppi post freudiani, che con diversi approcci e origini variegate si sono appunto occupati del processo che conduce alla fondazione del soggetto, che sia esso inteso nei termini della nascita psicologica (Mahler), o dell’acquisizione dell’oggetto intero nella posizione depressiva (Klein), o della conquista del senso della continuità di sé (Winnicott), o del passaggio da un’area psico-sensoriale ad una psico-orale (Gaddini), dell’Io-pelle (Anzieu) o, ancora, dell’emancipazione dal pensée opératoire (M’Uzan, Marty) e della seduzione generalizzata (Laplanche). Potrei continuare a lungo senza, però, evitare di imbatterci in un nodo problematico che forse è implicito nella versione letterale dell’aforisma del filosofo napoletano: “Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise”. L’espressione in certi tempi e in certe guise rimescola il tema delle origini, perché, mentre la nascita, a seconda degli approcci teorici, può convenzionalmente essere definita, come ho appena cercato di mostrare, per l’individuazione di certi tempi e certe guise entra in campo il tema della gestazione e, prima ancora, quello del concepimento. E, se in ambito biologico il concepimento e la gestazione costituiscono il primo un evento relativamente lineare, il secondo un processo che può anche essere complicato, ma comunque monitorabile; in quello psicologico, invece, tempi e guise sono molto più nebulosi e intricati. Il concepimento, ad esempio, è innanzitutto nella mente dei genitori (di uno o di entrambi?), più o meno conflittuale, e condizionato da una molteplice serie di fattori che procedono dalle storie e preistorie dei due protagonisti e, via via a ritroso, dalla trasmissione transgenerazionale, così come la gestazione procede nell’imprevedibilità della relazione primaria, fra ambivalenze e amore-spietato (Winnicott), rotture traumatiche sempre possibili e traumi cumulativi (Kahn) pressoché inevitabili.
In questo senso, il tema delle origini in psicoanalisi è molto meno vicino a quello della biologia di quanto non lo sia a quello dello storico, il quale realizza l’insopprimibile esigenza della ricostruzione attraverso l’artificio di un punto di partenza e di uno di arrivo, pensati in base ad una teoria storiografica che fonda la verità dei fatti che senza quella teoria non avrebbero senso; così come il bambino della teoria psicoanalitica è notoriamente tutt’altra cosa del bambino della realtà, eppure solo il primo può dirsi vero, perché pensabile in maniera fertile e relativamente generalizzabile.
Quando la Redazione del website ufficiale della SPI mi ha invitato a fornire un contributo al tema delle origini in ambito non psicoanalitico, ma con aggancio ad esso, lo ha fatto proprio perché il mio romanzo La fontana di Bellerofonte 1820 è un romanzo storico e qualche collega lettore, come anche qualche storico professionista, ha voluto cogliere nell’argomento trattato gli albori (origini) del Risorgimento italiano. In realtà, non essendo un saggio storiografico, bensì un romanzo (sebbene la documentazione sia il più possibile accurata), la prima questione concernente le origini dovrebbe riguardare il quando, come e perché la mente di un analista abbia concepito, curato in gestazione ed infine partorito una creatura così diversa da quelle prodotte da lui stesso in passato e forse in futuro. Vorrei, però, risparmiare a chi legge l’onere di addentrarsi in questi tortuosi percorsi privati e assicurare a me stesso, per gli stessi tortuosi percorsi, una pudica riservatezza. Mi limito ad individuare la preistoria di quel concepimento o, se si vuole, l’antefatto, nell’ormai lontano terremoto dell’Irpinia del 1980, che rase al suolo molti luoghi della memoria, i quali tornano a vivere in questo romanzo con un intento quasi riparatore.
Gli avvenimenti, infatti, si svolgono nel Regno delle Due Sicilie in un arco di tempo di circa nove mesi (che coincidenza!) a cavallo fra il 1820 e il 1821 sullo sfondo dei moti carbonari, tesi ad ottenere da Ferdinando I una costituzione simile a quella concessa pochi mesi prima dal re di Spagna in seguito al noto pronunciamento militare di Cadice. Ma quei fatti si riverberano sugli stati di tutta la penisola ed oltre, dalla Torino del principe di Carignano alla Milano di Confalonieri alla rivolta separatista di Palermo, nonché sull’Austria di Metternich, allarmata dal sovvertimento degli equilibri stabiliti a Vienna nel congresso di cinque anni prima. E per questa ragione è proprio l’Austria ad assumere l’iniziativa di invadere il regno borbonico e soffocare la rivoluzione, dopo appunto nove mesi, riconsegnando a Ferdinando il suo potere di monarca assoluto, nonostante il solenne giuramento sulla costituzione che egli stesso aveva concesso.
Come si vede sono presenti quasi tutti gli ingredienti, le spinte e le controspinte che si ritroveranno solo una decina di anni dopo nella Modena di Ciro Menotti e poco più avanti nelle cinque giornate di Milano e nella prima guerra d’indipendenza. Indipendenza che era già presente nella mente dei capi carbonari del ’20, nonché nella formula di iniziazione dei nuovi adepti, ma per questi ultimi assolutamente incomprensibile in una penisola frammentata in regni e ducati e divisa in due, anche geograficamente, da un ingombrante stato pontificio.
E tuttavia quelle origini sono a loro volta l’approdo di origini più lontane che nella narrazione esigono un lungo flashback che ci riporta al decennio della dominazione francese sul regno di Napoli, con Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, fratello il primo e cognato il secondo dell’ormai imperatore Napoleone, che a sua volta affondava le sue origini nella rivoluzione francese.
Proprio in questo flashback, nel 1792 da una nobile famiglia, fedele alla Chiesa e alla corona, nasce Luigino, uno dei personaggi del romanzo, e se ne descrive lo sviluppo all’ombra del padre; poi, folgorato dagli illuministi di Francia, il ragazzo pone il conflitto delle idee con il genitore al servizio dell’edipo adolescenziale, rompendo definitivamente quando decide di sposare una ragazza allevata nella cultura giacobina. Rinnegata da entrambe le famiglie, la coppia vive con pochi mezzi, ma continua ad arricchire il bagaglio ideologico giungendo alla ricerca dell’assoluta purezza rivoluzionaria. Finché, conseguenza del vaiolo, la giovane donna sarà avvolta nel buio della cecità, metafora dell’ideologia astratta e sempre più lontana dalla realtà degli avvenimenti.
Nennella è un altro dei personaggi delle piccole storie che procedono all’interno della grande Storia. Alle sue origini vi è fin dall’inizio l’assenza della madre, morta di parto mentre lei nasceva: priva di un ritratto, la cerca guardando se stessa allo specchio nei momenti difficili, fiduciosa di una qualche somiglianza del proprio volto con il suo. A nove anni perde anche il padre, caduto nella battaglia del Panaro al seguito di Gioacchino Murat. Vive e lavora nella locanda del nonno, il quale è sì premuroso, ma ancora nel 1820 non contempla che la nipote, ormai quattordicenne, si stia addentrando nella scoperta della femminilità, che esplora, senza punti di riferimento, attraverso la solitaria e casuale esperienza dell’autoerotismo. È a questo punto che la sorte la fa incontrare con Luigino, il quale, dopo dieci anni di matrimonio più con le idee politiche e filosofiche della sua sposa che con la donna, è per la prima volta eccitato proprio dall’acerba femminilità di Nennella e sperimenta un compulsivo bisogno di possederla. Anche al costo di umiliarne la dignità: rivincita inesorabile e cinica della pulsione su una sublimazione durata troppo a lungo.
Nella notte fra il 1° ed il 2 luglio mentre nella caserma di Nola il battaglione Borbone Cavalleria, diserta con alla testa i sottotenenti Morelli e Silvati, dando inizio all’insurrezione, Nennella e Luigino si uniscono dietro una siepe di mortella. Inizia così il tormentato percorso dei nove mesi della rivoluzione costituzionale e della gravidanza della giovane locandiera.
Purtroppo il tutto finirà in tragedia sia nella piccola che nella grande storia, lasciando come unica speranza per un futuro non si sa quanto lontano la nascita di un bambino al quale è imposto il nome di Vittorio Emanuele, in onore del figlio del principe di Carignano, nato l’anno prima.
Già, un giorno Vittorio Emanuele, quello piemontese, sarà il primo re d’Italia, aprendo però un altro capitolo del problema delle origini.
Molti storici, infatti, a partire da Massimo d’Azzeglio, ritengono che egli non fosse il vero figlio di Carlo Alberto, che sarebbe morto ancora in fasce per un incendio. Lo avrebbe sostituito, invece, in gran segreto il figlio neonato di un certo Tanaca, macellaio a Porta Romana in Firenze.
Insomma, un imbroglio: e, se “la natura delle cose sta nel loro nascimento”, il nascimento dell’Italia in quei tempi e in quelle guise non ci dice bene sulla sua natura.
Ma questo è un altro romanzo o un’altra storia.