Parole chiave: Psicoanalisi; Freud; Cura; Relazione; Fisica; Filosofia; Neuroscienze;
LA CURA PSICOANALITICA
In un intreccio interdisciplinare tra fisica quantistica, filosofia e neuroscienze
di Benedetto Genovesi
Prefazione di Tonia Cancrini
Postfazione di Giuseppe Civitarese
(FrancoAngeli, 2024)
Recensione a cura di Maria Giuseppina Pappa
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
[ …..]
(Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dai Canti, Giacomo Leopardi, 1831)
Il libro di Benedetto Genovesi esplora in modo ricco e articolato il vasto tema della cura psicoanalitica, in dialogo costante con altre discipline, come la fisica, la neurobiologia, la neurofisiologia, e le neuroscienze. Tonia Cancrini, nella sua prefazione, nota come nel testo venga dato ampio risalto all’importanza data alla relazione, in tutte le sue forme, oltre che nel rapporto analitico: “Anche dalla psicoanalisi sappiamo che senza oggetto non ci può essere soggetto. Ogni cosa nasce nella relazione. Il soggetto nasce dalla relazione con l’oggetto. Il mondo è fatto di interazioni e di relazioni” (p. 30). C’è un legame stretto con la natura, e tra la natura, ovvero il cielo, le stelle, la luna, il mare e i sentimenti che proviamo verso gli altri, i legami invisibili che restano negli anni e che non si recidono mai. A tal proposito nell’ Incipit l’Autore ripensa alle parole di Tonia Cancrini, quando scrive che “la luna forse conosce il senso della vita, del tempo, del nostro abitare in questo mondo e del soffrire” (Cancrini, 2002, p. 174). A partire da qui, nel corso della lettura dei vari capitoli, forse non a caso mi sono ritrovata più volte a rievocare i versi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, di Leopardi, riportati nell’esergo. Attraverso una scrittura chiara e scorrevole e un linguaggio efficace, si può cogliere spesso, come segno distintivo, una sottile disposizione poetica dell’Autore, come ben sottolinea Giuseppe Civitarese nella sua postfazione: “Genovesi offre un esempio di leggerezza calviniana, trasmettendo un senso di incanto di fronte allo spettacolo del mondo… In un certo senso, potremmo dire che Genovesi ha scritto il suo De rerum natura. La poesia ha un’importanza straordinaria per la psicoanalisi: è un altro nome del sogno, poetare è sinonimo di sognare” (p. 126).
Per quanto riguarda il ruolo centrale conferito dall’Autore alla relazione, esso si fonda su degli assunti basilari, primo fra tutti il presupposto winnicottiano che “Non esiste un bambino senza la madre”; l’ importanza fondamentale della funzione dell’intendersi (Freud, 1895); l’affermazione di Freud (1925) che “tra la vita intrauterina e la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere l’impressionante cesura dell’atto della nascita”. Genovesi parte dalle origini della relazione, dalla vita intrauterina, quando, come afferma Mauro Mancia (2004), specificamente dal terzo mese di gravidanza in poi, il feto può riconoscere la voce della madre. È la voce materna che veicola i primi messaggi strutturanti la costruenda “mente” fetale, ed è attraverso la voce materna che il bimbo impara a dialogare, impara la prima “relazione”, il primo modo con cui “essere con”. Tutti gli studi psicoanalitici e sperimentali, le acquisizioni nell’area della Infant Research e delle Neuroscienze, così come della Infant Observation messa a punto da Esther Bick (1964), nell’evidenziare come il neonato sia dotato di una certa intenzionalità, e capace di mettersi in relazione con una persona, hanno dimostrato che i contenuti di apprendimento dipendono dalla “qualità” del dialogo e dell’esperienza emotiva che si va facendo. Tra i vari riferimenti teorici in ambito psicoanalitico, nel libro sono in primo piano quelli a Bion e a Winnicott. Per quest’ultimo è l’incontro tra la mente materna e quella del bambino che genera la dinamica “illusoria” tra ciò che viene percepito e ciò che viene soggettivamente creato, e la modalità di funzionamento ludico, che favorisce la crescita del mondo psichico del soggetto attraverso processi autopoietici (Winnicott, 1971). Bion (1962), nel descrivere e approfondire la natura della funzione di rêverie e di contenimento, pone la relazione madre-bambino al centro della psicoanalisi in quanto modello di come una mente si crea per la prima volta e di come poi si sviluppa. Come sottolinea Civitarese (2023), qui più che di modello madre-bambino, dovremmo parlare di modello madre-infante, in quanto il termine “infante” designa il bambino che non è ancora in grado di capire il significato astratto delle parole. In tal modo potremmo disporre di un modello esplicativo anche in merito alla comunicazione non verbale nella psicoanalisi degli adulti. Secondo Civitarese, il modello bioniano può rischiare di essere inteso in senso troppo unidirezionale e non contemplare abbastanza la reciprocità che connota la relazione madre-infante, sia quando le cose vanno abbastanza bene, sia quando non vanno bene. Si tratta di un tipo di reciprocità che può essere ben rappresentato dall’idea della “danza”, in cui madre e bambino a un certo punto sincronizzano i movimenti e le espressioni l’uno dell’altra, creando un sistema dinamico più o meno capace di operare delle trasformazioni delle turbolenze emotive che lo pervadono, grazie alla funzione alfa e alla funzione di rêverie della madre. La dinamica della relazione madre-bambino è destinata ad accompagnare tutta l’esistenza e il modello bioniano, secondo diversi vertici, si correla ad altre nozioni, come ad esempio quella di intersoggettività primaria, descritta da Trevarthen (1993), di cui continuerà sempre a rimanere traccia profonda nelle memorie implicite. Analogamente la concettualizzazione di forme vitali, di Stern (2010) ritiene basilare la qualità della prima esperienza introiettata dell’holding materna, come sostegno all’esperienza psichica. Anche gli studi di Rizzolatti (2006) e Gallese (2013) ci prospettano un modello diadico, in cui si fondono intersoggettività e intercorporeità: una relazione in cui gli “stati mentali” del bambino e della madre, evocano reciprocamente, l’uno nell’altro e viceversa, una risposta empatica, grazie al sistema specchio neuronale. Queste così peculiari reti neurali si attivano in corrispondenza di un interscambio relazionale, rappresentando la prova dell’esistenza di una comunicazione pre-simbolica e pre-verbale, al di là della consapevolezza, tipica delle prime interazioni madre-bambino, basata su posture, espressioni, gesti, movimenti muscolari ed emozioni, che confluiscono nella dimensione dell’implicito, del non rimosso. Tali dinamiche sono del resto di facile accesso alla osservazione della ricchezza intersoggettiva del “gioco di sguardi” tra madre e neonato, descritte e approfondite in special modo da Winnicott (1971), che afferma: “[…] il precursore dello specchio è il viso della madre […] se il viso della madre non risponde, lo specchio diventa una cosa da guardare, non qualcosa in cui guardare dentro”. Genovesi riserva una particolare attenzione allo sguardo: guardare, vedere, essere visto. Questo si vede anche nei casi clinici presentati, in cui l’Autore mette in luce l’importanza dello sguardo dell’analista, che permette di elaborare la mancanza dello sguardo materno. Nel capitolo sulla psicosi e in quello successivo sul trauma, egli approfondisce le possibili ripercussioni sullo sviluppo individuale, laddove nella relazione primaria sia mancato il contatto sia corporeo, sia mentale, e ci si sia stato il rifiuto invece dell’accoglienza, l’odio invece dell’amore. In tali condizioni il mancato contenimento e riconoscimento, porta a un’angoscia di disintegrazione fortissima, con il rischio di precipitare nella psicosi. Genovesi ripone una grande attenzione nel cogliere i vari aspetti che connotano il rapporto continuo tra mondo esterno e mondo interno e la centralità del Sé corporeo nel creare rapporti affettivi, seguendo l’evoluzione del pensiero di Freud, della Klein, di Bion e di Winnicott. C’è l’idea di una stretta correlazione tra corpo, mente, sensorialità e affettività. L’Autore affronta il rapporto tra natura e cultura in una prospettiva che tiene conto di tutti i fattori. “Le relazioni possono esercitare un’azione sul cervello, andando a modificare il corredo genetico. Per cui, come detto, la cultura può modificare la natura”( p. 39), e, tenendo conto anche del contributo delle neuroscienze, afferma che la nostra natura è “bio-psico-sociale”. Le sue riflessioni, andando oltre l’ottica psicoanalitica, si estendono all’ambito della fisica quantistica, della filosofia e delle neuroscienze, in un tentativo molto ben riuscito di integrazione. La fisica quantistica prende in considerazione la relazione tra i sistemi fisici, i quali si influenzano a vicenda. Essa “non descrive dove si trova una particella, bensì descrive dove la particella si fa vedere dalle altre” (Rovelli, 2014, p. 118). Genovesi ci ricorda che “un elettrone da solo non va da nessuna parte, perché un elettrone da solo non è da nessuna parte. […]. Un elettrone è qualcosa che si manifesta solo quando interagisce con qualcos’altro, e fra un’interazione e l’altra, non ha alcuna posizione precisa, non è localizzabile, non è da nessuna parte” (p. 29). D’altro canto il verbo esistere deriva dal latino ex sistere, ovvero ricevere la possibilità d’essere da qualcuno di esterno al Sé: il senso di esistere coincide con il senso di esistere per l’altro, nella relazione con l’altro, sin dagli inizi della vita. La meccanica quantistica, oltre a sancire la “natura relazionale” della vita, cioè che ogni cosa esiste solamente se interagisce con un’altra, e che la realtà è data dalla relazione tra diversi sistemi fisici, introduce il principio di indeterminazione di Heisenberg, in base al quale tra gli elementi osservati, c’è una relazione di incertezza. Infine viene individuato come aspetto fondamentale del mondo, la “granularità”, espressa in “quanti”, quindi il fatto che c’è un numero finito di valori possibili, nella misurazione dello spazio-tempo. Nello spazio e nel tempo si dispiega il campo quantistico, in cui si verificano le interazioni dei quanti tra di loro. Queste interazioni multiple costituiscono un’entità terza. Qualcosa di analogo accade nella stanza di analisi, laddove si verificano misteriose interazioni e interrelazioni tra elementi dell’analista, dell’analizzando e del loro incontro: un incontro tra i due corpi, di analista e analizzando, dal quale si genera un terzo corpo, che è dato dalla loro interazione. “Con la metafora del campo, Merlau-Ponty concettualizza la relazione di stretta interdipendenza che s’intreccia tra soggetto e contesto, l’influenza reciproca e costante tra sé e l’altro, la continuità dinamica che si crea tra la coscienza e i parametri spazio-temporali dell’esperienza del mondo […], il determinarsi intersoggettivo dell’identità” (Ferro e Civitarese, 2015, p. 16). Il campo analitico è multidimensionale, e comprende tutti i personaggi interni e esterni di analista e analizzando, anche i nuovi personaggi, nati dall’incontro tra analista e analizzando. Tra i vari personaggi, si creano forze inconsce, che possono essere agoniste e antagoniste tra di loro. Per quanto riguarda la relazione analitica, perché si possa sviluppare un effetto terapeutico, è necessario che si avvii una dinamica relazionale di condivisione e correlazione, e che l’omeostasi e l’allostasi tendano all’equilibrio e all’armonia tra interiorità e esteriorità. Diversamente dall’omeostasi, che tende a mantenere invariate le condizioni di un sistema, l’allostasi è la proprietà di un sistema di mantenere la stabilità per mezzo del cambiamento, tenendo conto della variabilità degli stimoli esterni, quindi del rapporto tra mondo interno e mondo esterno. Siracusano ci dà la misura della intensità e della profondità (1981) del rapporto analitico, nell’affermare che lo spazio analitico è rappresentato dalla relazione tra gli oggetti. La dualità impone l’incontro privilegiato tra lo spazio dell’analista e lo spazio dell’analizzando, che dà origine a un interspazio o spazio inter-corporeo, con un rimando al “terzo analitico” di cui parla Ogden; i “processi terziari” di cui parla Green; lo “spazio transizionale” di cui parla Winnicott. “Lo spazio analitico può essere limitato e illimitato, a una o più dimensioni, si può espandere e contrarre […] è irrazionale, amatematico e ageometrico” (Siracusano, 1981, pp. 86-87). Per quanto riguarda il tempo, citando ancora Siracusano, possiamo dire che: “L’attesa sospende il tempo […]. È condizione del futuro e questo è possibile solo se atteso! L’attesa sospende il senso, in quanto contiene tutti i sensi. Nell’attesa tutto è possibile e deve essere possibile […]. L’attesa sospende lo spazio perché fa a meno delle dimensioni. Essa viene generata e si colloca in ogni luogo […] è possibile qualsiasi spostamento” (Siracusano, 1988, p. 22). Queste riflessioni così pregnanti e suggestive rendono bene l’idea di come nel campo analitico siamo entrambi immersi insieme, ed è possibile qualsiasi movimento e cambiamento. Inoltre esse ci riportano in modo evocativo alle origini della vita, a quando, già nella vita intrauterina, il feto si relaziona con l’ambiente/mondo uterino in cui è immerso e sommerso, a quando lo spazio e il tempo sono sospesi, eppure continuamente fluiscono, si trasformano e si sviluppano. Heidegger (1927) d’altro canto concepisce, sin dalla nascita, la presenza (dasein) come originaria co-presenza (mit-dasein), che costituisce un mezzo di co-costruzione di una relazione affettivamente significativa. Per quanto attiene più strettamente alla cura psicoanalitica, la cura ha come fulcro la relazione tra analista e analizzando, dove, come dice Malde Vigneri, s’instaura l’intima relazione tra due menti che consenta di pervenire al ritrovamento di ciò che non era pensabile. Da qui, il vissuto comune si costituisce come un “terzo in essere” (p. 109). Nel corso dei vari capitoli che compongono il libro, Genovesi ci propone delle immagini a valenza metaforica molto belle, che oltre ad arricchire la disponibilità associativa del lettore, contribuiscono ad ampliarne lo spazio mentale. Tra le varie immagini spicca quella della pesca con il palamito, dal latino palamyta, che va nel profondo e che arriva a vari livelli di profondità: il palamito o conzu è fatto da una lunga lenza di filo spesso, a cui sono intrecciati, a vari livelli, con intervalli più o meno regolari, altri fili di lenza di filo sottile, portanti ognuno uno o più ami. Si viene così a formare una specie di rete, per cui, quando si cala il palamito o conzu, i vari fili con gli ami, si distribuiscono in modo tale da permettere di arrivare a pescare varie tipologie di pesci. Il palamito viene calato la sera, rimane a pescare tutta la notte, per poi essere tirato il mattino seguente. È un po’ come un andare a pescare i sogni che si fanno la notte, qualcosa che rimanda alla funzione onirica, che è l’essenza della rêverie , che consente alla madre di prendersi cura del bambino. “Siracusano dice che la madre cunza il bambino. In siciliano, la voce del verbo cunzare è un termine aspecifico e al tempo stesso specifico, che indica l’atto del prendersi cura, con amore e dedizione. Amare è curare” (p. 112). La cura psicoanalitica tende a cunzare il mondo emotivo del paziente e anche quello dell’analista, così come il campo analitico, rappresentativo di una terza area, di scambi da mucosa a mucosa, da interno a interno, prima ancora di scambi pelle a pelle (Bolognini, 2019).
Concluderei dunque riportando la metafora straordinariamente efficace proposta da Paola Camassa a proposito della relazione analitica: “una raffinata placentologia. Ogni paziente, come ogni nuovo embrione, crea la sua placenta” (Camassa, 2019).
Riferimenti bibliografici
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