La Ricerca

Ipotesi Gay. Sintesi del dibattito L’’omosessualità ci interroga

22/01/09

 

Ed eccoci alla sintesi del dibattito:

V.L. (5.11.2007):“L’omosessualità ci interroga, dice Daniela Scotto di Fasano invitandoci a partecipare a questo forum. E un interrogativo, in forma di ipotesi, è anche dentro/dietro il titolo del libro che ci accompagna in questo dibattito. In che senso l’omosessualità ci interroga? Con quali domande? Ci interroga più di altre sessualità, di altri desideri? E perché?

Poiché non credo esista un “specifico” omosessuale, dico subito che fatico a cogliere la “specificità” di questa interrogazione. Non solo la “specificità”, ma anche l'”intrinseca ineludibile problematicità” omosessuale di cui parlano, fin dall’introduzione, i curatori di “Ipotesi gay”.

Ironia della sorte, mi viene in aiuto Freud (1905), in un celebre passo citato anche da Thanopulos (p. 135), quando dice di considerare la scelta d’oggetto eterosessuale un fenomeno altrettanto enigmatico di quella omosessuale, al punto che “nel senso della psicoanalisi, anche l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna é un problema che ha bisogno di essere chiarito e niente affatto una cosa ovvia”.

Tutte le sessualità possono interrogarci, indipendentemente dai loro prefissi …”

 

G.D.R. (11.11.2007): “Preciso che limitandomi a punti che sento problematici il mio intervento risulterà inevitabilmente più polemico di quanto non sia stata la mia percezione complessiva delle riflessioni e posizioni espresse da Lingiardi, peraltro già giustamente note e apprezzate. Mi riferirò innanzitutto all’incipit del suo intervento. Lingiardi denuncia una immediata perplessità sulla stessa titolazione proposta da Scotto di Fasano:perché dire L’omosessualità ci interroga, quando invece “Tutte le sessualità possono interrogarci, indipendentemente dai loro prefissi”? Intanto, senz’altro d’accordo con questa ultima annotazione, che tuttavia mi sembra più una riaffermazione di uno stato di fatto che non una ammonizione: credo che in effetti possa essere intesa come il  riscontro forse più “classico” di tutta la teoria e la pratica psicoanalitiche, come è testimoniabile dal lavoro quotidiano di ognuno di noi  Ma di più mi sembra che suggerisca Lingiardi: pericolose implicazioni e inconsapevoli retaggi possono essere contenuti nel riferimento a una presunta “specificità”, per non parlare di quello alla “intrinseca ineludibile problematicità” affermata dai due curatori nella loro introduzione al libro”. A me pare che quello che in effetti Lingiardi contesta non è come l’omosessualità ci interroga, ma come nel libro vi si risponde.”.

 

V.L. (5.11.2007): Intanto mi addentro nell’ “Ipotesi gay”, ne rileggo alcuni passi, come le conclusioni di Olga Pozzi (p. 64), che mi sembra di non capire:

«Occuparci oggi da psicoanalisti di un tema come l’omosessualità non può non esporci alla rischiosa esigenza di non confrontarci con l’interrogativo della sua normalità o patologia. Interrogativo politicamente, culturalmente, socialmente desueto, ma che forse, anche per la forza convincente di questi vettori, non ha trovato un adeguato, complessivo riscontro teoreticamente autonomo da parte della psicoanalisi».

Che cos’è un riscontro “teoreticamente autonomo”? Esiste un’autonomia teoretica? Non sarebbe quella posizione della psicoanalisi che è stata chiamata “il nostro (non troppo) splendido isolamento” (Fonagy, 2003) e che in tema di omosessualità ha fatto danni spaventosi? E poi perché dovremmo confrontarci con l’interrogativo assoluto e binario “normalità o patologia dell’omosessualità”? Non basta dire che tra le varianti infinite che può assumere il desiderio (omo o etero sessuale), alcune avvengono in strutture di personalità (e quindi in modelli di relazione) patologiche? E aggiungere che, senza togliere importanza alle dinamiche intrapsichiche, le sessualità vanno sempre contestualizzate nella cultura, nel resoconto e nella lingua – da cui non possono essere separate? E che questa operazione non è “sociologismo” o “culturalismo”, ma sensibilità psicoanalitica?

Ma siccome non sono sicuro di avere capito le conclusioni di Pozzi, su queste chiedo un chiarimento – lo riconosco, in parte condizionato dall’impressione, nella frase riportata, di un impaccio di negativi: “non può non esporci alla rischiosa esigenza di non confrontarci” (perché prenderla al contrario anziché dire, più direttamente, “ci espone alla rischiosa esigenza di confrontarci con l’interrogativo della sua normalità o patologia”?).

 

G.D.R. (11.11.2007): “Lingiardi contesta a Pozzi una certa oscurità del su riportato brano e commenta (v. V.L. da Che cos’è un riscontro… a ma sensibilità psicoanalitica, ndr).

Sono anche qui d’accordo con lui, ma con la precisazione che una “autonomia teorica” non può essere fatta coincidere ipso facto con “splendido isolamento”; e che contestualizzazione “nella cultura, nel resoconto e nella lingua” non equivale a dissolvimento in una benjaminiana lingua universale, cosa che peraltro Lingiardi stesso mi pare confermi con l’inciso “senza togliere importanza alle dinamiche intrapsichiche”. Ma allora, provando a declinare l’affermazione epistemologica generale nella sua applicazione specifica, qual è la critica che qui si muove? Quelle “riscontro teoreticamente autonomo” è sembrato, nel caso, nascondere una pretenziosa occulta aspirazione a uno isolamento (non troppo) splendido? Se invece questa pretesa di “riscontro” fosse considerata in senso assoluto non legittima, semplicemente le pratiche e le teorie che pretendono di produrla non avrebbero esse stesse più alcuna legittimità. E per democratica applicazione di un semplice, quieto criterio di par condicio curiosamente nessuna disciplina potendo aspirare a “autonomia teorica” potrebbe fare un qualsiasi passo, tutte aspettando da un Godot-direttore dell’orchestra interdisciplinare, il la per avviare il loro armonico concerto (libera associazione: ricordate il celebre esempio lacaniano dei tre prigionieri?). Per la psicoanalisi, visto che di essa ci occupiamo, questo vale a tutto campo: dal confronto più tradizionale con antropologia e sociologia a quello più “moderno” con genetica e neuroscienze. E sul modo in cui conclude Lingiardi su questa nota a Pozzi in un modo che appare una semplice proposta di semplificazione stilistica. Ma, si parva licet: sarebbe la stessa cosa se Benedetto Croce, anziché “Perché non possiamo non dirci cristiani”, avesse economizzato in “Perché dobbiamo dirci cristiani”? Mi pare evidente la differenza tra le due formulazioni che nessun oltranzista riduzionismo denotativo potrebbe azzerare: la doppia negazione indica la presenza di due istanze contrapposte, con il prevalere di quella proponente-espressiva sulla opponente-resistenziale. E, a proposito di negazioni: “non esiste l’omo, non esiste l’etero, esiste la sessualità”. Abbiamo in più riportato questa formula, il che basta a indicarne la felicità espressiva. Ma sarebbe ingenuo, scorretto e infine temo controproducente  pretendere di prenderla alla lettera. Essendo formulata in termini popperianamente falsificabili, essa verrebbe appunto immediamente falsificata, giacché esistono invece a tutt’oggi omo e eterosessuali per i quali la sessualità viene desiderata e possibilmente praticata  nelle proprie specifiche e non scambiabili modalità attuative. Non escludo che in un tempo futuro, anche per la sempre maggiore autonomia della generatività dall’accoppiamento,  possano prodursi più generali fenomeni di affrancamento, verificando così la piena validità dell’assunto di Morghentaler, peraltro rintracciabile già in non pochi passaggi della vituperata “teoria pulsionale” del vecchio Freud. Ma, allo stato, questa è ancora fantascienza. Pretenderne oggi un’applicazione rigida sarebbe come dire: “non esiste il mancino, non esiste il destrimane, esistono solo le mani” E magari con l’implicito corollario: “e siamo tutti ambidestri” (traduzione libera del pass-partout della inflazionata bisessualità originaria)”.

 

D.S.d.F. (17.11.2007): “A Lingiardi e De Renzis che mi chiedono, rispettivamente: “perché dire L’omosessualità ci interroga, quando invece “Tutte le sessualità possono interrogarci, indipendentemente dai loro prefissi”?” (V.L.), “Intanto, senz’altro d’accordo con questa ultima annotazione, che tuttavia mi sembra più una riaffermazione di uno stato di fatto che non una ammonizione: credo che in effetti possa essere intesa come il  riscontro forse più “classico” di tutta la teoria e la pratica psicoanalitiche, come è testimoniabile dal lavoro quotidiano di ognuno di noi” (G.D.R.), rispondo: Perché secondo me abbiamo finora liquidato l’omosessualità come qualcosa di cui “sapevamo tutto” (è una perversione, è l’altro edipo, ecc), trattando l’omosessualità come quella cosa lì, cioè un tema ipersaturato di significati. Proprio per questo, e proprio in questi termini, quelli ipersaturati, quella (lettura della) omosessualità ci interroga”.

 

O.P. (18.11.2007): “Il nuovo intervento di Scotto di Fasano mi sembra una buona opportunità di rilancio e così mi sento facilitata a fornire qualche risposta alle domande dirette che mi sono state rivolte da Lingiardi, superando un certa preoccupazione per una curvatura troppo personalizzata tra “accusa” e “difesa” . Mi limiterò quindi per ora alle questioni su cui sono stata più direttamente interpellata. Su tanti altri aspetti su cui mi piacerebbe discutere mi riprometto di ritornare eventualmente più in là, anche raccogliendo quelle ulteriori indicazioni che, come mi auguro, potranno arricchire questa occasione di incontro e di confronto.

Nel suo ampio e articolato testo, Lingiardi rivolge un’attenzione al mio contributo per il quale devo innanzitutto ringraziarlo, in particolare per le annotazioni critiche che impongono sempre utili momenti di ulteriore riflessione. Lingiardi inizia proprio dalle mie conclusioni, il che, in un certo senso, consente di estendere un riferimento testualmente delimitato a un’applicazione più complessiva all’intero impianto da me proposto.  La sua critica infatti, muovendo da interrogativi ovviamente “retorici”, tocca subito questioni tanto generali da eccedere non solo i limiti tematici del nostro libro, ma anche quelli della stessa psicoanalisi, affrontando, d’emblée, le più fondamentali questioni epistemologiche. Eccola qui riportata: Che cos’è un riscontro “teoreticamente autonomo”? Esiste un’autonomia teoretica? Non sarebbe quella posizione della psicoanalisi che è stata chiamata “il nostro (non troppo) splendido isolamento” (Fonagy, 2003) e che in tema di omosessualità ha fatto danni spaventosi? E poi perché dovremmo confrontarci con l’interrogativo assoluto e binario “normalità o patologia dell’omosessualità”? Non basta dire che tra le varianti infinite che può assumere il desiderio (omo o etero sessuale), alcune avvengono in strutture di personalità (e quindi in modelli di relazione) patologiche? E aggiungere che, senza togliere importanza alle dinamiche intrapsichiche, le sessualità vanno sempre contestualizzate nella cultura, nel resoconto e nella lingua – da cui non possono essere separate? E che questa operazione non è “sociologismo” o “culturalismo”, ma sensibilità psicoanalitica? La critica è netta, anche se con un certo beneficio di dubbio, dovuto, almeno in parte, a quello che gli appare come “un impaccio di negativi”. Così infatti commenta Lingiardi: Ma siccome non sono sicuro di avere capito le conclusioni di Pozzi, su queste chiedo un chiarimento – lo riconosco, in parte condizionato dall’impressione, nella frase riportata, di un impaccio di negativi: “non può non esporci alla rischiosa esigenza di non confrontarci” (perché prenderla al contrario anziché dire, più direttamente, “ci espone alla rischiosa esigenza di confrontarci con l’interrogativo della sua normalità o patologia”?).

Come ho anticipato, le questioni poste sono rilevanti e impegnative. Perciò trovo utile affrontare subito quella magari meno significativa, ma almeno facilmente risolvibile: voglio dire il riferimento a quell’ “impaccio di negativi” che, nel rileggermi nella citazione sopra riportata, mi aveva lasciata nella sconfortante condivisione di  “non aver capito le conclusioni di Pozzi”. Ho dovuto riprendere il testo stampato per ritrovare almeno una sensatezza semantica, qualità necessaria per consentire comprensione testuale, anche se ovviamente non sufficiente a garantire chiarezza espositiva, apprezzamento stilistico; e tanto meno condivisione contenutistica. Ecco dunque qui riportato, nella esatta formulazione originaria, emendato da un terzo ingombrante “non” di troppo, il brano commentato da Lingiardi (sottolineatura del curatore, ndr): «Occuparci oggi da psicoanalisti di un tema come l’omosessualità non può non esporci alla rischiosa esigenza di confrontarci con l’interrogativo della sua normalità o patologia. Interrogativo politicamente, culturalmente, socialmente desueto, ma che forse, anche per la forza convincente di questi vettori, non ha trovato un adeguato, complessivo riscontro teoreticamente autonomo da parte della psicoanalisi».”.

 

D.S.d.F.: (agosto 2008): Mi pare importante sottolineare qui come sia facile cadere vittime di fraintendimenti quando assetti mentali di natura ‘ideologica’ rischiano di rendere più faticoso l’esame di realtà.

 

D’altra parte, credo che renderci conto di tali evenienze (possibilità offerta dall’autenticità con cui i partecipanti al dibattito vi hanno preso parte) ci illumina sulla necessità di potenziare le occasioni di dialogo e confronto oltre steccati disciplinari e verticim ‘ideologici’, soprattutto su temi, quale ad esempio quello dell’omosessualità, poco praticati e spesso vissuti come inquietanti e spinosi. Proprio in merito a tale questione, e ai silenzi, alle omertà, alle censure, ai dinieghi e alle mistificazioni cui essa può dar luogo, rinvio alla preziosa ricerca effettuata da Paola Capozzi, Monica Luci e Vittorio Lingiardi sulla situazione della psicoanalisi oggi in Italia in tema di omosessualità, ricerca condotta su un campione di psicoanalisti appartenenti a diverse società (SPI, APSI, AIPA, CIPA, ISIPSE) i cui esiti sono stati pubblicati in Lingiardi, Capozzi 2004, in Capozzi, Lingiardi, Luci 2004 e in Lingiardi, Luci, 2006. Rinvio inoltre anche alla dotta e articolata disamina che sulla letteratura psicoanalitica in merito all’omosessualità ha condotto Lingiardi con Luci M. (2006).

 

Ma torniamo alla prosecuzione del dibattito e ripartiamo dalla relazione di Lingiardi, che così prosegue:

 

V.L. (5.11.2007): L’idea dell’autonomia teoretica temo implichi la scelta di parlare di omosessualità dal punto di vista “dei fattori psichici che ne favoriscono l’affermazione” senza considerare i fattori costituzionali e sociali implicati (vedi anche Thanopulos, p. 137). Trovo questa scelta pericolosa sul piano sia scientifico sia clinico. Sul piano scientifico, perché esclude pregiudizialmente il concorso di forze diverse nella determinazione di un fenomeno (e mi sembra che la psicoanalisi, in termini di credibilità, abbia pagato caro questo atteggiamento: cito, per tutti gli altri casi, la (s)fortuna psicoanalitica del concetto di autismo). Sul piano clinico, perché esclude pregiudizialmente il ruolo delle componenti costituzionali nella formazione dell’orientamento sessuale, e delle componenti ambientali (minority stress, omofobia sociale e interiorizzata) nella definizione di sé come persona omosessuale. Questo commento nasce dal fatto che non credo ai saperi autoreferenziali e che anzi sono favorevole a saperi interdisciplinari, ipotesi multifattoriali, validazioni extra-analitiche, ecc. Per la psicoanalisi, l’omosessualità è una spina nel fianco; […] Leggendo “Ipotesi gay” l’impressione è quella di sfogliare una cipolla, le cui foglie più esterne sono quelle della correttezza politica e le più interne quelle dell’indagine psicoanalitica costruita a partire da un modello esplicativo/eteronormativo.

L’idea espressa da Thanopulos (p. 99) di un «inquadramento dell’omosessualità come tentativo di riparazione di un danno psichico e non come manifestazione regressiva più o meno patologica» mi disorienta. Sottrae l’omosessualità alla psicopatologia, ma per coglierne la funzione riparativa di un danno psichico. Qualcosa è andato storto. Di solito, se c’è riparazione, c’è stata rottura.

Sono più portato a pensare che la maggiore o minore primitività delle difese, per esempio, dipenda da come si è strutturata la personalità (così abbiamo omo/bi/eterosessuali psicotici, borderline, nevrotici) in modo indipendente dall’orientamento sessuale. (2)

 

Risponde G.D.R. (11.11.207): “A Thanopolos Lingiardi muove serrate critiche. Anche qui non entro nel merito specifico. […] ma non condivido un eventuale valore di principio: ogni teoria, anche nei campi detti “idiografici”, deve tendere a qualcosa di “generalizzabile e verificabile”. Di nuovo: se si dà il caso che alcune persone sono omosessuali e altre eterosessuali, ciò deve avere una qualche spiegazione, per quanto non univoca e onnicomprensiva (che non significa necessariamente surrettizio stigma di patologia; come se fosse disdicevole capire la differenza del colore degli occhi). Perfino della banalità di un luogo comune come “gli uomini preferiscono le bionde” si è ritenuto di dover proprre una “spiegazione scientifica”. Indipendentemente dal valore nelle singole fattispecie, perché sarebbe scorretto indagare su  differenze che esistono, una volta resi avvertiti del rischio di far passare clandestini pregiudizi discriminatori sotto il velo pudico della ricerca scientifica? Giusto per non sembrare monocorde: curiosamente mi sono trovato recentemente a replicare a una critica in qualche modo opposta mossa da un filosofo di area epistemologica che imputava a Ipotesi gay la carenza di ipotesi appunto sufficientemente forti, con il rischio, a suo dire, di restare imbrigliati in confusivi traffici narratologici. Evidenziavo in quella circostanza quella che mi sembrava una pretesa erronea: che ci fosse sempre stretta coincidenza o almeno uguale correlazione tra il “nome” e la “cosa”; che bastasse l’esistenza del termine “omosessualità” per riferirsi a  una sorta di “sostanza” a esso corrispondente. Pretesa discutibile fin da semplici considerazioni grammaticali, come quando – è il caso di “omosessualità” come anche di “psicoanalisi” nella lingua italiana – i nomi in questione sono, come si dice, difettivi nel numero: nominando il plurale allo stesso modo del singolare rischiano di sequestrare le esuberanze del primo nella clausura del secondo.

Così sono ovviamente d’accordo sull’assurdità di tentare una “normalizzazione” eterosessuale. Ma questo dovrebbe essere una declinazione di un più generale corretto atteggiamento analitico. […]

Complessivamente, mi sembra che le critiche di Lingiardi si muovano su due piani certamente complementari ma che non sempre mi appaiono sufficientemente distinti: quello, più esplicito, di una contestazione nel “merito” di singole specifiche asserzioni, ipotesi e teorizzazioni; e quello, meno dichiarato ma secondo me spesso evidenziabile, di una critica di “metodo” alla plausibilità stessa di certi tentativi di generalizzazione teorica. Come ho detto, questa seconda posizione mi sembra giustificabile tatticamente, come opportunità politica se si vuole;  ma non altrimenti (non è neppure necessario specificare: “scientificamente”). E comunque anche questa cautela presenta i suoi rischi complementarri, fino a esitare in imprevisti e controproducenti denken verboten.

Concludo riportando quello che mi sembra essere il giudizio più sintetico e esplicativo della lettura di Lingiardi di Ipotesi gay:

“Leggendo “Ipotesi gay” l’impressione è insomma quella di sfogliare una cipolla, le cui foglie più esterne sono quelle della correttezza politica e le più interne quelle dell’indagine psicoanalitica costruita a partire da un modello esplicativo/eteronormativo”.

Sarà per inevitabile implicazione personale, ma mi sembra un giudizo che si spinge a lambire un confine scabroso: quello tra critica del testo e critica dell’autore (o delle idee e delle intenzioni).”

 

Sulle critiche mossegli, S.T. (11.11.2007) risponde: “Premetto che l’intervento mi è piaciuto, l’ho trovato stimolante e interessante, e sulle questioni di fondo condivisibile. Ma soprattutto ho apprezzato le sue critiche chiare e circostanziate, che hanno il merito, per me rilevante, di toccare i punti del mio contributo di maggiore problematicità. In questo modo si può effettivamente discutere. […] nei pazienti omosessuali che fronteggiano un autoerotismo interno si riscontra, nondimeno, una grande intensità affettiva ed emotiva che fa evidente contrasto con quanto accade con pazienti eterosessuali che evidenziano una configurazione autoerotica altrettanto spiccata. Questi ultimi, non c’è nulla da dire, sono notevolmente più aridi. […] C’è qualcosa nell’omosessualità che ripara le tendenze autoerotiche (autistiche), anche se non sempre riesce ad arginarle compiutamente. L’eterosessualità non può svolgere questa funzione. Il mio punto di partenza è questo.  […] Penso che la comprensione della funzione riparatrice dell’omosessualità può essere più facilmente raggiunta attraverso un collegamento con il lavoro di riparazione che svolge nel campo delle relazioni eterosessuali. Nelle relazioni eterosessuali c’è sempre una componente omosessuale (dominante nell’adolescenza) che rende possibili le identificazioni crociate tra i due sessi. Ma procediamo con ordine. All’inizio della vita non esiste, nonostante una predisposizione di cui sempre dobbiamo tener conto, la distinzione tra maschio o femmina, tra omosessuale e eterosessuale (nel senso di identità soggettiva sessuale e di genere già definita). La differenza dei sessi e delle inclinazioni sessuali è preceduta dal senso dell’alterità, che struttura il campo delle relazioni di desiderio secondo le regole dell’omofilia (amare nell’altro ciò che si ha o si desidera, o perfino si illude, di avere in comune con lui) dell’eterofilia (essere attratti dalla differenza), con la prima che precede, da un punto di vista evolutivo, la seconda. Nell’incontro erotico con la madre (superata la fase autoerotica) ciò che può ferire mortalmente il soggetto desiderante in via di sviluppo è la differenza di lei che non riconosce la differenza del figlio. Ciò crea le premesse di un autoerotismo patologico dissociato dalla sessualità “oggettuale” (con la quale un autoerotismo fisiologico è sempre strettamente intrecciato) egualmente presente in omosessuali ed eterosessuali. In una fase dello sviluppo in cui la madre passionale (e per diversi aspetti relativamente “folle”) degli inizi sconfina nel campo della soggettività del figlio(a) l’investimento omofilico di lei è la protezione più importante dalla sua minacciosa diversità e, al tempo stesso, prepara e rende possibile il terreno di un suo investimento eterofilico successivo. In questo senso vedo l’omofilia come cerniera permanente  tra il non riconoscimento e il riconoscimento dell’altro (che hanno una base profondamente erotica) nello psichismo di tutti noi. Di questa omofilia è erede l’omosessualità quando si differenziano ruoli e scelte sessuali. Nulla del mio discorso può essere chiaro se non si parte dalla premessa che l’omosessualità è una parte importante del mondo interno di tutti e non si riduce alla scelta di un individuo dello stesso sesso come partner della relazione erotica. Essa ha l’insostituibile funzione di collante tra la componente autoerotica e la componente eterosessuale della sessualità (che ha un’importante funzione interna anche negli omosessuali), che ci ripara dagli effetti più traumatici dell’incontro con l’altro sesso (che rappresenta il punto più distante dell’alterità sessuale). Nel mondo interno degli omosessuali come degli  eterosessuali c’è una  combinazione di omosessualità e eterosessualità (nella nostra vita interiore non ci sono “muri di Berlino” tra  omosessualità e eterosessualità) e più passa il tempo più mi sembra difficile che l’espressione di una scelta sessuale sia il risultato di una prevalenza di una componente o di un’altra. Più probabilmente si sceglie di “realizzare” la parte che offre il miglior approccio alla relazione erotica con l’altro (sulla base di complessi, e solo in parte decifrabili, fatttori psichici, biologici e socioculturali, che coinvolgono sempre, non dimentichiamolo  rapporti di potere). Una cosa andrebbe sottolineata: sia la scelta omosessuale che la scelta eterosessuale  possono essere egualmente infiltrate da un autoerotismo dissociato dalla relazione oggettuale se non  funziona adeguatamente l’omosessualità  interna (che rappresenta un’importante fattore di coesione narcisistica della soggettività volta verso il riconoscimento dell’altro).”.

 

Prosegue V.L. (5.11.2007): “Quella del rapporto tra psicoanalisi e omosessualità è una storia complessa e dolorosa, che mostra come sia difficile separare la teorizzazione scientifica dal contesto culturale e politico. […] Solo dalla metà degli anni 1990 prende consistenza e riceve considerazione una letteratura psicoanalitica sull’omosessualità non gravata dal pregiudizio. Per la prima volta, analisti e studiosi omosessuali escono dalla clandestinità e prendono la parola. […] Così mi trovo a condividere quasi tutti i singoli punti dell’elenco che Thanopulos fa delle “concezioni di Freud” che “rimangono a distanza di novant’anni insuperate”, ma non la sua conclusione per cui «essi costituiscono la partenza per ogni teoria psicoanalitica sull’omosessualità» (p. 136). Non saprei infatti definire che cosa sia una “teoria psicoanalitica sull’omosessualità”. Se, infatti, come scrive Thanopulos, «esistono molte omosessualità e molte eterosessualità» (ibidem) e «lo sviluppo è determinato da una serie non dominabile di fattori, in parte di natura costituzionale e in parte di natura accidentale» (ibidem) … come possiamo costruire una “teoria” (cioè qualcosa di generalizzabile e verificabile) che sia dotata di valore scientifico? Per esempio, quali prove empiriche Thanopulos potrebbe portarci a dimostrazione della sua teoria dell’omosessualità come “argine alle pressioni autoerotiche”? Non si corre il rischio di finire in trappole eziologiche o di imbattersi in profezie psicopatogenetiche? Lo dico pensando a un’altra frase di Thanopulos che mi ha disorientato (anche per la spregiudicatezza diagnostica): «Se al posto dell’omosessualità si fosse sviluppata una malattia psicosomatica, è probabile che essa sarebbe stata una psoriasi» (p. 109). Perchè continuare a parlare dell’omosessualità come di una condizione, di un’area, di un risultato (Thanopulos, p. 119), di una mediazione tra eterosessualità e sessualità autoerotica (p. 121), di una «cura di una forte tendenza autoerotica che sarebbe, altrimenti, la fonte di insidiose derive autistiche, anoressiche, psicosomatiche» (p.125)? Perché inseguire queste catalogazioni, la minuziosa ricostruzione eziopatogenetica di qualcosa che catalogabile non è? Perché, premettere che non si «mira alla formulazione di una teoria esplicativa sull’omosessualità» (p. 99), per poi di fatto proporla? («si potrebbe dire che in generale l’omosessualità funzioni …», p. 121; «l’omosessualità è in un certo senso la cura di una forte tendenza autoerotica …», p. 125).

Perché, come ho accennato all’inizio, privare la propria ipotesi teorico-clinica del ruolo fondamentale giocato da quelli che Thanopulos stesso (p. 137) definisce «i complessi fattori costituzionali e sociali che intervengono nella sua determinazione»? Perché non si può «immaginare l’omosessualità come spinta pulsionale specifica proveniente dal corpo» (ibidem)?

Il rischio è quello di proporre, ancora, associazioni e soluzioni interpretative sconcertanti come quella che Pozzi  (p. 64) propone tra edipo-omosessualità-violenza (p. 64): «… un’altra problematica abbastanza frequente riscontrabile in area omosessuale, la violenza…» (p. 64). E far diventare un frammento di sogno «un frammento di sogno di un omosessuale trentenne … a sostegno di quanto appena detto …» (p. 65): cioè  se un persona omosessuale fa un sogno con immagini di violenza questo conferma che c’è un particolare legame tra omosessualtà e violenza?

E così per la “problematica edipica”, che, dice ancora Pozzi, «in tutti i suoi versanti e con tutte le sue implicazioni, sia questione centrale nell’omosessualità, è del resto ampiamente scontato» (p. 64).

Di qualcosa di cui sappiamo così poco è difficile dare qualcosa per (ampiamente) scontato … Soprattutto mi domando se la problematica edipica non sia centrale anche nell’eterosessualità. Immagino di sì. Dunque in cosa consiste la sua centralità nell’omosessualità?”

 

Risponde O.P. (18.11.2007): Bene. Se dovessi limitarmi a rispondere stringatamente alla domanda diretta, mi limiterei a dire: non so se ci sia una specificità edipica dell’omosessualità; personalmente non credo che ci sia, per quanto constato dall’esperienza clinica e per quanto posso ricavare dai miei riferimenti teorici. […]io mi sono molto chiaramente e molto semplicemente limitata a dichiarare di aver riscontrato nella mia esperienza clinica (e in buona parte della letteratura) una centralità della  “problematica edipica”, […]Dunque non si tratta di indicare o suggerire “diversità”, ma di evidenziare la presenza di caratteristiche che si esprimono «in tutti i suoi versanti e con tutte le sue implicazioni». […]Si può contestare la generalizzazione del dato, ma non la sua assimilazione a una specificità espressamente negata. […]Uguali considerazioni valgono per il rifermento alla violenza. […]Perché dunque Lingiardi mi fa queste domande? Perché nella sua impostazione critica, come mi sembra di notare, c’è un’inclinazione a una certa esagerazione: come quando, per esempio, traduce autonomia in splendido isolamento o indicazione di una centralità in pretesa di specificità (e, se mi posso permettere, quando esagera aggiungendo un “non” almeno complicatore dei miei impacci stilistici)?  Vorrei, con la stessa schiettezza con cui Lingiardi ha commentato questi passaggi – e più in generale il libro nel suo insieme –  esplicitare una sensazione: che anche nella sua lettura possa essersi insinuata qualche nuance di pregiudizio, in quache modo complementare a quelle che egli ha sentito di continuare a riconoscere sfogliando la cipolla di Ipotesi gay.

 

Nel frattempo giunge il contributo di Massimo Recalcati, di seguito sintetizzato:

M.R. (17.11.2007): Raduno nella forma sintetica di tre prime note di lettura, gli effetti suscitatemi dalla lettura di Ipotesi Gay. 1.La distinzione tra la questione  omosessuale e la categoria psicoanalitica di perversione. La prospettiva freudiana rispetto a questo punto restava decisamente problematica. Per un verso Freud, sganciava risolutamente la sessualità umana e la sua scelta d’oggetto da ogni  sapere precostituito e normativo, compreso quello biologico dell’istinto. E’ la grande tesi dei Tre saggi Per un altro verso Freud mostra di includere il problema dell’omosessualità nel quadro delle cosiddette aberrazioni sessuali. Non è casuale, in effetti, che la scelta di oggetto di tipo omosessuale venga affrontata, sempre nei Tre saggi nel capitolo 1 dedicato alla “Aberrazioni sessuali”. Ipotesi Gay, nel suo insieme, tende a disgiungere risolutamente omosessualità e perversione. Propongo di riassumere questo passaggio cruciale in questi termini: la categoria clinica di perversione non può più essere considerata a partire dalle pratiche sessuali ma a partire dalla posizione che il soggetto occupa nei confronti della castrazione. Nel Seminario X dedicato al tema dell’angoscia, Lacan emancipa totalmente il problema clinico della perversione da quello delle aberrazioni sessuali, sostenendo che ciò che definisce clinicamente una struttura perversa è la strategia soggettiva finalizzata a gettare l’Altro nell’angoscia. Questa definizione di perversione – strategia soggettiva che aggira la castrazione rigettando sull’Altro i suoi effetti di divisione e di angoscia – può declinarsi sia per la scelta omo che per quella etero.

2. La distinzione tra omosessualità e autoerotismo. L’intervento di Thanopulos propone di distinguere l’omosessualità dall’autoerotismo. Anche questo mi pare un contributo rilevante del libro perchè consente di problematizzare un altro luogo comune della clinica psicoanalitica, ovvero quello che schiaccia meccanicisticamente la scelta d’oggetto omosessuale sul piano narcisistico-speculare e sul suo fondamento autoerotico. Quando Thanopulos insiste nel differenziare i piani, dunque nel discriminare omosessualità e autoerotismo offre una ulteriore argomentazione per differenziare perversione e omosessualità. L’autoerotismo di cui parla Thanopulos è a mio giudizio una espressione del Todestrieb. Il consumo contemporaneo della sessualità non ha nulla  a che fare con Eros. Come De Renzis e altri ricordano quelle nicchie di godimento mortifero che consentono gli incontri anonimi e silenziosi tra omosessuali sono esattamente una manifestazione del godimento dissipativo che impregna la pulsione di morte. Ma questo intacca anche il mondo degli eterosessuali. Esiste, insomma, una sessualità legata ad Eros ed una sessualità legata a Thanatos. La distinzione tra autoerotismo e omosessualità differenzia non tanto in modo essenzialistico due generi di orientamento sessuale, ma due diversi modi di godimento che attraversano potenzialmente la differenza degli orientamenti sessuali. Anche su questo punto mi permetto di evocare un aspetto che giudico prezioso dell’insegnamento di Lacan, quando suggerisce il passaggio da una teoria della sessualità al singolare (e dai suoi inevitabili equivoci essenzialistici) ad una teoria dei diversi modi della sessuazione (Seminario XX) . Col termine sessuazione egli intende il modo soggettivo con il quale ciascun soggetto riprende le determinazioni anatomiche del proprio corpo. Lacan distingue in particolare due modi fondamentali della sessuazione. Una è vincolata al primato del fallo e al suo modo di godimento inevitabilmente autocentrato. In essa predomina l’accumulazione contabile del godimento e la sua localizzazione nell’organo. L’altra invece trova nel godimento femminile il suo paradigma, in quanto godimento non localizzato, irriducibile all’avere fallico, infinito, eccentrico ad ogni criterio di misurazione. Ma questa distinzione dei modi della sessuazione non ricalca la distinzione tra i generi. Nel senso che la sessuazione femminile non esclude affatto l’uomo e viceversa, quella fallica, non eslcude affatto la donna. Per questa ragione mi pare convincente la tesi di Lacan che l’autentico eteros ama sempre la donna, ovvero è sospinto verso una formula della sessuazione più al femminile, dunque meno ingombrata dall’avere fallico. 3. La distinzione tra Gay e omosessualità classica. Un tema sul quale forse avrebbe senso prolungare la discussione concerne una differenza posta dal libro esplicitamente anche se non definita teoricamente. Alludo alla differenza tra Gay e Omosessuali. Nella mia esperienza clinica ho incontrato omosessuali che vivevano la loro condizione con senso di colpa e vergogna. Il loro miraggio era una vita da eterosessuali. La loro sofferenza maggiore era suscitata dal contrasto tra la spinta pulsionale verso soggetti dello stesso sesso e l’ideale conformista di adattamento e assimilazione alle buone norme sociali. Diversamente pazienti più giovani si presentano senza senso di colpa e rivendicando con fierezza il loro essere Gay. Per i primi il problema è la conciliazione tra il campo narcisistico di un’identità sociale adattata e il campo pulsionale, per i secondi, poiché il campo pulsionale non genera come tale alcuna divisione, consiste piuttosto di come creare legami d’amore stabili e non contaminati eccessivamente dalla tendenza compulsiva della pulsione. Su questa distinzione forse sarebbe necessario aggiungere qualcosa poiché ogni riflessione sul mentale, come ci ha insegnato Freud, non può essere scorporata dal sociale.  Per esempio: quale declinazione inedita acquista nell’epoca della globalizzazione accellerata, o, se si preferisce, dell’affermazione incontrastata del discorso del capitalista, la dimensione etica del razzismo? Non occorre forse porsi questo interrogativo preliminare e radicalissimo per cogliere oggi la questione gay? E’ la definizione di razzismo che viene articolata da Lacan in Television : “odio per il godimento dell’Altro” (Extimité, lezione del 27 novembre 1985).

La logica del razzismo moderno tocca il registro dell’uniformità alla norma come condizione per la definizione del non-omogeneo, del non assimilato, del diverso come straniero e perturbatore. In questo senso il razzismo moderno colloca l’omosessualità sullo stesso lato della follia, ovvero della deviazione dalla norma della ragione. “Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini” (M.Hardt e T.Negri, Impero). Questo significa che la potenza dell’integrazione propria dell’Impero realizza una assimilazione senza precedenti. Assimilazione che è a sua volta una concessione di diritti al godimento La tolleranza dell’Impero è la tolleranza dell’ideologia del mercato mondiale, La circolazione, la mobilità, la diversità e le mescolanze sono le sue condizioni di possibilità. Il commercio chiama a raccolta le differenze, e più ce ne sono, meglio è.” L’affermazione dell’Impero, di cui il discorso del capitalista di Lacan fornisce ante litteram l’impianto strutturale, tollera e permette forme e modi di godimento i più diversi. E la psicoanalisi ha contribuito indubitabilmente a generare questo clima di tolleranza nei confronti delle diversità. Tuttavia, oggi  la nozione di diversità diventa una marca di mercato: a ciascuno il suo godimento secondo la sua diversità. oggi  la nozione di diversità diventa una marca di mercato: a ciascuno il suo godimento secondo la sua diversità: “[…] una per i gay latinos tra i 18 e 22 anni, un’altra per le teenager cino-americane, e così via”. Siamo come si vede agli antipodi del razzismo moderno, al quale la clinica classica dell’omosessualità ancora si riferisce. La clinica “classica” dell’omosessualità è una clinica che resta dunque nell’orizzonte di una nozione disciplinare, preimperiale, del godimento. Il dramma della Legge e della sua trasgressione, la tentazione e la sua interdizione, la colpa e la condizione clandestina del desiderio e del godimento, l’interrogazione angosciata sullo statuto delle proprie identificazioni inconsce, definiscono la clinica dell’omosessualità come una clinica della mancanza e del desiderio. Assumere o non assumere la verità del proprio desiderio?

La clinica dei Gay non sembra invece rispondere più a questo interrogativo che lascia piuttosto alle sue spalle. In questione non è più la divisione del soggetto in rapporto al suo orientamento sessuale. “Perché non posso anch’io avere una moglie, dei figli, un cane come tutti gli altri?”, dichiarava un omosessuale in analisi che viveva la sua attrazione verso gli uomini come colpevole e la indirizzava all’analista come un vero e proprio sintomo. Al posto di questa divisione i gay “accettano pienamente la propria sessualità”. “Nessuno è venuto da me specificatamente per cercare aiuto nel cambiare il suo orientamento sessuale” dichiara un analista gay in un recente lavoro (Richard A. Isay, Essere omosessuali, Cortina, Milano 1996, pag.7)”. Il modo di godimento gay non fa sintomo per il soggetto. Piuttosto si tratta di interrogare il nuovo statuto che assume l’eventuale domanda d’analisi di un soggetto gay. Se infatti la domanda non è più sostenuta dal senso di colpa, su cosa si sostiene? Si tratta semplicemente di una domanda di integrazione, di assimilazione, di normalizzazione o, piuttosto, si può reperire al di là delle pratiche del godimento sessuale (che non fanno più problema al soggetto), un’interrogazione sul proprio essere rispetto alla quale allora, come si è detto, la stessa categoria di perversione non apparirebbe più sufficiente a fornirne la logica.

 

Risponde G.D.R. (30.11.2007):

Con un certo  imbarazzo provo a intervenire di nuovo. Non so se riuscirò, come mi auguro, a indurre finalmente qualche  rilancio da parte dei “partecipanti-osservatori”; o se invece non contribuirò, come temo, a consolidare la pratica di tenace “silenzio analitico” finora rispettata.

E’ possibile che i precedenti interventi di noi diretti interessati abbiano avuto una buona dose di responsabilità nel non aver saputo proporre una giusta chiave e una adeguata misura per un vero e proprio avvio di discussione comune: risposte troppo lunghe e troppo circostanziate, più reattive che interattive, tese più a rispondere che a dialogare, più a ribadire il già detto che a tentare nuove prospettive.

Innanzitutto, un riferimento comune in Lingiardi e in Recalcati, voglio dire quello alla dimensione storica, sociale, culturale e in senso lato anche politica, che necessariamente deve essere tenuta presente nella teoria e nella pratica psicoanalitiche, in particolar modo per un tema come quello dell’omosessualità. perciò mi sembra interessante la proposta di Recalcati di mettere meglio in evidenza i differenti significati che, tradotti anche nelle corrispondenti forme di autorappresentazione,  possono essere attribuiti ai termini di “omosessuale” e “gay”; e perciò ancora mi sembra importante ribadire che in Ipotesi gay si parte da singoli casi clinici, scelti senza selezione preferenziale e perciò sia “moderni” che “postmoderni”. In alcuni pazienti sono dunque presenti tratti, più o meno marcati, più o meno soggettivamente criticati,  di “omofobia”, che rappresentano un eloquente, specifico  esempio di embricazione socio-psicologica e che chiedono particolare attenzione all’analista. Vorrei ancora proporre un supplemento di riflessione alle indicazioni di Recalcati: siamo sicuri che “l’impero” comporti davvero sconfinamento, nel senso di indifferente assimilazione di ogni differenza? O questa non significa digestione onnivora, appunto tendenzialmente indifferenziante rispetto alle provenienze e fortemente omologante rispetto ai risultati?  E perciò, di nuovo (anche se in altre,  più subdole, ma forse perfino più efficaci forme espressive) radicale intolleranza per tutto ciò che è in-fine indisponibile all’omologazione?

Un ultimissimo richiamo infine  ai rapporti tra pulsione e oggetto nei “Tre saggi”, giustamente ripresi, sempre da Recalcati, come fondamento teorico per una concettualizzazione non essenzialista della sessualità. Anche nella mia prefazione ho fatto lo stesso riferimento. Ma in un’occasione di confronto con il filosofo Arnold I. Davidson, che sosteneva una interpretazione “oltranzista” di questo stesso tema, mi sono trovato a dover ripensare sull’argomento, perché un’assoluta irrelatezza, una generalizzata indifferente equivalenza originaria comporterebbero, a mio avviso, conseguenze paradossali e insostenibili. Mi chiedo solo se una  “strategia soggettiva che aggira la castrazione rigettando sull’Altro i suoi effetti di divisione e di angoscia”, pur potendo ovviamente “declinarsi sia per la scelta omo che per quella etero”, non si ritrovi attratta e facilitata da certe specifiche modalità espressive (omo o etero che siano).

 

Ritornando al contributo iniziale di V.L., esso così proseguiva:

V.L. (5.11.2007):

Se questo forum serve per promuovere il dibattito scientifico attraverso domande e commenti, questa è un’altra domanda diretta che rivolgo a Olga Pozzi: “qual è la specificità edipica dell’omosessualità (tout court)”? Non è da molto che la comunità psicoanalitica ha avviato una radicale revisione delle teorie che vedevano nell’omosessualità un esito patologico o comunque “non riuscito” dello sviluppo. L’univocità di questa linea di sviluppo ha fatto coincidere il discorso sull’eziologia con quello sulla patologia, e quindi con la ricerca di “cause” patologiche dell’omosessualità, come un rapporto troppo intimo con la madre, l’assenza del padre, ecc. Oggi tutti diciamo “le omosessualià”, ribadiamo (con Foucault) che non esiste il tipo psicologico dell’omosessuale, ricordiamo (con Bollas) che ogni tentativo di elaborare una teoria comprensiva dell’omosessualità può essere realizzato solo al prezzo di una grave distorsione delle differenze che esistono tra omosessuali (“un atto che nella sua posizione estrema potrebbe costituire una forma di genocidio intellettuale”, Bollas, 1992, p. 146). Proseguo nella lettura. A un certo punto Thanopulos sostiene, con un trasporto che mi ha colpito, l’esistenza di un circuito virutoso (intrapsichico e interpersonale) che lega omo ed eterosessualità. Ma fa coincidere l’alterità con l’ “eterità” fino a concludere che «l’eterosessualità svolge la funzione fondamentale di far incontrare la donna con l’uomo e di legare i loro destini. Questo non ci autorizza, tuttavia, a pensare che l’incontro nella relazione omosessuale si realizzi, necessariamente, in forme meno intense e più aride» (p. 140). Infatti: perché mai dovrebbe autorizzarci a pensarlo? A chi sta parlando l’autore? Sono d’accordo con Thanopulos nel criticare un certo radicalismo gay che prevede “analisti gay per pazienti gay”. ma quando leggo la sua raccomandazione “questo non ci autorizza…”, è lui che mi mette un dubbio. Se sente il bisogno di fare questa raccomandazione, significa che sa bene con chi si sta parlando, che conosce i danni commessi da generazioni di psicoanalisti. E siccome è un fatto storico che, fino a ieri, gli istituti psicoanalitici (soprattutto in Italia e in Francia) hanno praticato politiche istituzionali e culturali discriminatorie e patologizzanti nei confronti delle persone (candidati e pazienti) omosessuali, certe diffidenze possiamo capirle … Mi limito a ricordare il caso di un noto analista che, nel corso dei primi colloqui, a un ragazzo che gli racconta di essere gay, risponde, dando un profondo sospiro: “Sa, l’omosessualità è un coperchio, nasconde sempre qualcosa”. Gli psicoanalisti hanno impiegato molti anni per capire che frasi e atteggiamenti come questo danneggiano, oltre che la psicoanalisi, anche l’equilibrio psichico dei/delle pazienti gay e lesbiche. A questo si aggiunge un problema di competenza: homo-ignorance  (Verghese, 1994) è un termine coniato proprio per indicare l’effettiva ignoranza in tema di omosessualità che caratterizza molti analisti eterosessuali – ricordo che questa era una cosa che diceva sempre Luciana Nissim. Ha dunque ragione Daniela Scotto di Fasano quando commenta che «non possiamo non chiederci come mai un libro scritto da psicoanalisti non apre uno spazio in cui confrontarsi criticamente con i danni prodotti da gran parte degli psicoanalisti in tema di omosessualità». Giro la domanda agli autori di “Ipotesi gay”: come mai non hanno sentito il bisogno di prendere le distanze da una psicoanalisi che per decenni ha usato le etichette dell’immaturità, del narcisismo, della perversione come foglie di fico pseudo-scientifiche per coprire il pregiudizio? Una risposta forse la trovo proprio nell’intervista di Luciana Sica. Qui Thanopulos dice due cose che non posso condividere: la prima riguarda la “legittimità delle posizioni conservatrici”, la seconda riguarda la preoccupazione per la “normalizzazione” omosessuale. La prima: «Trovo infondata l’idea che l’erotismo omosessuale sia patologico, ma non mi sembra il caso d’impegnarsi a fare la conta tra gli “innovatori” e i “conservatori”, perché in realtà ogni posizione è legittima e problematizza l’altra». Credo invece che questa conta dobbiamo farla. Non è vero che ogni posizione è legittima. Si leggano i lavori di Ralph Roughton. Nel 1967, quando inizia il suo training psicoanalitico, il clima delle società psicoanalitiche è caratterizzato da una spiccata omofobia. “Non si poteva essere gay e diventare psicoanalista… era possibile essere uno psicoanalista omosessuale in segreto – se si aveva un po’ di fortuna, molta discrezione e un analista didatta che non lo raccontava all’istituto. Ma non era possible essere uno psicoanalista apertamente gay” (Roughton, 2002, p. 32). In quegli anni, per una persona omosessuale, intraprendere una formazione psicoanalitica significava affrontare la paura e la vergogna in silenzio. E per alcuni c’era la speranza, una falsa speranza, di “guarire”.

Influenzata dal pensiero di Irving Bieber, Sandor Rado, Lionel Ovesey e Charles Socarides, l’ortodossia psicoanalitica dell’epoca considera l’omosessualità espressione di vari disturbi psicopatologici – una perversione, un grave disturbo del carattere, una fobia – nella fattispecie “paure nascoste ma paralizzanti nei confronti dell’altro sesso” (Rado, cit. in Bieber, 1962, p. 327). L’ipotesi freudiana della “fissazione materna”, sostenuta da Bieber, trova molto seguito e omosessualità (maschile, di quella femminile, essendo femminile, ci si occupa meno) diviene sinonimo di dinamiche familiari patogene caratterizzate da madri intime e seduttive e padri distanti. In questo clima, il giovane psichiatra Roughton non solo decide di nascondere la sua natura omosessuale per proteggere le scelte professionali, ma addirittura inizia l’analisi con la richiesta di cambiare il proprio orientamento – una perfetta consonanza di omofobia interiorizzata e omofobia istituzionalizzata. Nei primi anni d’analisi controlla rigidamente i propri comportamenti, illudendo se stesso e l’analista di essere sulla strada della “guarigione”. Convinto che una “sana” vita eterosessuale l’avrebbe aiutato a guarire si sposa, ha due figli e diventa psicoanalista: ma tutto questo non cambia la forza dei suoi desideri omosessuali. Oggi, al riparo dalla vulnerabilità di allora e dalle discriminazioni che certamente avrebbero minato la sua carriera, Roughton può considerare criticamente la sua prima analisi, osservando come essa abbia rafforzato il suo bisogno di essere un “ragazzo per bene” sfruttando il suo transfert compiacente anziché analizzarlo. “Quello che imparai a fare era reprimere, sublimare e controllare il mio comportamento… Quelli che venivano considerati gli indicatori di una prognosi favorevole erano invece una misura della mia capacità di negare me stesso e di rinunciare al piacere, del mio forte bisogno di assecondare le aspettative degli altri e della mia propensione a un transfert sottomesso e silenzioso” (Roughton, 2002b, p. 37). Nel tempo, è cambiato l’approccio psicoanalitico all’omosessualità: grazie soprattutto a grandi revisioni e battaglie, e non a legittimazioni di teorie idiosincratiche e omofobe. Tuttavia, il pregiudizio psicoanalitico non è scomparso. Si è ritirato dagli spazi pubblici, ma mantiene il suo posto in molti spazi privati. Il parziale silenzio sull’argomento desta invece qualche sospetto. Quando uno psicoanalista si trova di fronte a un paziente o a un’organizzazione che evita di discutere un fenomeno che si è rivelato a lungo disturbante, suppone che sia in opera una difesa da un complesso ancora attivo. Forse, come suggerisce Lewes (2002), la psicoanalisi si sta ancora difendendo. È invece necessario che riconosca gli errori del passato e parli più apertamente della discriminazione trascorsa e presente nelle comunità psicoanalitiche. Nelle relazioni, la capacità di riconoscere la propria aggressività o il proprio potere traumatogeno ha un valore profondamente riparativo. La comunità psicoanalitica deve riconoscere l’ondata di crudele omofobia che l’ha attraversata, in particolare tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta. Ma soprattutto, deve capire e elaborare i residui personali, storici e teorici della propria omofobia. Una menzione speciale va naturalmente alla Francia. Per non dilungarmi, rimando agli scritti di Bergeret (2002) commentati da Sid Phillips (2003). Ecco – lo racconta Elizabeth Roudinesco (2002) – cosa dice lo psicoanalista francese Gilbert Diatkine (1999) di Ralph Roughton: “Non ho niente contro gli omosessuali, e certamente condanno l’omofobia; ma non posso accettare che psicoanalisti omosessuali partecipino a campagne per la causa gay”. César Botella (1999), paragona la militanza gay a un “diniego del dramma personale dell’omosessuale” (dramma personale??); Jean-Michel Quinodoz (1989, p. 57) descrive l’omosessualità femminile “come una situazione borderline che rappresenta una difesa in due direzioni: contro un ritorno indietro per la paura della psicosi e contro l’andare avanti per quella di affrontare il complesso edipico”; Janine Chasseguet-Smirgel (2003), fervente essenzialista per una dicotomizzazione radicale dei generi, mantiene uno sguardo sospettoso sulle dinamiche omosessuali. Infine, l’Italia. Per una rassegna di punti di vista nostrani (Weiss, Musatti, Fornari, De Martis, ecc.), le benevole reticenze, la promozione di una cultura “don’t ask don’t tell”, le patologizzazioni col cuore in mano ecc., rimando a quanto ho scritto in “La psicoanalisi italiana” (Lingiardi, Luci, 2006, p. 49-56).

 

S.T. (11.11.2007), su questa prima questione: Quanto alla concessione che ho fatto ai “conservatori” dalle colonne di Repubblica (perché l’ho fatta, è vero), avevo due motivi: a) Il libro è rivolto anche agli analisti SPI e aspira ad aprire un dibattito interno – del resto proprio per questo accoglie contributi di orientamento diverso. E non si può aprire un dibattito senza rispettare posizioni diverse. b) Certe critiche alle mie idee provenienti da colleghi, che pur senza patologizzare l’omosessualità, la considerano nondimeno una devianza, mi hanno aiutato a chiarire meglio il mio punto di vista. Ciò non toglie che nella sostanza Lingiardi ha ragione: gli psicoanalisti hanno contribuito alla discriminazione dell’omosessualità (quando anni fa al questionario di una ricerca di cui non ricordo più i titolari – non so se è la ricerca cui fa riferimento Lingiardi – risposi che un omosessuale poteva diventare didatta della SPI, parlandone con i colleghi mi accorsi che la mia era una posizione molto isolata). Un’ultima breve considerazione. Oggi non ripeterei più l’affermazione: “se si fosse sviluppata una malattia psicosomatica, è probabile che sarebbe una psoriasi”. Non perché sia assurda. Non lo è. Ma  è troppo perentoria, poco dimostrabile e distrae dalla sostanza del mio discorso. Non aggiunge ma toglie.

 

V.L., proseguendo, così conclude il proprio paper di apertura:

V.L.(5.11.2007):

Vengo al secondo punto preannunciato, quello della normalizzazione. Dice Thanopulos: «Soprattutto non dimenticherei che un certo aspetto “eretico”, una certa “devianza” dell’omosessualità ha sempre avuto una funzione molto importante: quella di destabilizzare lo statuto normativo della sessualità. Certo, non è possibile inchiodare eternamente gli omosessuali al polo trasgressivo della sessualità, ma bisogna stare attenti – nel passaggio verso la “normalizzazione”- a non perdere di vista il senso profondo delle differenze, a cancellare le tensioni che ci sono».

Ecco il tema della “normalità gay” (che è in parte l’argomento di un mio libro che esce in questi giorni intitolato Citizen Gay (Lingiardi, 2007). Chiamerei questo problema “chi deve portare la croce? La lunga marcia dell’omosessualità dalla devianza alla normalità”. Infatti, se in passato lo “scandalo” era la devianza omosessuale, oggi ciò che preoccupa e spaventa è la rivendicazione di una normalità omosessuale e della sua organizzazione affettiva. Thanopulos dice: certo non possiamo chiedere agli omosessuali di stare sempre sempre sulle barricate della trasgressione, ma nemmeno possiamo “perdere di vista il senso profondo delle differenze”, “cancellare le tensioni”. È un linguaggio allusivo, su cui chiederei un chiarimento. Dunque una domanda interessante potrebbe essere: che cosa è successo negli ultimi trent’anni perché persone qualificate di volta in volta come invertiti, perversi o malati mentali arrivino a chiedere non solo di essere riconosciute come cittadini a tutti gli effetti, ma anche di poter adottare quell’ordine familiare che tanto ha contribuito alla loro sfortuna? Quello gay-lesbico è un soggetto nuovo, la cui definizione ha implicitamente condotto alla richiesta di vedere riconosciuti i suoi legami familiari. Così, di decennio in decennio, “l’omosessuale” è transitato dalla giurisdizione morale (lecito/illecito) a quella scientifica (sano/malato) a quella politica (soggetto di diritto), portando ogni volta con sé qualcosa dello statuto precedente.

Fin dall’infanzia, dunque, entrambi i sessi iniziano a sperimentare stimoli negativi nei confronti delle persone omosessuali. L’eterosessualità viene trasmessa come qualcosa di scontato e obbligatorio, così che l’autopercezione della propria diversità finisce per coincidere con un’idea di sé come sbagliato o addirittura malato. La formazione dell’identità della persona omosessuale avviene quasi sempre in un clima di stress in cui si intrecciano, fino a diventare indistinguibili, fattori di natura esterna e di natura interna. Paradossalmente, la consapevolezza e l’accettazione di essere “diversi” possono funzionare da rinforzo ad essere “migliori” per essere accettati o almeno non penalizzati Poichè la parola “gay” ricorre nel titolo sia del libro di Thanopuls e Pozzi (come ipotesi), sia del mio (come cittadinanza), e dato che Daniela Scotto di Fasano la associa al “diniego dei lutti che essere omosessuali comporta”, a una “dimensione forzatamente gaia”, fino a sentirsi addirittura spinta a chiedersi “se è davvero così allegra la gente omosessuale”, provo a dire un mio breve pensiero su questo punto. Prendo a prestito una bella vignetta di Giuseppe Fadda: “Are you gay?” chiede un omino a un altro. “Sometimes gay, sometimes sad”… Ecco, più o meno è tutto qui. Ogni tanto allegri e ogni tanto tristi, come tutti. La storia ufficiale delle persone omosessuali (roghi, elettroshock, triangoli rosa, gulag) non è molto gaia. Ma è probabile che il termine “gay”, da qualcuno ribattezzato a partire dalle iniziali di “Good As You”, si sia selezionato proprio come strategia di resistenza (auto)ironica, in risposta al troppo medicalizzante “omosessuale”. In un bell’articolo intitolato The language of psychoanalytic discourse, Drew Westen (2002) discute una serie di presupposti teorici – per lo più impliciti – che è possibile ravvisare nel pensiero, negli scritti e nei discorsi di molti psicoanalisti. L’insieme di questi presupposti forma una “grammatica” che riflette un’adesione implicita a teorie che spesso non sono più ritenute vere a livello esplicito La prima regola di questa grammatica, che pur essendosi rivelata falsa e pur costituendo un ostacolo al progredire del sapere e del saper-fare analitico continua a essere implicitamente sostenuta, è quella che tende a vedere costrutti ipotetici unitari dietro a fenomeni clinici molteplici. Lo ricorda anche Daniela Scotto di Fasano nel suo paper di apertura al forum: Un’altra questione sulla quale credo valga la pena avviare una discussione concerne la possibilità che, all’insaputa degli stessi Autori, affiorino, come spesso è accaduto e accade nella letteratura sull’omosessualità, modelli inerenti il modo in cui pensare il maschile e il femminile che, per quanto ripensati, si costituiscono come cardini del nostro pensiero, facendo sì che aderiamo senza saperlo a teorie che crediamo di non condividere affatto. In una ricerca condotta qualche anno fa sull’atteggiamento degli psicoanalisti italiani in tema di omosessualità (Lingiardi, Capozzi, 2004) abbiamo rilevato dei dati interessanti e credo utili a questo dibattito. Riporto brevemente alcuni punti:

a) l’atteggiamento dell’analista verso l’omosessualità sembra influenzato più dalla sua formazione culturale e teorica che da variabili personali quali l’età e il genere. Il dato indica i rischi della trasmissione transgenerazionale all’interno delle scuole psicoanalitiche di alcune erronee convinzioni legate al modello teorico di riferimento. b) l’atteggiamento dell’analista verso l’omosessualità è fortemente influenzato dal modello teorico di riferimento. Principalmente in base ai seguenti raggruppamenti: a) freudiano, b) kleiniano, c) junghiano, d) post-classico, relazionale-intersoggettivo.

c) vi è un netto scollamento tra l’appartenenza teorica dell’analista e la sua pratica clinica. In sintesi: da un lato sopravvivono convinzioni e modelli teorici che patologizzano l’omosessualità, dall’altro prevale un atteggiamento che non si pone il problema di trattare quella che comunque considera una patologia. Il lavoro con pazienti gay e lesbiche non teso a indagare l’eziologia dell’omosessualità, ma aperto a un’esplorazione analitica autentica, sta arricchendo la riflessione dinamica sulle proprie convinzioni e pratiche: per esempio, i vantaggi e i rischi del self-disclosure dell’analista, il modo in cui alcuni preconcetti teorici limitano o inibiscono l’ascolto clinico, l’efficacia delle risposte basate o meno sull’esperienza, l’impatto del trinceramento del terapeuta dietro a preconcetti culturali, il ruolo di una diversa appartenenza subculturale di paziente e analista ecc. Abbiamo iniziato con degli interrogativi. Più dell’omosessualità, ho detto, è l’omofobia a interrogarmi. Perché è così diffusa? Dove affonda le sue radici? Credo soprattutto in due fattori, entrambi riferibili a un bisogno di certezze: la prima riguardo a che cosa sia “naturale”, la seconda riguardo a che cosa sia “maschile” o “femminile”. Contronatura. L’intolleranza verso le persone e i legami omosessuali si nutre in buona parte dell’idea che essi siano “contronatura”. Diciamo che c’è sempre una cultura che decide che cosa sia la natura. Se per omosesssualità si intende l’atto omosessuale in sé, ovviamente esso è “naturale”, perchè esiste in natura. Quanto agli affetti e alla loro organizzazione sociale, questi in nessun caso sono “naturali”, perché imprescindibili dal contesto culturale in cui si sviluppano, omo o etero che siano. Ma l’argomento forte è quello per cui l’omosessualità è un “monstrum” perché non ha finalità riproduttive. Cito con piacere il sociologo Marzio Barbagli: «Il tabù del cattolicesimo nei confronti degli omosessuali è la pratica sessuale a fini non riproduttivi. Una morale sessuale che si è creata duemila anni fa, in una società in cui i tassi di mortalità erano molto alti e la fecondità un valore. Oggi, chiaramente non è più così: tant’è che la sessualità non riproduttiva è diffusa e accettata anche tra gli eterosessuali. Ciò non toglie che nella coppia omosessuale la separazione tra sessualità e riproduttività è netta, e questo contrasta con con l’etica sessuale della chiesa. Un’etica certamente statica». Sono peraltro gli stessi evoluzionisti a spiegarci perché l’omosessualità, nonostante la sua scarsa valenza riproduttiva, non sia “scomparsa”. Non tanto per la sua funzione, come alcuni un po’ riduttivamente suggeriscono, di “equilibratore demografico”, bensì perché la tendenza umana a stabilire legami affettivi è sì funzionale, ma non unicamente rivolta, alla riproduzione biologica (è un altro dei punti, quello della logica evoluzionistica, su cui Daniela Scotto di Fasano ci invita a confrontarci). Inoltre, anche quando, come nel caso di coppie omosessuali, spinta riproduttiva e orientamento sessuale non sono “allineati”, il desiderio di avere dei figli può essere così profondo da ottenere la sua realizzazione. Maschile e femminile. L’avversione o la diffidenza nei confronti dei gay e delle lesbiche può anche derivare dalla preoccupazione per un disordine, qualcosa di “fuori posto” rispetto all’identità e ai ruoli di genere, una sorta di disagio all’idea che vi sia qualcosa di “femminile” in un uomo e di “maschile” in una donna. Da qui anche il bisogno di rassicurarsi riguardo alla propria “mascolinità” o “femminilità”. una donna che ama un’altra donna stravolge la regola patriarcale per cui è il rapporto con il pene che penetra e feconda a offrirle la possibilità di essere “completa”. È una donna che tradisce la sua missione di madre e di moglie. Un uomo che ama un altro uomo evoca il fantasma della passività, si “femminilizza” e rinuncia alla sua “vocazione” patriarcale. Questo spiegherebbe perché, mediamente, i maschi eterosessuali tendono a sviluppare un’omofobia più intensa verso i gay che verso le lesbiche, le quali possono semmai diventare oggetto di fantasie sessuali che vedono come protagonista il maschio che si unisce per “rimettere le cose al loro posto”.

Rimane il fatto che una donna senza un uomo al suo fianco è facilmente ridicolizzata: è una suora, una zitella o una lesbica. E ridicolo o inutile è l’uomo che non si porta a letto una donna (un imbranato, un impotente o un finocchio). In entrambi i casi si tratta di uno spreco, una stranezza, una sovversione improduttiva. Il legame tra maschilismo e omofobia è evidente. Nonostante la psicoanalisi sia nata come una teoria dello sviluppo psicosessuale, la sessualità umana e l’immaginario erotico non sono affatto stati chiariti. A chi lamenta la mancanza di una teorizzazione psicoanalitica sull’omosessualità, ricordiamo che questa manca anche sull’eterosessualità. Così, in mancanza di lavori validi sull’eterosessualità (Chodorow,1994, p. 300), «non possiamo affermare che l’omosessualità sia più sintomatica dell’eterosessualità – i resoconti clinici che abbiamo suggeriscono che non ne troveremo la conferma».

 

Ribatte S.T. (11.11.2007): Nel mio contributo non dico nulla sui fattori socioculturali e biologici che contribuiscono a che la componente dell’omosessualità prevalga nella determinazione della pratica sessuale, semplicemente perché esulano dalla mia competenza. Ciò che mi interessa è mettere in evidenza, partendo da un campo di osservazione clinica, il collegamento, a mio avviso significativo, tra i fattori psichici che intervengono nella determinazione dell’omosessualità (che conosciamo poco, come del resto  anche quelli che intervengono nella determinazione dell’eterosessualità) e un lavoro di riparazione, che ho trovato costantemente presente nei miei pazienti omosessuali che devono fronteggare internamente una pressione autoerotica, ma non nei pazienti eterosessuali con lo stesso problema. Penso, tuttavia, che l’omosessualità interna abbia sempre una funzione non difensiva nei confronti dell’altro sesso bensì di riparazione della relazione con esso, che presenta inevitabilmente una componente  traumatica. A parità di altre condizioni, tra i soggetti che hanno investito fortemente la relazione omofilica con la madre la scelta omosessuale è notevolmente più probabile che tra coloro che non hanno avuto questa esperienza. Personalmente non trovo niente di patologico in questo, perché:

a)la conferma di una tendenza omofilica iniziale come approccio all’alterità attraverso una scelta omosessuale non esclude affatto l’esplorazione delle differenze (cambia solo il canale di accesso).

b)la sessualità omosessuale è pienamente compatibile con la rappresentazione interna del desiderio per l’altro sesso. Ciò che chiama direttamente in causa nel campo dell’omosessualità la psicoanalisi, è il fatto che non sempre l’investimento omofilico riesce a sanare l’invasività della madre fallica arginando la reazione autoerotica. L’infiltrazione, in varia misura, del loro psichismo da una corrente autoerotica dissociata rappresenta il motivo più frequente per cui i miei pazienti omosessuali chiedono di iniziare un analisi. Ora, riducendo una delle due parti del mio discorso all’osso, ciò che mi interessa di più dire è che nella relazione analitica è importante non solo non confondere autoerotismo (e le costellazioni fantasmatiche ad esso correlate) con l’omosessualità (come, ahimè, gran parte degli analisti ha fatto a partire dagli anni cinquanta e come all’inizio della mia esperienza clinica facevo anch’io, perdendo tutti i miei pazienti omosessuali), ma anche, e soprattutto, riconoscere la funzione di riparazione nei confronti della relazione che svolge quest’ultima, lavorando nella direzione di un suo compimento in legami coinvolgenti e significativi.

Lingiardi mi rimprovera di far rientrare dalla finestra quanto è stato messo alla porta. Gli omosessuali, secondo la prospettiva che mi attribuisce, hanno subito un danno psichico, sono soggetti “rotti” e poi “riparati”. Qualcuno di noi preferirebbe una macchina danneggiata e riparata a una immacolata (l’eterosessualità)? Non mi resta che difendere la problematicità delle mie idee (sempre di idee si tratta). C’è qualcuno di noi (uomo o donna, omosessuale o eterosessuale che sia) che non sia stato danneggiato e poi riparato? C’è una forma di sessualità (dico una) che non sia trauma e riparazione? L’alterità ci ferisce ed è ferita da noi. La vita è un costante lavoro di riparazione di sé e dell’altro. Ma questo è solo una necessaria premessa. Arrivo al nodo. Il trauma cui mi riferisco nel mio contributo è la differenza della madre che ferisce la differenza del figlio. E parlo di due reazioni (rese possibili dalle condizioni esistenti): la prima (patologica, perché inibente la relazione con l’altro) è un autoerotismo dissociato dal resto della sessualità, che conduce a un’eterosessualità difensiva, omofobica, che rifiuta la vicinanza,la comunanza, il coinvolgimento e predilige la distanza; la seconda è lo sviluppo di un’intesa omofilica che conduce a una scelta omosessuale, che per quanto non sempre riesca a arginare compiutamente l’inclinazione autoerotica, garantisce molto meglio lo sviluppo dell’affettività nelle relazioni (pur a discapito, a volte, della costanza). Dire questo è una discriminazione della scelta omosessuale? La mia generalizzazione che è stata fraintesa (forse anche perché non ho saputo insistere adeguatamente sulla questione, per quanto l’ho enunciata chiaramente) è che la determinazione psichica dell’omosessualità (per la parte che le compete, quando le compete) è in rapporto stretto con il lavoro di riparazione. Nell’adolescenza, quando effettivamente si compie (se si compie) la scelta sessuale, l’omosessualità svolge un decisivo ruolo di contenimento dell’effetto perturbante dell’incontro con l’altro   sesso nel mondo interno, e credo che  possiamo aspettare che quando questo effetto supera una certa soglia,e in presenza di altri fattori favorevoli, questo può facilitare l’imbocco di un’espressione omosessuale della sessualità. In assenza di altri fattori favorevoli all’omosessualità l’adolescente può imboccare la strada di un’eterosessualità traumatica, non necessariamente autoerotica ma costantemente diffidente e travagliata. Qui ci affacciamo alla questione della determinazione psichica di un’eterosessualità e di un’omosessualità difensive, ma è una questione complessa, che preferisco mantenere aperta. Ma, alla fine, dobbiamo chiedersi, visto che il discorso di Lingiardi converge (giustamente) verso questo punto: tutto sommato l’eterosessualità compiuta è una forma  di sessualità più evoluta dell’omosessualità  compiuta? Aveva ragione Freud a definirla come arresto evolutivo sul piano erotico,seppur non patologico sul piano psichico e assolutamente compatibile con un’affettività matura? Tutto il mio discorso sulla riparazione sembrerebbe tangenziale a questa domanda, perché io non l’ho collegato, direttamente ed esplicitamente, ad essa. Nondimeno, e su questo insisto nella seconda parte del mio discorso, io non vedo differenze nel mondo interno degli omosessuali e degli eterosessuali fatto ugualmente, in entrambi i casi  di omosessualità ed eterosessualità (basterebbe leggere Proust per capirlo). Una funzione specifica dell’omosessualità interna è quella di cerniera. E questa funzione è indissociabile dal lavoro di riparazione in ognuno di noi. Lingiardi chiede (seppur indirettamente): dobbiamo equiparare alterità con eterità? Certamente no. L’alterità è fatta dell’altro che ci appartiene e non ci appartiene al tempo stesso (altro di sé, altro isterico) e dell’altro che non ci appartiene (l’altro da sé, etero). Ma questo discorso, nel nostro caso, non ci porta lontano. Porta l’omosessuale in una trappola di cui non si sente il bisogno. L’omosessuale, se capace di raggiungere l’alterità (se non è frenato dall’autoerotismo), è perfettamente in grado di afferrare l’eterità (il coinvolgimento affettivo e erotico con l’altro sesso) attraverso l’incontro con  un partner dello  stesso sesso. Lingiardi mi chiede di chiarire le frasi “perdere di vista il senso profondo delle differenze”, “cancellare le tensioni”. Ci sarà pure un senso profondo, non banale, nella differenza tra scelta omosessuale e eterosessuale e una tensione dialettica tra di loro? Perché per quanto equivalenti sul piano psichico e dell’intensità erotica e affettiva dell’incontro rappresentano comunque due approcci differenti all’erotismo. Saremmo più ricchi o più poveri se cancelliamo la differenza dell’espressione sessuale? Faccio un esempio: dall’incontro omosessuale in sé non può nascere un figlio. Ma al tempo stesso l’incontro omosessuale è più libero dal peso normativo del legame procreativo. Meno legato alle convenzioni, (socialmente determinate) della coppia istituzionale. Ogni posizione richiede l’elaborazione di un lutto e un recupero interno di ciò che viene a mancare sul piano del approccio esterno, con un’arrichimento della soddisfazione procurato da esso.       Non ho una visione pacificatrice della sessualità: credo che la sua costituzione sia antinomica (come quella della nostra soggettività e del nostro senso d’identità). Ma è nella antinomia che esprime la sua complessità e trova la sua ricchezza. Come eterosessuale vedo nell’espressione omosessuale della sessualità il mio altro isterico: qualcosa che pur non appartenendomi  mi appartiene. E’ l’ “altro di me”, come ne potrei fare a meno? Credo che sia opportuno distinguere tra diritto alla “normalità” (espressione a dire il vero ambigua, non sono così sicuro di volere essere “normale”) e adesione alla norma. Gli omosessuali  trasgrediscono la sessualità normativa (l’eterosessualità) senza per questo smettere di essere  normali”. Se nel futuro cambierà la norma sociale della sessualità gli omosessuali continueranno ad essere “normali”. E non cambierà la loro differenza (sul piano dell’espressione sessuale) dagli eterosessuali. Sono le differenze ad essere “normali”. Omosessualità e eterosessualità  interrogano l’una l’altra. Ognuna di esse ha le sue forme interne di destabilizzazione e trasgressione, è verissimo. Ma è importante che continuino a destabilizzarsi a vicenda.

 

Ed ecco il secondo contributo di V.L. (22.12.2007): Recalcati, commentando Ipotesi gay e parallelamente indicandoci suggestivi frammenti lacaniani, ricorda che è opportuno distinguere tra omosessualità e perversione, e tra omosessualità e autoerotismo. È proprio così, e dispiace che questa distinzione abbia il sapore di una conquista. Ma dobbiamo arrenderci al fatto che per decenni di psicoanalisi non è stato così (per questo ho scritto che “la storia non ci assolverà”). Eppure fa ancora un certo effetto cogliere, in riflessioni come “l’omosessualità resta nel registro dello scambio sessuale, mentre nell’autoerotismo ecc.”, la dimensione di un punto d’arrivo, e non di un punto di partenza, del pensiero psicoanalitico. Ci fa sentire come sia appena dietro le nostre spalle la barbarie di certe teorizzazioni in tema di psicosessualità. Lo stesso vale per il punto in cui Recalcati puntualizza che esistono, in campo omo come in campo etero, una “sessualità legata ad Eros ed una sessualità legata a Thanatos”. La necessità di questa puntualizzazione mette in luce convinzioni precedenti (non credo di Recalcati, ma di un certo dna psicoanalitico sicuramente sì) per cui la sessualità omosessuale sarebbe comunque più mortifera. Mi rimane però un dubbio su “quelle nicchie di godimento mortifero che consentono gli incontri anonimi e silenziosi tra omosessuali” come “manifestazione del godimento dissipativo che impregna la pulsione di morte”. Va da sè, dice giustamente Recalcati, che questo soffio mortifero può “intacca(re) anche il mondo degli eterosessuali”. Non sarei però così inflessibile nell’associare gli incontri anonimi e silenziosi sempre e comunque al godimento mortifero. Non possono essere associati anche a un godimento che possiamo accompagnare ad altri aggettivi (magari più lievi)? Condivido (e sento vicina alla sensibilità di Jessica Benjamin e di tanti psicoanalisti che hanno partecipato ai gender studies – e pensavo, peccato che in questo forum, e in Ipotesi gay, siano rimaste/i fuori Benjamin, Chodorow, Butler, De Lauretis, Dimen, Corbett) il pensiero per cui la distinzione dei modi della sessuazione non ricalca la distinzione tra i generi – “nel senso che la sessuazione femminile non esclude affatto l’uomo e viceversa, quella fallica, non eslcude affatto la donna”. Bella l’idea lacaniana della sessuazione del mistico maschile al di là del fallo – non la conoscevo. Interesse per la riflessione di Recalcati sul razzismo e la globalizzazione. Foucault e Negri. E per la sua distinzione, poi ripresa da De Renzis, tra clinica classica dell’omosessualità (che oggi dovrebbe essere inservibile, “nell’orizzonte di una nozione disciplinare, preimperiale, del godimento”, ma che, sopravvivendo l’omosessualità della colpa, ancora “ci interroga”) e clinica dei gay. Il tema della “normalizzazione” omosessuale agita anche me Ringrazio Thanopulos per i suoi chiarimenti, grazie ai quali ho capito meglio (grazie al concetto di omofilia-cerniera di cui la successiva omosessualità e erede) su quale punto si discostano le nostre sensibilità. Ho capito male o, pur diversificando cronologicamente e qualitativamente, Thanopulos fa discendere la sua concezione di omosessualità dalla sua concezione di omofilia (intesa come “amare nell’altro ciò che si ha o si desidera, o perfino si illude, di avere in comune con lui”). E che, da qualche parte del suo pensiero, lui senta un particolare rischio di conflitto tra i concetti di omosessualità e di alterità?

Vorrei poi esprimere qualche perplessità circa l’espressione “scelta omosessuale”, che Thanopulos usa, poiché non riesco a pensare all’omosessualità come a una scelta. Ancora, sarò un testone, ma continuo a non capire bene che cosa deve riparare l’omosessualità interna. Thanopulos dice che è rivolta a riparare (e a favorire la ricucitura) della dissociazione tra sessualità “oggettuale” e autoerotismo. Dunque mi sembra di capire che l’omosessualità agirebbe a livello intrapsichico in modo benigno per aiutarci a mantenere in equilibrio la dimensione autoerotica da quella oggettuale. E poichè “sia la scelta omosessuale che la scelta eterosessuale  possono essere egualmente infiltrate da un autoerotismo dissociato dalla relazione oggettuale se non  funziona adeguatamente l’omosessualità  interna (che rappresenta un’importante fattore di coesione nercisistica della soggettività volta verso il riconoscimento dell’altro)”, questa “omosessualità interna” sarebbe un bene prezioso per tutti. Thanopulos non scrive in modo semplice, ma spero fin qui di aver capito bene. Ma quello che Thanopulos vuole mettere in evidenza “partendo da un campo di osservazione clinica” è il collegamento significativo “tra i fattori psichici che intervengono nella determinazione dell’omosessualità e un lavoro di riparazione, che ho trovato costantemente presente nei miei pazienti omosessuali che devono fronteggiare internamente una pressione autoerotica, ma non nei pazienti eterosessuali con lo stesso problema”. Quindi, conclusivamente, Thanopulos non propone un’interpretazione psicodinamica dell’omessualità (consapevole lui stesso che esistono forme plurali di omosessualità, per non parlare dell’incomparabilità di omosessualità maschili e femminili), ma semplicemente una lettura eziopatogenetica di quelle omosessualità particolarmente minacciate da una pressione autoerotica che ha visto in alcuni suoi pazienti. Quindi la sua non è una teoria generalizzabile, né una teoria sull’omosessualità. Mi domando quindi dove stia la “questione omosessuale”. La particolare attrazione verso la dimensione autoerotica, mi sembra indipendente (anche evolutivamente) dall’orientamento sessuale.

Sul punto del “danno”, certo non voglio negare che tutti siamo danneggiati e, chi più chi meno, riparati. E sono d’accordo con l’idea (lo dice sempre anche la McDougall) che ogni sessualità sia traumatica. Ma non sono d’accordo con il creare uno “specifico traumatico” dell’omosessualità (proprio perché ogni sessualità ha il suo, di specifico traumatico). Perché dunque tanta attenzione all’autoerotismo frenante omosessuale? Che cosa ha di particolare l’autoerotismo omosessuale, rispetto a quello eterosessuale? Alcuni possono averlo, altri no. Perché, allora, un’ “ipotesi gay”?

Quanto alla “tendenza di omologazione dell’omosessualità agli stereotipi della coppia borghese” che preoccupa Thanopulos, ripeto quanto già detto: il valore, o il disvalore, di una “coppia borghese” è dato dalla qualità morale, affettiva, personale dei soggetti che la formano – non dal loro orientamento sessuale. Proprio perché, come giustamente dice Thanopulos, sono le  differenze ad essere “normali”, il problema dell’adesione alla norma riguarda (e deve riguardare) tutti, omosessuali, eterosessuali, bisessuali, nonsessuali, eccetera.

nel merito dei commenti avviati da De Renzis e Pozzi, che voglio comunque ringraziare per avere ripreso le mie osservazioni e avere dato risposte. Penso che su alcuni punti, dopo una bella discussione, troveremmo senz’altro un’intesa. Su altri (tra cui temo la fiducia nel potere esplicativo, o quantomeno generalizzante, della psicoanalisi in tema di sessualità) credo che ciascuno rimarrebbe della sua opinione.

Ha ragione Olga Pozzi quando dice che nella mia impostazione critica c’è una certa nuance di pregiudizio. Per esempio, questo lettore sensibile che è in me si aspettava, da un libro come il vostro, che un contributo alla costruzione di questa “ipotesi” venisse anche da una voce in prima persona omosessuale (Postilla scherzosa/pregiudiziosa: ci sono psicoanalisti “openly gay” nella spi?). E forse si aspettava di leggere, prima di ogni ulteriore e legittima problematizzazione dell’argomento, una critica definitiva della tradizionale psicoanalisi dell’omosessualità. L’ho trovata nell’intervento di Thanopulos a questo forum, quando dice che “gli psicoanalisti hanno contribuito alla discriminazione dell’omosessualità”, e questo mi ha fatto piacere. La trovai tantissimi anni fa, durante una conversazione con Luciana Nissim, quando mi disse “gli psicoanalisti non hanno mai capito niente di omosessualità …”. Un ringraziamento finale a Daniela Scotto di Fasano per avere creato l’occasione. La mancata partecipazione (a parte noi “convocati”) di altri colleghi a questo forum, mi fa pensare a quanto ancora complicato, e forse temuto, sia il discorso sull’omosessualità in psicoanalisi. E di quanto ancora lunga sia la strada da percorrere. Noi su tante cose non siamo d’accordo, ma almeno ci siamo incamminati.

 

Contributo di A.B. (3.1.2008): Mi sembra che ci siano due modi per intervenire nel dibattito.  1) Articolarsi con le “ipotesi” contenute nel libro curato da Pozzi e Thanopulos e dialogare  – anche in modo pungente, come è avvenuto negli interventi letti finora; 2) tener conto che noi partecipanti siamo tutti psicoanalisti “al lavoro” e far sentire le risonanze che i pazienti omosessuali portano nella stanza d’analisi. Privilegio questo secondo punto, riprendendo l’iniziale affermazione di Scotto di Fasano (“L’ omosessualità ci interroga”), che ha sollevato qualche perplessità. Se ci si ferma a un piano teorico, ha ragione Lingiardi; invece, se si scende a livello clinico, l’affermazione trova tutta la sua pregnanza. Mi spiego: perché l’omosessualità ci interroga, eccome!, ma dal di dentro. Ci interroga intanto come individui. Quando Daniela risponde che è del parere che “abbiamo finora liquidato l’omosessualità come qualcosa di cui sapevamo tutto”, mi sembra chiaro che vuole anche sottolineare l’aspetto difensivo di un tale costrutto razionale, fatto apposta per non toccare quanto può essere presente nel nostro inconscio, dove possono esserci aspetti omosessuali rimossi e oscuri timori relativi a forme di omofobia non percepite. In secondo luogo, l’omosessualità ci interroga durante il lavoro con pazienti omosessuali, all’interno delle dinamiche Transfert-Controtransfert, quando, inevitabilmente, mettiamo in gioco anche i nostri affetti, specie quelli a noi meno noti. E la disponibilità al contenimento emotivo si fa più difficile quando il paziente fa uso di identificazioni proiettive, quando cioè ci chiede di vivere al di dentro di noi quanto lui ci comunica (qualcosa che facciamo fatica a sentire condivisibile). E la cosa più ardua diventa il rispondere alle sue richieste solo analiticamente. Un ruolo per nulla marginale gioca anche la nostra “teoria personale” sulla omosessualità. Un commento che Pozzi fa al caso Margherita (pag.66-67) mi aiuta a procedere su questa linea. Olga constata “che si parla così poco di controtransfert (o di transfert parallelo) nelle situazioni analitiche con pazienti omosessuali” (dove, specifico io, l’analista  – uomo o donna – è eterosessuale). perché è difficile “dire” , come è più difficile in questi casi la gestione del controtransfert. Capisco la prudenza di non poter esporre in un libro troppi particolari: però, penso che questo spazio che Scotto di Fasano così opportunamente ci ha preparato potrebbe anche essere usato per confrontarci sul nostro modo di lavorare – noi che non siamo degli ISAY – con pazienti omosessuali. Anche Thanopulos dice qualcosa sulle sue esperienze di analisi con omosessuali, ma sembra discostarsi dai rilievi che ha fatto Olga.  Infatti, così si esprime: “Vista con gli occhi di un analista eterosessuale l’esperienza clinica insegna che tra l’analisi di un omosessuale e quella di un eterosessuale non esistono differenze significative. L’analista eterosessuale è nel suo inconscio anche omosessuale, come ogni essere umano. Inoltre, parte della sua omosessualità è presente consapevolmente nel suo modo di essere sotto diverse forme di sublimazione” (pag.137). La mancanza di differenze significative deriva dal modo con cui Thanopulos vede costituita la struttura psichica di ogni persona: infatti, nel suo primo intervento al dibattito (dal titolo “Omosessualità”), egli afferma con decisione: “Nulla del mio discorso può essere chiaro se non si parte dalla premessa che l’omosessualità è una parte importante del mondo interno di tutti e non si riduce alla scelta di un individuo dello stesso sesso come partner della relazione erotica”. Alla luce di questa “premessa”, è quasi scontato che l’analista eterosessuale che analizza un paziente omosessuale non vada incontro a particolari difficoltà. Ma, con pazienti etero come con pazienti omo, la condizione necessaria  perché una libera comunicazione sia possibile, è che l’analista non abbia rimosso eccessivamente la parte omosessuale  o quella eterosessuale di sé”(pag.138). Quest’ultima considerazione è il punto essenziale in questione: l’analista alle prese con la sua parte inconscia che è in conflitto con la sua identità e le sue preferenze sessuali. Se analizzo una paziente eterosessuale e si accende un transfert erotico, la mia risposta, sia inconscia che consapevole viene vissuta come “corrispondente” alla struttura “etero-” della mia sessualità. Le cose sono un po’ diverse se analizzo un paziente omosessuale e si accende un transfert erotico: in questo caso la mia risposta – se tocca corde del mio inconscio – sollecita emozioni, fantasie, spinte all’agire di marca fortemente ambivalente, ma tutte accomunate dalla caratteristica di non essere corrispondenti alla mia eterosessualità. Toccano l’identità sessuale, propongono equilibri diversi dall’ordine delle mie preferenze sessuali, agitano l’omofobia latente. Ecco perché ritengo che la gestione del controtransfert sia più difficile, almeno se considero la mia esperienza clinica.

 

Risposta di O.P. (17.2.2008):La questione rilanciata da Bigi sulla controversa  presenza di peculiari caratteristiche del transfert -controtransfert nella relazione analitica tra analista eterosessuale e analizzando omosessuale merita di essere affrontata in una prospettiva più ampia, che tenga conto della problematica dell’incidenza del genere sessuale dell’analista nella relazione analitica. Se prendiamo in considerazione, infatti, i livelli più primitivi in gioco nella relazione analitica, il genere sessuale dell’analista può forse risultare come irrilevante; ma se il vertice di osservazione si sposta sulle dinamiche consce o preconosce, oltretutto culturalmente e storicamente determinate in maniera più diretta dalla complessità dei messaggi sociali coevi, risulta di immediata evidenza l’incisività che il dato può assumere per diversi aspetti. Ed è comprensibile quindi, per esempio, che l’analista etero, in contatto emotivo profondo con le dinamiche  omosessuali di un analizzando, possa sentirsi ai livelli consci e precoci particolarmente coinvolto da sentimenti di più complessa e articolata curiosità che non in una situazione in cui siano in atto dinamiche eterosessuali, più note sul piano personale. E che quindi possa venire  spinto ad una maggiore attenzione e coinvolgimento nel tentativo di comprendere le motivazioni di un orientamento in un’area così costitutiva e fondante qual è quella della sessualità. Dice molto bene Bigi quando afferma che: “Le cose sono un po’ diverse se analizzo un paziente omosessuale e si accende un transfert erotico Toccano l’identità sessuale, propongono equilibri diversi dall’ordine delle mie preferenze sessuali, agitano l’omofobia latente.” Ma quando al capoverso successivo intende la frase di Thanopulos: “(…) la condizione necessaria perché una libera comunicazione sia possibile, è che l’analista non abbia rimosso eccessivamente la parte omosessuale o quella eterosessuale di sé” come un “avvertimento” all’analista  di “non rimuovere eccessivamente la parte omosessuale o quella eterosessuale di sé”, rischia di apparire fin troppo fiducioso nelle possibilità dell’analista di modulare e ‘gestire’ il controtransfert a propria discrezione; una possibilità che da qualche tempo  viene spesso esageratamente sovrastimata.

 

 

 

E questo è tutto.

Un grazie particolare a quanti hanno contribuito comunque a gettare un ponte verso la possibilità di trovare le parole per parlare di un tema negletto fino a pochissimo tempo fa dalla letteratura e dalla riflessione psicoanalitiche, da un lato, e allo spazio messo a disposizione del forum dello Spazio Libri della SPI, dall’altro.

 

Daniela Scotto di Fasano

 

 

Di seguito la bibliografia allegata da Vittorio Lingiardi al proprio paper iniziale.

 

Bibliografia

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