Parole chiave: Psicoanalisi, Bion, Campo, Ferro, Bezoari, Civitarese, Baranger, Inconscio
INTRODUZIONE ALLA TEORIA DEL CAMPO ANALITICO
di Giuseppe Civitarese
(Raffaello Cortina ed, 2023)
Recensione a cura di Paola Lorusso
“Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere” (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)
Civitarese, in questo agile volume di introduzione alla teoria del campo analitico (TCA), ci parla in maniera puntuale dello sviluppo della TCA a partire dal pensiero di Bion, sottolineandone gli aspetti di innovazione ma anche di continuità rispetto alla psicoanalisi classica, ne descrive le caratteristiche teoriche e cliniche e rimanda ad una ricca bibliografia sul tema.
Se Bion è colui che ha introdotto nuovi termini (O, griglia, funzione alfa, elementi beta…) e ne ha ridefinito altri (inconscio, sogno, identificazione proiettiva…), alla TCA spetta il ruolo di aver affinato la tecnica, con strumenti rigorosi, a partire dalle sue origini che l’Autore fa risalire al 1989, anno della pubblicazione del lavoro di Bezoari e Ferro “Ascolto, interpretazioni e funzioni trasformative nel dialogo analitico” nel quale si stabilisce definitivamente un legame tra i lavori dei Baranger e quelli di Bion. Lo sviluppo della TCA avviene quindi soprattutto in Italia, con Antonino Ferro e la scuola di Pavia, di cui lo stesso Civitarese è uno dei rappresentanti più autorevoli e noti a livello internazionale.
Dalla lettura del volume saltano all’occhio alcune tracce fondamentali che almeno in parte non sembrano così lontane dai pensieri considerati più ortodossi, da Freud in poi, e che poi riprenderò più in dettaglio, seguendo i capitoli e le connessioni individuate dall’Autore: fare psicoanalisi utilizzando la TCA significa giocare e sognare col paziente rinunciando ad un atteggiamento sospettoso, all’interno di un setting affettivo ma rigoroso, affatto sentimentale, cercare una verità condivisa, un significato, ma spesso mutevole e non assoluto, dare importanza soprattutto al qui e ora ma considerando ovvia l’importanza dei dati biografici e relativi alla realtà esterna, che rimangono sullo sfondo. Lo scopo è di ampliare, non appiattire, ma piuttosto creare nuovo inconscio e nuovi modi di pensare per tradurre l’esperienza. Alla base di tutto l’idea che si può essere soggetti solo in relazione all’oggetto e che è centrale l’emozione, in quanto espressione dello stato di salute del legame. Nell’at-one ment, come momento di unisono emotivo, si raggiunge la verità che promuove lo sviluppo della mente, a partire quindi dall’interazione continua di identità e differenza.
La TCA si focalizza sui campi o sistemi intersoggettivi che si creano nell’incontro tra paziente e analista e, costituendo un’area psicologica intermedia, terza (il vaso della famosa immagine di Rubin), facilita la conversazione tra le varie parti della mente del paziente al fine di trovare modi migliori per pensare e riparare così le aree disfunzionali della sua struttura gruppale interna.
L’Autore sottolinea chiaramente, a scanso di equivoci spesso presenti, l’importanza di oscillare tra prospettive diverse, una relazionale che vede i due soggetti e una campista che vede l’area intersoggettiva come terza. Dalla nevrosi sperimentale di Freud, all’identificazione proiettiva della Klein, ai nuovi concetti di enactment e poi di terzo e terzietà, emerge un filo rosso che lega tutti i modelli psicoanalitici e che sta “nel tentativo di dare ogni volta un resoconto più preciso di come l’analista con la sua personalità e il suo inconscio, contribuisca a creare i fatti dell’analisi”. Bion e la TCA rappresentano l’estensione estrema di questa tendenza prescrivendo all’analista di mettere da parte il passato e la realtà concreta per concentrarsi sul “sogno della seduta” (appunto il vaso di Rubin).
La coppia analitica è sempre impegnata a livello inconscio come una terza mente o una Gestalt dinamica o un gruppo-di due, a pensare a sé stessa, cioè a cercare di dare significato all’esperienza vissuta insieme nel qui e ora.
Presupposto è che certi fenomeni possano essere studiati solo nella loro totalità dinamica, così come accade nella fisica, nella teoria della Gestalt o nell’opera di Kurt Lewin e nella filosofia di Heidegger, Merleau-Ponty e Nancy. Altro presupposto fondamentale è che l’indagine della mente umana richieda una psicologia del soggetto in relazione all’oggetto, come per Winnicott e Lacan.
Per la sua chiarezza di esposizione e la sua ricchezza di descrizioni il testo rappresenta un ottimo strumento per approcciare e iniziare a orientarsi in questa modalità, ormai nota e praticata in tutto il mondo, di lavoro psicoanalitico. In quest’ottica Civitarese descrive puntualmente i concetti di base, in particolare di inconscio come funzione psicoanalitica della personalità, diverso dall’inconscio di Freud ma che invece si avvicina alla facoltà kantiana dell’immaginazione produttiva, un a priori rispetto al pensiero, sentimento di sé sottostante che viene assorbito e sviluppato dall’oggetto che fornisce al bambino le cure primarie (la madre che attraverso la sua reverie permette al bambino di sviluppare la sua funzione alfa e la sua facoltà di pensare).
Conscio e inconscio per Bion sono intrecciati in una relazione dialettica, posti su un continuum in cui la transizione è data dal livello di attenzione. Cambia radicalmente quindi la teoria del sogno perché sogniamo sia di giorno che di notte. Sognare è un modo per pensare il reale (“O” di origine, zero), tradurre l’esperienza. Se per Freud sognare equivale a nascondere pensieri proibiti, per Bion vuol dire invece generare nuove idee al fine di rendere digeribile, trasformabile l’esperienza emotiva, è un modo attraverso cui la mente, più o meno attrezzata a seconda delle sue esperienze primarie con l’oggetto, cerca di dare un significato (che è diverso dal trovare una causa) al reale. Attraverso la funzione alfa traduciamo continuamente l’esperienza proto-emotiva-sensoriale (elementi beta) in unità di significato (elementi alfa), narrazioni possibili del reale. In questo senso “come sostiene Ferro, i sogni sono gli elementi psichici che in assoluto hanno meno bisogno di interpretazione-come-decifrazione, piuttosto sono già il prodotto più o meno riuscito dell’attività svolta dalle facoltà simbolico-poietiche dell’individuo”.
Se è importante soffermarsi sugli elementi di innovazione e discontinuità rispetto al pensiero psicoanalitico tradizionale, Civitarese sottolinea anche gli elementi di continuità in una visione fluida, evolutiva in cui ogni cosa concorre a creare il quadro finale, in una modalità che apparentemente esclude, ma in realtà non cancella, dando per scontato o mettendo sullo sfondo quello che è considerato ovvio ma non esclusivo o unico. La parte essenziale diventa il dinamismo, l’oscillazione sia in senso trasversale che longitudinale.
Con Bion sono centrali le emozioni e se per Freud lo sviluppo psichico riguardava il passaggio dal principio di piacere a quello di realtà, per Bion il passaggio è tra assenza di significato a creazione intersoggettiva di significato attraverso l’esperienza vissuta, a partire da “una pulsione di verità” (vedi Grotstein e Ogden). “L’alba di ogni significato che il bambino può ricavare dall’esperienza non può essere rappresentata che dall’unisono (at-one-ment) con la madre” e questo è legato alla capacità materna di accogliere e sognare le ansie del bambino, cioè di riconoscerlo e amarlo.
Non c’è significato possibile al di fuori della relazione, le emozioni hanno sempre a che fare con le relazioni, quindi con odio (H), amore (L) o conoscenza (K).
Si passa da un modello di sviluppo della psiche basato sulla gratificazione pulsionale a un modello basato sul riconoscimento intersoggettivo, un processo di divenire soggetti che si svolge attraverso una parziale e reciproca auto-alienazione.
Cercare di conoscere la causa della sofferenza psichica significa quindi provare a intuire cosa non funzioni a livello del legame. Bion riparte dall’innovazione kleiniana di paragonare il gioco dei bambini al sogno degli adulti e sottolinea l’importanza di prestare attenzione al qui e ora, cioè al clima emotivo inconscio condiviso (l’O della seduta) visto da Civitarese come l’assunto di base del gruppo analista-paziente in seduta, che può essere positivo o negativo, cioè più o meno favorevole al processo di soggettivazione di ciascuno dei membri.
Il modello che sta alla base, come già detto, è quello della relazione madre-bambino, che costituisce un campo in cui si realizzano movimenti della coppia stessa e che possono a volte favorire la crescita di entrambi, a volte invece ostacolarla. Il tutto è però più della somma delle parti, il mettere tra parentesi le differenze concrete tra madre e infante e il grande divario delle capacità simboliche ci permette di vedere meglio e di più delle dinamiche di interazione.
L’Autore sottolinea come la visione di Bion della relazione madre-infante (cioè il bambino che non capisce ancora il significato delle parole) superi quella di Winnicott e diventi un campo nel senso radicale di Merleau-Ponty, dove l’identificazione proiettiva diventa una forma di comunicazione normale, simultanea e bidirezionale. Ciò che contiene le angosce di entrambi sono il ritmo, l’armonia, la musica della danza relazionale in cui si impegnano.
Civitarese passa poi a descrivere gli attrezzi di lavoro della TCA, strumenti che permettono di curare i pazienti, mantenendo il clima emotivo della seduta favorevole alla formazione di legami e cioè alla crescita psichica.
L’interpretazione nel senso tradizionale del termine coincide con la ricettività al discorso dell’inconscio e resta nei pensieri dell’analista, il quale utilizza la conversazione, cioè interventi coscienti volti a imprimere una direzione positiva al processo analitico e facendo sì che il paziente si senta riconosciuto.
Nella descrizione degli strumenti specifici l’Autore ricorre all’acronimo SCREMA che sta per: offrire Self-disclosure anche se raramente e con cautela, fare il Coro greco, prestare attenzione alle Reveries, mappare l’Emozione del campo, riformulare con una Metafora o una similitudine ciò che il paziente ha detto, non perdere le trasformazioni in Allucinosi.
Seguono numerose vignette cliniche che ci portano nella stanza di analisi e mostrano in dettaglio il lavoro della TCA, mostrandone gli aspetti di vitalità e calore affettivo. E’ evidente la passione e l’esserci personale e profondo dell’Autore, sia nei casi di analisi che in quelli di supervisione.
La parte più interessante a mio parere è nelle ultime pagine, dove Civitarese parla ai detrattori della TCA, riprendendo concetti già espressi prima e mettendo nero su bianco alcuni punti fondamentali e spesso travisati. Tra questi in particolare “il soggetto non fa nessuna fine”, anzi si rafforza ogni volta che si intrecciano i fili dell’intersoggettività, la realtà esterna e la biografia del paziente restano oggetto di infinite conversazioni e ipotesi accanto a un nuovo ulteriore piano di comprensione che non necessariamente va esplicitato al paziente e che considera un vertice intersoggettivo per cui realtà psichica della coppia e realtà materiale sono sempre in relazione dialettica tra loro e l’attenzione è posta sullo sviluppo della capacità di giocare. Il risignificare il passato è un processo intimamente intersoggettivo di ricerca della verità che deriva dall’unione emotiva (at-one-ment) e viene prima del contenuto relativo alla ricostruzione del passato.
L’Autore si lancia nell’ipotizzare sviluppi futuri e, sulla scia degli studi sul sublime e sull’estetica, connessi al tema della nascita psichica e, di quelli di Hegel e Husserl, connessi allo sviluppo dell’intersoggettività, arriva a pensare al superamento della visione solipsistica cartesiana del soggetto, in una sorta di rivoluzione copernicana, affascinante e ricca di stimoli per nuovi percorsi.
“Dove sono i tuoi diamanti?” Disse Beloved, scrutando il volto di Sethe.
“Diamanti? E che ci faccio io, coi diamanti?”
“Alle orecchie.”
“Magari. Una volta li avevo di cristallo. Un regalo della signora dove lavoravo.”
“Racconta”, disse Beloved, con un largo sorriso. “Raccontami dei tuoi diamanti.”
Divenne un modo di nutrirla (…)
Ma non appena cominciò a raccontare dei suoi orecchini si accorse che voleva farlo, che le faceva piacere. Forse era l’estraneità di Beloved a quei fatti, o forse la sua sete di ascoltare – a ogni modo, per lei era un piacere inatteso.
(Toni Morrison, Beloved, 1987)