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“Il sentimento del reale” di D. Winnicott. A cura di S. Boffito e A. Ferruta. Commento di A. Cordioli

14/03/25
"Il sentimento del reale" di D. Winnicott. A cura di S. Boffito e A. Ferruta. Commento di A. Cordioli

Le parole chiave: Winnicott, creatività, reverie, reale, primitivo

“Il sentimento del reale. Scritti inediti” di Donald Winnicott.

A cura di Sara Boffito e Anna Ferruta.

Commento di Anna Cordioli

Titolo: “Il sentimento del reale. Scritti Inediti”

Autore: Donald Winnicott

Curatrici: Sara Boffito, Anna Ferruta

Edizione italiana: Raffaello Cortina, 2025

A questo punto sentii di sapere e che c’era qualcosa che dovevo dire” (ibid, 141).

A inizio 2025, grazie alla cura filologica ed editoriale di Anna Ferruta e Sara Boffito, è uscito per Raffaello Cortina un nuovo libro che pubblica in italiano alcuni scritti inediti di Winnicott.

Il testo alterna articoli, pezzi di discorsi e appunti sparsi, che offrono al lettore non tanto degli oggetti raffinatamente conclusi, quanto più il senso di un processo in corso nella mente del grande psicoanalista.

Mi viene in mente un ricordo riportato da Marion Milner (1987): “Questa è l’immagine che ho di Winnicott. 

Spesso in quegli anni, quando avevamo un po’ di tempo e organizzavamo un incontro per discutere qualche problema teorico, egli apriva la porta, entrava e girava dappertutto, fischiettando, dimenticando qualche cosa, correndo al piano di sopra, facendo un frastuono generale, rendendomi impaziente nell’attesa che si sistemasse.

Gradualmente, arrivai a capire che questi erano i preliminari necessari a quegli impetuosi guizzi della sua intuizione che sempre seguivano.

Egli ne ha di fatto spiegato la ragione in uno dei suoi articoli, in cui parla della necessità, in analisi, di riconoscere e permettere delle fasi di assurdità, durante le quali non si dovrebbe cercare alcun filo nel materiale del paziente, perché quello che si sta svolgendo è caos preliminare, la fase iniziale del processo creativo.” (312).

Quando penso a Winnicott lo immagino proprio così: mentre si muove da una stanza all’altra della sua mente, incontrando o inseguendo qualche “Lampo d’intuito” (glimpse). Ho trovato molto bello che, a termine di ognuna delle cinque parti tematiche in cui è diviso il libro, ci siano delle pagine chiamate proprio “Glimpse”, in cui vengono raccolti alcuni brevi appunti, dal tratto aforistico, partoriti dal genio di Winnicott. Il suo metodo di esplorazione, un po’ come racconta Milner, si componeva di esperienze di incontro e tempi di deposito, da cui emergeva, dunque una formulazione nuova attraverso cui guardare.

Questo è un tipo di ascolto che è composto di tempi successivi all’incontro e precedenti alla teorizzazione. Questo processo, non certo del tutto volontario, sfrutta le capacità di regressione funzionale dell’Io (la rêverie), per poter ascoltare sensazioni o proto-rappresentazioni che non sono ancora divenute dominio della coscienza.

La si può immaginare come la capacità di lasciare che un fiume scenda nelle profondità della psiche si arricchisca, e ci arricchisca, fino al punto da poter infine risalire in superficie come in una risorgiva che, sospinta da un moto creativo, ci permetta di avere un nuovo contatto con un contenuto divenuto cosciente. Winnicott attribuiva questa capacità principalmente all’artista e ne stabiliva, dunque, la relazione con il processo creativo in sè: “Questo problema può essere riformulato nei termini del lavoro dell’artista, che è molto diverso dal lavoro dell’allucinazione in quanto c’è una azione deliberata [deliberate action]. L’aspetto più prezioso del lavoro dell’artista sta proprio nel punto in cui l’attività inspiegabile che proviene dall’inconscio viene trascinata nella coscienza da un momento di azione deliberata [acting] che rimane la stessa dell’azione che sarebbe stata determinata inconsciamente.” (ibid, 92).

Questa descrizione è di incredibile interesse poiché sembra dire che questo processo sia reso possibile per effetto di una sorta di belle indifferance (e infatti troviamo la frase nel capitolo sul carattere isterico), in cui l’artista e il pensatore creativo abbia sviluppato un contatto tale tra le sue parti da poter demandare ad una parte profonda il compito di perlaborare un’esperienza mentre la coscienza si occupa di altro. L’idea mi sembra molto convincente almeno per un certo genere di processi creativi e apre, per altro, all’immenso discorso su come non ci possa essere una vivacità psichica senza il coinvolgimento delle difese.

In questo scenario, in cui l’Io ha il compito di comprendere cose ancora incomprensibili ma lascerà che se ne occupi la sua parte inconscia, l’immagine di Winnicott che fa confusione tra un piano e l’altro, fischiettando, mi pare che possa essere una graziosa descrizione di come tutto questo possa essere visto da fuori.

Non si pensi, però, che questo ci parli “solo” di processo creativo, ma ci parla anche della ricerca di comprendere il modo stessi in cui “la vita psichica prende forma”. Ciò che accomuna i vari scritti inediti, contenuti nel libro, è infatti la costruzione del contatto con la realtà.

Winnicott ci mostra quanto le relazioni primarie abbiano un impatto profondissimo nel rapporto psiche-soma. E’ in quel territorio precocissimo, che appare il “reale”, come fosse il frutto di un sogno o di un incubo dentro cui il bambino si sveglia. Per cercare di ascoltare e comprendere questi stati primari e aurorali, si cercano strade fatte di ascolti altrettanto primordiali della mente, con coraggio.

Not less than everything”

Un passaggio dell’introduzione alla seconda sezione, rivela un tema che ho sentito molto presente nella raccolta degli articoli; Boffito scrive: ”Gli appunti su ‘L’inconscio’ del 1953, trovati tra le carte di Andrea Giannakoulas, sono un piccolo tesoro” (67).

E’ una frase piccolissima, specie se comparata alla pregnanza delle riflessioni che la seguono, ma è anche una frase che rivela l’adesione ad un metodo. L’immagine che mi si staglia in mente è ora quella di una serie di cercatori di tesori, quand’anche piccoli. Si cerca tra le carte, tra i ricordi, tra le cose della vita date già per scontate e di cui si crede di sapere già tutto; si cerca frugando in quello che taluni possono pensare sia ovvio o residuale. Ma perché farlo? Perché credere ancora che ci possano essere tesori?

Winnicott sembra rispondere a pagina 235: “Senza qualcosa che vale, non c’è niente che vale. E questo qualcosa e’ la compassione”, intesa qui come il sentirsi di condividere l’essere con l’Altro. Non si possono trovare tesori se non si ritiene che ce ne siano, se non si sente di venire arricchiti (anche nel dolore) da un incontro.

Ferruta e Boffito, sono delle attente lettrici di questi lavori preparatori, sbagliando si direbbe “minori”, e intercettano pensieri nascenti che sono stati poi destinati a cambiare la psicoanalisi. Alcuni di questi concetti, appaiono anche più nitidi che altrove, grazie al lavoro di emersione che Winnicott stava facendo in taluni scritti. Un esempio imperdibile è il concetto di primitivo che qui vediamo ben distinto da primario. Boffito scrive: “La sovrapposizione tra “primitivo” e “primario”, se da una parte è comprensibile in termini cronologici, dall’altra apre a una confusione concettuale. Il primitivo per Winnicott non riguarda il venire prima, le relazioni precoci. E una qualità dell’esperienza. Ha a che fare con la ferocia, con la spietatezza (che precede la pietà, o la commozione), con l’amore in una forma che per lui è sana, appartiene allo sviluppo.

Nello scritto “Primitive emotional development”, così come negli “Appunti” contenuti in questo volume, l’aggettivo primary (‘primario’) viene utilizzato da Winnicott in modo preciso e distinto da primitive (‘primitivo’)” (Boffito, Ibid. 11).

E’ veramente interessante come il cambio di parole, offra un decisivo cambio di orizzonti. Capita così, leggendo questo testo, di ritrovare un Winnicott al lavoro su dettagli clinici e teorici , capita di ripensarlo, puntualizzare dentro di noi cosa avevamo capito e cosa avevamo pensato fosse differente.

I capitoli del libro offrono al lettore incontri con parole significative, emerse dal lavoro di Winnicott: “primitivo”, ma anche “unconsciousness”, “arista” o “marchingegno”.Ciò che vediamo non sono solo le intuizioni ma anche i processi e la fatica della tenuta analitica. Questo si vede particolarmente nelle lettere scritte ai colleghi. Come ci mostra Ferruta (Ibid 161-168), lo psicoanalista inglese mostra il suo tentativo di “Tenere assieme tutto questo” ovvero il lavoro teorico clinico (in particolare sulle fasi primitive dello sviluppo psichico), la responsabilità di far parte del processo culturale del suo tempo e anche lo sforzo metodologico di lavorare sulla psicoanalisi come base per una scienza veramente etica. Ho molto amato il passo in cui Winnicott dice: “La formazione psicoanalitica è stata necessaria per arrivare a una psicologia che sia scienza e che conservi l’idea della dignità dell’individuo umano”(42).

Ho, infine, amato la parte quinta del libro, in cui si disvelano alcuni scritti del Winnicott privato. Ho amato i suoi piccoli racconti che mi hanno fatto pensare ad altre storie e altre narrazioni: l’inizio di “Chard pill” mi ha fatto pensare a “The catcher in the rye”, “L’Albero Gwrw” ad un personaggio dei “Guardiani della galassia”, e “Il sognatore ad occhi aperti” mi ha ricordato l’infanzia di Neruda. Attraverso questi (ed altri) scritti contenuti in questo volume, mi è sembrato che Winnicott avesse, attraversato tutto il secolo (anche oltre alla sua morte), rimanendo immerso nella cultura [1], fino a farsi sognatore e narratore di temi coraggiosamente attuali.

Negli scritti inediti contenuti in questo libro si trovano temi enormi anche legati alla vita nella società, come il rapporto tra la libertà e la capacità di vigilare sulle proprie passioni. Winnicott ci appare in grado di tenere assieme tutte queste dimensioni così varie, proprio grazie a quel metodo strano che aveva di preparare un intervento pubblico: fischiettando, spostandosi da un piano all’altro, facendosi sentire mentre giocava.

Questo tipo di persona era Winnicott: il day-dreamer che viene trasportato dal desiderio di diventare altro, che non tiene conto della realtà, e il medico compassionevole, sempre in contatto con le perdite del sentimento del reale provocate da ogni forma di guerra, anche quella contro le malattie combattuta dai suoi piccoli pazienti del Paddington Green Children’s Hospital.”(Ferruta, ibid, 228).

Buona lettura.

Note:

[1] Penso anche ad un racconto, di recente pubblicazione, che prende le mosse dall’amore che Winnicott aveva per i Beatles. [In Gonella V (2025) Psicoanalisi e Rock sulle tracce del trauma, Roma, Alpes]

Bibliografia:

Marion Milner (1987) La follia rimossa delle persone sane, Roma, Borla, 1992

Winnicott D. (2025) “Il sentimento del reale. Scritti Inediti”, Milano, Cortina Editore

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