Lucantoni C., Catarci P., Il filo di Arianna. Il posto della scrittura nella psicoanalisi. Milano, FrancoAngeli, 2016.
Gianluigi Monniello
Il libro, fresco di stampa, di Cinzia Lucantoni e Paola Catarci affronta un tema di naturale e vasto interesse per lo psicoanalista. Si tratta di un libro molto riflettuto e, al contempo, dal respiro leggero che esita in un vero e proprio elogio della scrittura in psicoanalisi. Il lettore potrà giovarsi della chiarezza delle Autrici nel rivelare i processi di pensiero che le hanno orientate, senza correre alcun rischio di saturare la propria propensione ad interrogarsi o di vedere condizionata una propria lettura che lasci il pensiero “fluttuare liberamente”. Piuttosto l’evocazione della soggettiva esperienza delle Autrici ha il pregio, proprio per lo stile insaturo che caratterizza questo testo, coerentemente con la specificità del tema prescelto, di facilitare la pensabilità. Le Autrici delineano una traiettoria di tale via comunicativa dal suo abbozzarsi, costruirsi e modificarsi, immergendosi nell’incompiutezza del suo continuo divenire. Quanto è stato profondamente interiorizzato è che lo scrivere costituisce e attraversa la preistoria e la storia della psicoanalisi. Basti pensare al ricco carteggio tra Freud e Fliess, carteggio da cui ha preso l’avvio l’attività autoanalitica del fondatore della psicoanalisi.
Il volume è profondamente psicoanalitico per lo stile che lo pervade. Il punto di vista di Lucantoni e Catarci su questo ampio argomento è erratico e solo alla fine del volume, nel capitolo Stile, è delineata una sorta di sintesi del loro percorso di scrittrici di psicoanalisi. La qualità della scrittura delle Autrici consiste nel segnalarsi con il carattere del tratteggio e, al contempo, nel costituire processualmente, un punto d’arrivo peraltro in movimento e provvisorio. L’interrogativo costante, fonte di mobilità psichica per lo psicoanalista è, in fondo, se un certo stile della scrittura in psicoanalisi “non solo contenga ed esprima la soggettività dello scrivente, ma possa consentire quello che è il compito dell’analisi stessa, favorire l’emergere della soggettività della persona” (p. 131).
Tolstoj ha scritto che “le narrazioni fondamentali sono solo due: una persona in viaggio e uno straniero che arriva in città o in un gruppo chiuso. Al primo caso appartengono l’Odissea e l’Amleto. Al secondo ogni storia messianica” (Intervista a Edna O’Brien, la Repubblica, 26 aprile 2016). Ritengo che questa visione del grande scrittore russo possa costituire una prima cornice per salutare la pubblicazione del libro Il filo di Arianna, di Cinzia Lucantoni e Paola Catarci, appassionate viaggiatrici del territorio psicoanalitico e visitatrici attente degli insediamenti esistenti.
Ma partiamo dall’inizio. La scelta del titolo è già indicativa della dedizione e del punto di vista delle Autrici. Il filo di Arianna invita infatti il lettore ad inoltrarsi in un labirinto fatto di considerazioni sulla scrittura, sulle motivazioni profonde che sospingono lo psicoanalista a riempire il foglio bianco e a sostare sui vissuti legati al “movimento comunicativo” con il paziente. Il filo di Arianna del libro è mantenuto ben stretto. Le Autrici allontanandosi dal noto simbolismo a carattere sessuale di versare inchiostro nell’atto di scrivere, tratta appieno l’argomento senza alcun rischio di perdersi nella ricerca di trovare/creare la strada percorsa inconsapevolmente e consapevolmente dall’attività psichica dei protagonisti della coppia analitica.
L’attenzione alla dimensione topica più chiamata in causa nell’atto di scrivere è indicata dalla scelta del sottotitolo: Il posto della scrittura, che sottolinea la componente preconscia dello scrivere da parte dell’analista. Il suo preconscio è ampiamente in gioco, interrogato e sollecitato a mettersi al servizio del processo di scrittura e analitico. Il primo capitolo Perché scrivere ? ben trasmette come, mentre scrivono, Lucantoni e Catarci siano capaci di sostare e di vivere in uno state of writing (Odgen, 2005), “una condizione psichica particolare, allo stesso tempo di meditazione e di corpo a corpo con il linguaggio” (p. 21).
I temi sono trattati nella loro essenza, aprono alla riflessione chi legge. Il tema degli affetti è il dichiarato primum movens delle Autrici, peraltro ampiamente esplicitato. Lo scrivere ha preso inizio dal profondo affetto e dal senso di gratitudine nei riguardi dei loro maestri. Le Autrici scrivono, in ultima analisi, per amore dei loro referenti clinici e teorici, che hanno contribuito alla costruzione della loro identità di psicoanaliste. Scrivere diventa dunque un “movimento comunicativo” che sospinge lo scrivente a dialogare con svariati interlocutori interni. Tale movimento costruisce il lessico e la ricchezza ogni volta del tutto personali e originali. La spinta a scrivere attinge alle infinite sfumature delle “soggettività dell’asse transfert-controtransfert” (p. 27). È ricordata una efficace espressione di Pontalis (1986) che segnala la necessità per l’analista/scrivente di “inventare quello che è”. Non si tratta dunque né di mettere per iscritto una registrazione stenografica né i fatti né una storia inventata. L’intento delle Autrici va oltre nel senso che la scrittura è una componente del lavoro psicoanalitico ed è, al contempo, l’oggetto di una silenziosa e sotterranea interpretazione psicoanalitica.
L’argomento del libro è considerato in tutta la sua complessità, trattato con cauta serenità e soprattutto con una scrittura chiara e colloquiale. Il percorso proposto al lettore è caratterizzato da un certo numero di tratti di strada (11 brevi e densi Capitoli con il loro titolo), inframezzati da altrettante rotonde che, ogni volta, immettono in nuovi territori da percorrere.
La ricerca di sé, il processo di soggettivazione (che illumina il pensiero delle Autrici) è ben espresso e risuona nell’esergo, che riporta una citazione di Calvino: “In un certo senso, credo che sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi” (Calvino 1983). Pertanto scrivere è una “verità ludica”, una sosta nel “regno di mezzo”, uno stato “erratico” della mente (p. 21), “un’urgenza e una necessità” (p. 22), “paradossale continuazione e liberazione dal transfert” (p.23), “scrivere come completamento del sogno”.
In riferimento ad una composizione pittorico/artistica il libro può, a mio avviso, essere paragonato ad un mosaico. Si tratta di tante tessere, scelte una ad una e nel tempo, di un’opera paziente degna delle Muse, (dal greco musaikòn). I diversi Capitoli delineano le diverse sfaccettature del tema ed hanno, ciascuno, un titolo evocativo e creativo. Ognuno può essere letto singolarmente in quanto ciascuno affronta uno dei diversi momenti che vive chi si accinge a redigere uno scritto psicoanalitico. In particolare Fiction, no-fiction, Scrittura e transfert, Il lettore virtuale, Il foglio Bianco, Raccontare la propria analisi.
Ad esempio il Capitolo Memoria, scrittura elaborazione è dedicato agli effetti benefici o velenosi insiti nella scrittura, che si giocano nell’articolazione tra processo simbolico e affetto inconscio. I punti di riferimento sono il mito di Theuth e il lavoro di Semi (1993), Scrivere la psicoanalisi. A proposito del mito le Autrici ricordano al lettore che Socrate racconta che Theuth, l’ingegnosa divinità egizia, si recò presso re Thamus, allora sovrano dell’Egitto, per sottoporgli le proprie invenzioni. Quando Theuth propose a Thamus l’arte della scrittura, la divinità si espresse con queste parole: “Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco delle memoria e della sapienza. La risposta del re non tardò ad arrivare: “O ingegnosissimo Theuth c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti”. Le Autrici dialogando con Semi (1993) optano con originalità per “una potenzialità insita nella scrittura psicoanalitica”, segnalandola come “un esercizio possibile di narrazione che attraverso le metafore e le immagini che evoca può rivelare qualcosa di noi stessi e del processo analitico di cui scriviamo” (p. 43).
Segnalo inoltre, tra gli altri, il Capitolo Si può insegnare a scrivere?, in particolare per essere l’esito di un gruppo continuativo di studio e di ricerca condotto da una delle Autrici, dedicato a Colleghi che sono chiamati a scrivere per i loro passaggi istituzionali, o che intendono cimentarsi nella scrittura di casi clinici o teorico/clinici. Il Capitolo ovviamente non offre linee guida ma aiuta ad assumere la posizione nella quale porsi per pensare e comunicare a se stessi, ai pazienti e all’eventuale lettore. Il riferimento è comunque quello del lavoro di Bernstein (2008), che segnala come, nello scrivere un resoconto clinico, si debba tener conto di una struttura-base composta di tre parti; la prima è esperienziale (descrizione e scambio verbale), la seconda è di riflessione e la terza è la transizione narrativa che fa da ponte tra le prime due e la parte seguente che riferisce “il processo, i cambiamenti interni alla relazione terapeutica ed eventualmente quelli nella realtà di vita del paziente” (p. 66).
Un Capitolo a sé particolarmente stimolante e ricco di curiosità lessicali è Tradurre tradire, che ripercorre le diverse vicissitudini e le relative conseguenze della traduzione delle Opere di Freud nelle diverse lingue, in particolare la Standard Edition, la traduzione in francese e quella in italiano. Assoun parla di un inconscio traduttologo, cioè tradurre metterebbe in moto il transfert. Scrive (2015): “Il traduttore, come il lettore e il commentatore, è sotto transfert dell’opera che traduce. Non c’è modo più materiale per intrattenersi con un’opera e il suo autore. […] Essere sotto transfert del testo, significa essere in risonanza con le voci del testo. Queste voci che ogni lettore sente risuonare, che lui stesso fa risuonare, attuando la lettera del testo, sono voci che, pur ben intese, non hanno suono. È la dimensione inconscia della voce” (p. 315).
Resta inesplorata, invece, la traduzione in spagnolo, altrettanto importante per lo sviluppo del pensiero psicoanalitico internazionale. Ma di questo altro possibile “tradimento” le Autrici forse scriveranno in una nuova occasione.
In breve sintesi quale è l’inevitabile prospettiva del traduttore se non quella dell’albero, che impedisce di vedere la foresta? Scrive Bodini (1956), gran traduttore del Don Chisciotte della Mancia, di Miguel de Cervantes: “Sia dunque, e cerchiamo, per quel che si può, di seguire la prospettiva dell’albero, con tutte le umiliazioni che esso comporta” (p. XXI). Questo mi ha suggerito il Capitolo Tradurre e tradire di Lucantoni e Catarci.
Grande merito del libro Il filo di Arianna sta nelle forza che ha in sé di evocare interrogativi, di invitare a pensare, di generare improvvisi squarci di messa a fuoco di intuizioni mai pienamente sedimentate.
Accenno ad alcuni temi di riflessione che si sono messi in moto dentro di me leggendo questo prezioso testo.
Ad esempio quale potrebbe essere il peso specifico del romanzo familiare di ciascuno di noi sulla nostra propensione a scrivere?
Scrive de Mijolla A. (2004): “In un momento decisivo dello sviluppo del bambino, tre operazioni mentali, giudizio, attività fantastiche ed esercizio della funzione di sapere, si associano e si condensano per dare alla luce una nuova produzione in un canovaccio originale di cui non abbiamo ancora sottolineato a sufficienza il carattere rivoluzionario tra le creazioni della psiche: ‘il romanzo familiare’. […] Il romanzo familiare rappresenta prima di tutto una tappa dello sviluppo del pensiero, rispetto alla quale si sono analizzati più i mutamenti che provoca nelle relazioni familiari e immaginarie del soggetto, che quel che comporta per il soggetto stesso quel che rivela della sua evoluzione mentale” (p. 71).
Riconosciuto come modello della creazione romanzesca, mi sembra che il romanzo familiare mantenga un ruolo fondante in tutte le attività psichiche che privilegiano i processi di pensiero. Tale riferimento di Freud potrebbe costituire una spinta originaria alla scrittura? Scrive ancora de Mijolla: “Il soggetto si trova lacerato tra il desiderio di conformarsi al racconto familiare ufficiale […] e l’avidità pulsionale […] a saperne di più e ad accumulare le informazioni contrarie alle menzogne genitoriali e ai loro ‘segreti’” (de Mijolla, 2004, p. 71). Sarebbe questa la dimensione in cui lo scrivere potrebbe giocare la sua parte? In particolare, per lo psicoanalista, lo scrivere è certamente un’insostituibile opportunità per scoprire, per dare forma a qualcosa che può essere sì dicibile ma che non è vivibile e che proprio per questo sfugge continuamente.
Un altro grande interrogativo potrebbe riguardare quanto lo scrivere sia indispensabile al lavoro analitico e alla psicoanalisi fino all’idea grandiosa di diventare psicoanalista scrivendo, sull’esempio di Freud o, invece, tutto può avvenire senza memoria e senza desiderio di sapere?
Inoltre potrebbe essere utile per il processo analitico, in alcuni casi, che il paziente avesse accesso a quanto l’analista ha scritto su di lui?
In altri casi quanto potrebbe essere utile e a quale livello, chiedere il permesso al paziente di scrivere su di lui in una sua pubblicazione?
Quale il valore di sentirsi descritti dal proprio analista per il processo analitico?
Del resto, fino ad ora, l’esperienza della scrittura è soprattutto soggettivante per l’analista (p. 131) e per il processo analitico. Emblematico a tale proposito è il testo pubblicato sull’International Journal of Psycho-analysis (Kohut, 1979), The two Analysis of Mr Z, caso clinico descritto da Heinz Kohut. Che il signor Z sia, in realtà lo stesso Kohut, è oramai fuori di dubbio (Strozier, 2001). In questo caso è esplicitamente l’analista a raccontare la propria analisi. Quante volte ciò avviene implicitamente o non viene consapevolmente detto? Ma viene da chiedersi, riprendendo le parole di Rudolf Abel, spia russa a Berlino, nel film Il ponte delle spie (Spielberg, 2015): Cambierebbe qualcosa?
Concludo queste note sul libro che Cinzia Lucantoni e Paola Catarci offrono generosamente ai loro lettori, con alcuni loro passaggi che spero sollecitino l’interesse che il volume Il filo di Arianna merita.
Scrivere fa bene al processo analitico e al processo di soggettivazione. Questa è la posizione che le Autrici assumono di fronte all’interrogativo iniziale posto nel Capitolo Perché la scrittura? A tale proposito come non pensare a quanto sia emozionante e significativo per l’adolescente scrivere un diario per sé e, senza dubbio, per qualcun altro?
Attraverso il lavoro di scrittura l’analista torna ed è richiamato ad essere garante del processo analitico e del transfert.
Il libro è arricchito dalla presentazione scritta di materiale clinico e da una raffinata cura per l’arte dello scrivere. Bellissimo il passaggio sul congiuntivo: “Il congiuntivo indica una possibilità al posto di una certezza, segnala la soggettività e il rispetto di un’alterità (p. 56).
Il libro è un ottimo esempio di capacità evocativa dello scritto analitico che riesce a suscitare nel lettore, “qualcosa in più” del semplice interesse.
Come scrivono “con sicuro convincimento” le Autrici: “Nella scrittura assistiamo […] ad un’emersione delle parole che evocano, alimentano, nutrono consentono il contatto con […] la quota inconscia vitale, presente negli uomini fino alla loro morte” (p. 42).
Bibliografia
Assoun P.-L (2015). Il desiderio del traduttore. L’inconscio traduttologo. Psiche, II, 2, 303-319.
Bernstein S.B. (2008).Writing About the Psychoanalytic Process. Psychoanalytic Inquiry, 28, 433-449.
Bodini V. (!956). Introduzione. Don Chisciotte della Mancia, di Miguel de Cervantes. Milano Einaudi, 1957.
Calvino I. (1983). Mondo scritto e mondo non scritto. Milano, Mondadori, 2002.
Kohut H. (1979). The Two Analysis of Mister Z. International Journal Psycho-Analysis, 60, 3-27.
O’Brien E. (2016). Intervista a Edna O’Brien, la Repubblica, 26 aprile 2016.
Ogden T.H. (2005). On psychoanalytic Writing. International Journal of Psycho-analysis, 86, 15-19.
Semi A. (1993), Scrivere la psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi, 39, 567-587.
Strozier C.B. (2001). Heinz Kohut. Biografia di uno psicoanalista. Roma, Casa Editrice Astrolabio, 2005.