Parole chiave: Psicoanalisi, Freud, narrazione, narrazioni, interpretazioni, costruzioni, Di Chiara
Il dono dell’altro. Verso il narratore psicoanalitico
di Giuseppe Di Chiara
(Jaca Book ed., 2024)
Recensione a cura di Roberto Musella
Giuseppe Di Chiara nel volume, Il dono dell’altro: verso il narratore psicoanalitico, che raccoglie molti suoi scritti che vanno dal 1975 al 2024, rivela di avere l’abitudine di trascrivere uno dopo l’altro i sogni delle analisi che conduce, consapevole che questi contengano la traccia di una storia. Si domanda poi, giustamente, se anche il lavoro di scrittura di uno psicoanalista, nel tempo, conduca ad una forma di narrazione. Comprendendo e condividendo entrambe le esigenze, esposte da Di Chiara, mi sono venute immediatamente in mente le parole evocative di J.L. Borges in epilogo alle pagine dell’Artefice:
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di cavalli, di persone. Poco prima di morire, scopre che questo paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Confesso che la metafora di Borges mi è venuta prepotentemente a visitare leggendo Il dono dell’altro. Il senso che traggo dalla visita inattesa dell’altro è che la produzione teorico-scientifica di uno psicoanalista mette in forma la geografia del proprio apparato psichico, disegnandone nel tempo il profilo.
Il profilo di Di Chiara suggerito dal suo stesso volume prende corpo dalla creatività e attraversando la dimensione onirica del viaggio analitico giunge al ruolo chiave delle costruzioni e delle interpretazioni per approdare, infine, al narratore psicoanalitico.
Mi è dispiaciuto, confesso, non trovare nella raccolta, oggetto della presente recensione, un lavoro di Di Chiara, che avevo molto apprezzato, dal titolo L’amore nell’esperienza psicoanalitica, contenuto nel volume Psicoanalisi dell’amore a cura di D.N. Stern e M. Ammanniti, del quale mi trovai a parlare molti anni fa con Riolo. Confessai allora a Riolo che sentivo, in quel lavoro di Di Chiara, la psicoanalisi farsi materia viva che alimentava passioni e conteneva affetti che si trasmettevano in eredità agli analisti, di generazione in generazione.
In un tempo, ahimè altrettanto lontano, misi mano alla mia tesi di specializzazione in psichiatria dal titolo “Poesia, creatività e psicoanalisi” prendendo le mosse dal lavoro di Di Chiara Narcisismo, onnipotenza e creatività, pubblicato sulla nostra Rivista (con la copertina gialla che ancora conservo) che apre il volume oggetto della presente recensione. Gli snodi concettuali contenuti in questo primo lavoro si svilupperanno progressivamente negli anni successivi dell’opera dell’autore. È necessaria una base narcisistica stabile per sviluppare la capacità di coltivare la solitudine creativa, alla quale si oppongono impedimenti intrapsichici, tra i quali offese precoci all’onnipotenza e al narcisismo, che la psicoanalisi deve aiutare a sciogliere e superare. Per arrivare alla capacità di essere creativi nella propria solitudine, concetto che ovviamente strizza l’occhio a Winnicott, bisogna attraversare un elemento centrale di ogni esperienza psicoanalitica: la separazione. Tre anni orsono, al XX congresso della SPI, Dominique Scarfone presentò un contributo dal titolo “Sognare solo in presenza dell’altro”. Nel lavoro di Scarfone il soggetto risulta sospeso tra la fuga dall’oggetto persecutorio e la capacità di essere solo in presenza dell’altro. Solitudine spaventosa da cui ci si difende attraverso il narcisismo adesivo e l’identificazione proiettiva con le sue valenze negative, volte a denegare la separazione e quelle positive alla base della comunicazione profonda e della creatività, come propone di Di Chiara nel saggio su L’identificazione proiettiva normale e patologica. La psicoanalisi è divisa tra l’esigenza di separare il soggetto dagli oggetti arcaici e quella di cercare un rifugio narcisistico vitale foriero di creatività. Qui giunge il ruolo centrale dell’interpretazione in analisi. Interpretazione che opera il taglio necessario per introdurre la soggettività.
Dal punto di vista dell’analista la creatività è all’opera tanto nell’interpretazione quanto nella costruzione, dove si libera nella sua potenzialità, che Freud descriveva come erraten (indovinare), fino ad arrivare alla narrazione psicoanalitica, contributo più originale dell’opera Di Chiara.
Freud ci insegna con la sua famosa dichiarazione a Fliess “non credo più ai miei neurotica” che la verità che cerchiamo in analisi non è quella storica, o non solo quella, ma la realtà psichica, che è ben altra cosa. Ci è noto che Freud alternò sempre la ricerca dell’una e dell’altra, realtà storica e realtà psichica, che a loro volta si alternano nella dimensione imprescindibile con la quale ci confrontiamo quotidianamente nella stanza di analisi, il transfert. Transfert che può farci comprendere molto, ricadendo anch’esso, inevitabilmente, nel dualismo sospeso tra la storia e il fantasma, come dimostrano i transfert dei nostri pazienti. Qual è il peso della persona ‘reale’ dell’analista nella stanza di analisi? Dove è finita la conoscenza, la verità storica da recuperare del primo Freud, l’elemento K di Bion, il quale afferma che la salute psichica dipende dalla verità come l’organismo dal cibo? Sono queste, altre rilevanti questioni messe al lavoro nel libro di Di Chiara.
L’inconscio non si limita più ad essere luogo da ripulire secondo la ben nota metafora del chimney sweeping freudiano ma diventa alleato da sfruttare in analisi, e quale eredità di un’analisi riuscita, fonte di straordinarie potenzialità cui attingere. Passaggio epocale che nell’opera freudiana si compie dal necessario compito psicoanalitico di rendere conscio l’inconscio a quello del definitivo dislocamento del soggetto che lo porta ad abitare la sua alterità secondo il ben noto aforisma freudiano, diversamente e creativamente interpretato, Wo Es war soll Ich werden.
Il libro affronta temi rilevanti di tecnica psicoanalitica e della sua relativa trasmissione negli istituti di training. L’autore, nel saggio Costruzione e interpretazione, mette in sequenza la creazione del campo analitico, la produzione delle rappresentazioni, la costruzione della narrazione e l’interpretazione come gli strumenti necessari per impostare e condurre un’analisi. Di Chiara sembra integrare il modello metapsicologico freudiano, a partire dalla necessità dell’atto interpretativo di legare le rappresentazioni di parola e quelle di cosa facendo pulsare i neuroni dell’analizzando come fosse lui stesso a parlare (Napolitano), al modello estetico meltzeriano cui ampiamente si ispira, a quello bioniano della rêverie, a quello ferriano delle narrazioni, con brevi ma efficaci esemplificazioni cliniche a sostegno del percorso che va, via via, delineando.
Per giungere, infine, a quella che appare la componente più originale dell’opera di Di Chiara, il punto di arrivo di una ricerca cinquantennale: il narratore psicoanalitico. Un’istanza intrapsichica che governa le esigenze dell’Io, dell’Es e del Super Io, un’istanza che mutuata dall’intima relazione con l’altro si propone per l’autore come obiettivo da raggiungere in analisi. Attraverso il proprio narratore interno, l’analista indirizza la cura cercando e contemporaneamente, liberando le resistenze e co-creando il narratore, prendendosi cura del narratore psicoanalitico del paziente. Quel narratore che, a cura finita, dovrà proseguire da solo creativamente il percorso intrapreso. Un’analisi, afferma Di Chiara, si comincia perché il narratore è in difficoltà, ha disatteso il suo compito, è stato sopraffatto da istanze supereroiche compiacenti o tiranniche, lasciando l’Io solo, minacciato e indifeso. Ritrovare il narratore è obiettivo ultimo dell’analisi perché senza di esso si abita nel caos e nell’angoscia.
Ispirato dalla teoria del narratore psicoanalitico, mi piace concludere questa mia recensione al volume evocativo di Di Chiara, con i noti versi di Anna Achmàtova che descrivono la forza della poesia contro la paralisi psichica indotta dal grande terrore staliniano:
“Nei terribili anni della “ezòvscina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può raccontare questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto”.