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Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile di C. Cimino (2015). Recensione di Laura Contran

15/02/16

Cristiana Cimino (2015)

Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile

Manifestolibri

Gli interrogativi che l’Autrice pone nell’introduzione a “Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile”, costituiscono il filo conduttore del suo percorso di scrittura. Interrogativi, peraltro, che ci riguardano a più livelli in quanto persone, in quanto psicoanalisti, in quanto soggetti politici.

Come Freud stesso sosteneva, l’amore, nelle sue varie forme e défaillances, illusioni e fallimenti, è una delle principali cause della sofferenza e delle inquietudini umane e uno dei motivi che porta a una domanda di cura. Poiché, inevitabilmente, l’amore ci pone a confronto con l’alterità e allo stesso tempo con il nostro narcisismo, matrice delle nostre scelte oggettuali.

La complessità del tema viene affrontata dall’Autrice in modo aperto, critico e senza banalizzazioni. Oltre a riprendere i testi di Freud, Cristiana Cimino propone una serie di riflessioni ricavate dall’insegnamento di Jacques Lacan il quale, come noto, è un autore dallo stile “labirintico” che procede nella teoria senza tenere una vera e propria linea di continuità. Così, inaspettatamente, egli introduce del nuovo, dell’inedito, come se fosse la ripetizione di un “già detto”. Qualcosa si ripete, ma con uno scarto che introduce un nuovo significato.  Nel legare-slegare i fili del discorso di Lacan, attraverso gli Scritti e i Seminari, l’impresa di Cimino è stata una sfida senza dubbio impegnativa e il risultato merita un’attenta lettura.

Seguendo la traccia indicata nel libro, inizierei da Freud il quale su questo tema, nelle sue molteplici sfaccettature, ha dimostrato sia la propria genialità intuitiva sia capacità di riconoscere, con grande onestà intellettuale, che alcune domande che si andava ponendo sarebbero rimaste senza una risposta soddisfacente .

Una breve, ma non irrilevante annotazione storica. Sappiamo quanto siano state contestate, soprattutto in ambito femminista, le tesi di Freud il quale “[…] non avrebbe saputo fare di meglio che rapportare alla donna l’unità di misura che vale per l’uomo: vale a dire il fallocentrismo” (C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne, 2005,14) mettendola in una posizione di svantaggio. Freud resta nell’ordine del fallo-pene organo di cui il maschio è provvisto e la femmina no. Insomma la privazione è reale e l’anatomia è un destino.

Mentre l’Edipo freudiano risponde alla domanda su come possa un uomo amare sessualmente una donna: deve rinunciare all’oggetto primordiale, la madre, afferma molto chiaramente Freud, dal lato femminile le cose non procedono con la stessa linearità. Ed è proprio nel chiedersi “Che cosa vuole una donna?” che egli riconosce lo scacco del suo tentativo, giungendo ad affermare che l’Edipo fa l’uomo ma non la donna. L’Edipo, come sottolinea l’Autrice non è simmetrico nei due sessi (41). Certo Freud in modo non convincente (ma lui stesso dichiarava il suo disorientamento di fronte al dark continent rappresentato dal desiderio femminile) arriva a una soluzione affrettata e deludente: per la donna il “fallo mancante non può che essere sostituito da un bambino donato dal padre” (41).

Sarà Jacques Lacan (al quale peraltro non sono state risparmiate le critiche già rivolte a Freud) che trent’anni dopo, nel rivedere le tesi freudiane, farà un passo ulteriore ripensando ciò che costituisce la specificità della femminilità e ciò che ne è del sesso nell’esperienza analitica.

Come ricorda Cristiana Cimino, uscendo dagli equivoci che il termine fallo ha suscitato “[…] per Lacan il fallo non ha alcun rapporto con l’organo anatomico “[…]significa che siamo tutti, uomini e donne sottoposti all’ordine simbolico, non che qualcuno ha qualcosa in più e qualcuno in meno (61) La posta in gioco nella cura e nella vita è la rinuncia all’identificazione con il fallo immaginario per gli uomini e l’identificazione al fallo simbolico, ossia alla funzione paterna che rompe la diade immaginaria madre-bambino (62). L’Edipo è quel passaggio necessario affinché il soggetto (uomo o donna che sia) possa rinunciare a quel godimento originario (il corpo della madre, Das Ding) per accedere al desiderio che è poi l’essenza, il fulcro della condizione umana. Senza la spinta propulsiva del desiderio non c’è soggetto.  Il cammino è alquanto impervio, come la clinica ci dimostra, poiché “[…] la devozione alla madre (a quell’oggetto perduto) e al suo fantasma, per definizione, danno forma al legame d’amore e ad esso ritornano (116)”.  Il vero incesto è quello con la madre, questo vale per gli uomini ma anche per le donne, ed è l’interdetto fondamentale inscritto nell’inconscio.

Entriamo quindi nel merito del concetto di godimento, termine introdotto da Lacan, di cui Cristiana Cimino sottolinea la portata rivoluzionaria perché per lo psicoanalista francese si tratta di due modi di intendere il godimento: quello maschile e quello femminile. Esiste un al di là dell’Edipo che egli ha riformulato non in termini anatomici, ma facendo riferimento alla logica dell’inconscio e rivedendo la differenza dei sessi grazie all’opposizione di due logiche, quella del tutto fallico per l’uomo e del “non tutto fallico” per la donna.

Lacan constata che il godimento è stato sempre preso in esame a partire dal versante maschile ma scopre in realtà che le vere risorse si trovano sul versante femminile. A tale proposito ci offre un’immagine piuttosto evocativa quando scrive: a differenza di Freud “[…] non porrò alla donna l’obbligo di misurare sul calzascarpe della castrazione, l’affascinante guaina che esse non elevano al significante” (Lo Stordito, Scilicet, 1977, 364). Con ciò egli non smentisce il fatto che il godimento maschile giri intorno alla questione fallica, sia per i maschi sia per le femmine, perché entrambi non possono eludere la castrazione, vale a dire quella rinuncia che permette di accedere al desiderio uscendo dal territorio proibito e mortifero della Cosa. Individua tuttavia un godimento supplementare al godimento fallico che chiama godimento femminile. “Il godimento supplementare , l’apertura oltre le leggi falliche sono per Lacan l’unica possibilità di avere rapporto, di lasciarsi alterare da un Altro che non ha risposte e quindi non dà garanzie”. (117).

Il godimento femminile si avvicina “all’infinito” (Lacan) in quantoqualcosa, nelle donne, non è mai preso nella dialettica della castrazione (pensiamo ad esempio ai mistici indipendentemente dal loro sesso) e viene quindi considerato il paradigma del godimento senza Legge. Naturalmente questo può comportare delle conseguenze in quanto “Espone le donne al rischio di trovarsi sul bordo dell’illimitato” (117) rivelando l’aspetto perturbante del femminile. Come la figura tragica di Antigone, figlia di un incesto, la quale con il suo amore assoluto nei confronti del fratello Polinice (considerato traditore dello stato e quindi indegno di sepoltura) contrappone alla legge della Polis il legame originario.  In un articolo pubblicato sulla Rivista di Psicoanalisi dal titolo “La philìa di Antigone e il nòmos di Creonte”, Silvana Borutti sottolinea l’aspetto perturbante nel senso freudiano Unheimliche della posizione di Antigone “[…] tale elemento risiede nel fatto che la philìa svela che l’altro non è l’alterità assoluta, ma qualcosa che abita come un fantasma il soggetto”(2012/4, 945). Antigone non scende a patti con il destino, ma lo assume, lo incarna fino alle estreme conseguenze opponendo all’universalità della legge la singolarità del desiderio.

Un’altra nota storica. Nel 1973 a Milano e davanti a un’assemblea di femministe piuttosto agguerrite, Lacan dichiara: La donna non esiste. Potete immaginare le reazioni. Poi, aggiunge: “Non esiste La donna in quanto soggetto universale, ma esistono le donne, una per una”. La donna non esiste nel senso che non c’è un modello universale in cui possono iscriversi le donne, ma ci sono le donne, una per una, alle prese, ciascuna a modo suo, con un godimento supplementare a quello fallico, il godimento femminile. Come scrive in modo chiaro l’Autrice “Oltre al registro fallico la donna si chiede e chiede di essere amata per quella che è nella sua singolarità infinita, non per quello che ha o che non è, non (solo) grazie alla mascherata che deve giocare” (124).

L’altra provocazione di Lacan, tra le più discusse ed enigmatiche, è senz’altro l’aforisma“non esiste rapporto sessuale”. Questione già toccata da Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale quando sosteneva che tra l’uomo e la donna esiste una sorte di incompatibilità. Lacan rivede la questione a partire dall’impossibilità degli esseri umani di fare uno con l’Altro; amore e godimento appartengono a due registri differenti, rimangono in una tensione che sembra inconciliabile. La concezione lacaniana dell’amore è quella dell’amore come dono, declinata quindi sul piano simbolico mentre il godimento implica il corpo dell’Altro: il corpo “si” gode come Uno senza l’Altro, ovvero in modo autoerotico e l’idea di unificazione con l’Altro è un’illusione narcisistica.

Alla luce della lettura di Lacan, Cimino riformula l’interrogativo freudiano “Che cosa vuole una donna?” in “Cosa vuol dire occupare una posizione femminile?” A questo proposito riprende il pensiero di Elvio Fachinelli, di cui si occupa da tempo, un pensiero ricco di intuizioni illuminanti.  L’Autrice sottolinea che “femminilizzarsi”, ovvero occupare una posizione femminile, non riguarda specificamente la donna o l’uomo, ma si avvicina piuttosto a quella condizione descritta da Fachinelli come “estatica”. Tale condizione “[…] non ha alcuna connotazione oscura o irrazionalistica sebbene Fachinelli sia ben consapevole di ciò da cui proviene, della Cosa da cui proviene (il territorio proibito, il sentimento oceanico). Essa è una disciplina da perseguire direi con diligenza, con pazienza, una pratica di attività passività che prenderà sempre più la forma di una posizione etica. L’estasi, dunque, l’essere fuori di sé, si costituisce come luogo e tempo psichico in cui lasciare che qualcosa accada […] L’estasi come apertura “gioiosa” e radicale all’Altro, all’inconscio, per dirla da analisti, all’ “ospite inatteso”, per dirla con Fachinelli” (98).

Fachinelli ritiene che questa condizione (tutt’altro che patologica) sia potenzialmente presente in ciascuno di noi, basta saperla accogliere. Ma in particolare essa attiene alla posizione stessa dell’analista. “Fachinelli nell’assumere l’uscita da sé come posizione tecnica e squisitamente etica prospetta un’operazione che va oltre la de-soggettivazione richiesta all’analista per esercitare la propria funzione […]” (100).

Concluderei con un accenno al versante politico dell’amore inteso, appunto, come “legame sociale”. Possiamo constatare che la contemporaneità non solo non  favorisce i legami ma addirittura, in un certo senso, li ostacola in quanto induce “godimenti solitari” – feticistici, potremmo dire? – che rischiano di chiudere gli individui in prigioni narcisistiche che li proteggono dal rischio di un’alterità-estraneità sentite come pericolose. Forse la psicoanalisi, la sua etica, rimane una sfida e in fondo un’estensione di quello che costituisce il nucleo centrale dell’esperienza analitica: il transfert. Non una ripetizione, ma un modo nuovo “di parlare d’amore”.

E questo, ricordiamolo, grazie anche alle donne che, da Anna O. in poi, hanno fatto la storia della psicoanalisi, una per una.

Laura Contran

Febbraio 2016

 

 

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