IL CORPO ACCUSA IL COLPO
Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche
di Bessel Van Der Kolk
(ed. Cortina, 2015)
Recensione a cura di Simona Calderoni
L’11 settembre 2001, Noam Soul, un bambino di cinque anni è stato testimone dello schianto del primo aereo di linea contro il World Trade Centre. Era nella sua classe a meno di 500 metri di distanza. Insieme ai suoi compagni, con la guida dell’insegnante, era corso giù per le scale fino all’ingresso, dove gli studenti furono riuniti e affidati ai genitori che li avevano lasciati pochi istanti prima. Noam, suo fratello maggiore e il loro papà erano tre delle decine di migliaia di persone che, quella mattina, cercavano di sopravvivere tra le macerie e il fumo. Il giorno dopo Noam fece un disegno che raffigurava ciò che aveva visto il giorno prima: un aereo che si schiantava contro una torre, una palla di fuoco, i vigili del fuoco e le persone che si lanciavano dalle finestre. Nella parte inferiore dell’immagine, inoltre, aveva disegnato qualcos’altro: un cerchio nero ai piedi degli edifici. Quando gli fu chiesto che cosa fosse, egli rispose: “Un trampolino”. Successivamente gli fu domandato che cosa ci facesse un trampolino lì ed egli spiegò: “Così le persone potranno salvarsi la prossima volta che dovranno saltare”.
Era sbalorditivo come un bambino di cinque anni, testimone di un’indicibile caos e di un enorme disastro avvenuto appena 24 ore prima, aveva fatto quel disegno e aveva usato la sua immaginazione per elaborare ciò che aveva visto potendo così andare avanti con la sua vita. Quel bambino era stato fortunato: tutta la sua famiglia era uscita incolume dal disastro, era cresciuto circondato dall’amore ed era stato in grado di capire che la tragedia, di cui erano stati testimoni, era giunta al termine. Durante i disastri, i bambini, di solito, prendono esempio dei propri genitori: se i loro caregiver riescono a mantenere la calma e a rispondere ai loro bisogni, possono sopravvivere a incidenti terribili senza riportare gravi cicatrici psicologiche.
Nel momento del disastro Noam era stato in grado di assumere un ruolo attivo fuggendo, diventando così protagonista del proprio salvataggio e, una volta al sicuro in casa propria, il campanello d’allarme attivatosi nel suo corpo e nel suo cervello, si era spento. In questo modo la sua mente riuscì a dare un senso a ciò che era accaduto immaginando persino un’alternativa creativa a quello che aveva visto: un trampolino di salvataggio.
Al contrario di Noam, alcune persone traumatizzate si bloccano, si fermano nella loro crescita perché non riescono a integrare le nuove esperienze nella vita attuale.
Dopo un trauma, il mondo è percepito con un sistema nervoso differente. L’energia del sopravvissuto è convogliata verso la repressione del caos interiore, a scapito della possibilità di coinvolgersi in modo autentico nell’attività della vita quotidiana. Il trauma interessa l’intero organismo umano: corpo, mente e cervello. Nel disturbo post traumatico da stress (PTSD) il corpo continua a difendersi da una minaccia che appartiene al passato. Guarire da PTSD significa interrompere questa condizione cronica di stress e ripristinare il senso di sicurezza.
Quando l’attivazione delle aree più antiche del nostro cervello prende il sopravvento, il cervello superiore, la nostra mente cosciente, si spegne parzialmente e il corpo si prepara a correre, a nascondersi, a combattere o, a volte, si congela. Prima di essere pienamente consapevoli della situazione, il nostro corpo può essere già in movimento. Nel 1889 lo psicologo francese Pierre Janet pubblicò il primo resoconto scientifico sullo stress traumatico riconoscendo che i sopravvissuti a eventi traumatici sono inclini a proseguire l’azione o, meglio, il tentativo inutile di svolgere quell’azione, iniziata al momento dell’evento. Essere in grado di muoversi o di fare qualcosa per proteggersi è un fattore essenziale nel determinare se un’esperienza traumatica lascerà cicatrici profonde che rimarranno per molto tempo. Mentre un’azione efficace pone fine alla minaccia, l’immobilizzazione mantiene il corpo in uno stato di shock e fa esperire un sentimento di impotenza. Di fronte al pericolo, le persone secernono automaticamente gli ormoni dello stress, che alimentano la resistenza e la fuga.
Secondo l’autore di questo testo il nostro cervello si sviluppa dal basso verso l’alto: il nostro cervello razionale, cognitivo è, in realtà, la parte più giovane dell’encefalo e occupa soltanto il 30% dello spazio interno del cranio. Il cervello razionale ha a che fare principalmente con il mondo esterno: è deputato a capire come funzionano cose e persone, come realizzare i nostri obiettivi, come gestire il tempo e dare processualità alle azioni.
Al di sotto del cervello razionale ve ne sono altri due evolutivamente più antichi e, in qualche misura, separati, responsabili di tutto il resto: la gestione e il monitoraggio della fisiologia del nostro corpo, l’individuazione del senso di agio e di sicurezza, delle situazioni di pericolo, dello stato di fame e di stanchezza, del desiderio, della nostalgia, dell’eccitazione, del piacere e del dolore.
La parte più primitiva, già attiva al momento della nascita, è la parte antica del cervello animale, chiamata spesso cervello rettiliano. Si trova nel tronco-encefalico, appena al di sopra del punto in cui il midollo spinale entra nel cranio. Il cervello rettiliano è responsabile di tutte le attività che i bambini appena nati possono compiere: mangiare, dormire, svegliarsi, piangere, respirare; percepire la temperatura, la fame, l’umidità e il dolore; liberare il corpo dalle tossine, urinando e defecando.
Proprio al di sotto del cervello rettiliano vi è il sistema limbico, noto anche come cervello mammaliano, in quanto tutti gli animali che vivono in gruppo e allevano i propri piccoli ne possiedono uno. Lo sviluppo di quest’area del cervello inizia dopo la nascita: è il luogo delle emozioni, il sistema di controllo del pericolo, il giudice di ciò che è piacevole o spaventoso, l’arbitro di ciò che è determinante o meno per la sopravvivenza. È anche un posto di comando centrale per fronteggiare le sfide insite nella vita. Il sistema limbico si plasma con l’esperienza, in collaborazione con il corredo genetico del bambino e il temperamento innato. Se ci si sente al sicuro e amati, il cervello si specializza nell’esplorazione, nel gioco e nella cooperazione; se si è spaventati e indesiderati, invece, il cervello diventerà esperto nella gestione dei sentimenti di paura e di abbandono. Il cervello rettiliano e il sistema limbico costituiscono insieme quello che l’autore, nel corso di questo libro, chiama il “cervello emotivo”.
Il cervello emotivo è il cuore del sistema nervoso centrale e il suo compito fondamentale è quello di badare al nostro benessere: se rileva un pericolo o un opportunità speciale, come un partner che promette bene, si avvia affinché si rilasci una piccola quantità di ormoni. Il cervello emotivo possiede un’organizzazione e una biochimica cerebrali più semplici di quelli della neocorteccia e valuta in modo generico le informazioni in entrata. Il cervello emotivo avvia piani di fuga preprogrammati, come la risposta di attacco/fuga. Tali reazioni muscolari e fisiologiche sono automatiche, messe in moto senza alcun pensiero o alcuna pianificazione da parte nostra. I lobi frontali sono quelli che ci permettono di usare il linguaggio e il pensiero astratto, nonché di assorbire e integrare una grande quantità di informazioni, attribuendo alle stesse un significato. Soltanto gli esseri umani padroneggiano le parole simboli necessari a creare contesti condivisi, spirituali e storici che modellano la nostra vita. I lobi frontali permettono di progettare e riflettere, immaginare e creare scenari futuri aiutandoci a prevedere le conseguenze delle azioni che compiamo. I lobi frontali sono anche la sede dell’empatia e possono anche talvolta fermare azioni che potrebbero metterci in imbarazzo o portarci a fare del male agli altri.
Le sensazioni vengono trasmesse in due direzioni: in basso, verso l’amigdala e in alto verso i lobi frontali dove raggiungono la consapevolezza cosciente. Il neuro scienziato Joseph LeDoux definisce il percorso verso l’amigdala la “via breve”, poiché è estremamente veloce e il percorso che va alla corteccia frontale “la via lunga”.
La funzione principale dell’amigdala, che l’autore chiama il “rilevatore di fumo”, è quella di individuare se l’informazione in entrata sia rilevante o meno per la nostra sopravvivenza. L’amigdala svolge questa funzione in modo rapido e automatico, grazie all’aiuto del feedback dell’ippocampo, una struttura vicina, che confronta la nuova informazione con le esperienze passate. Se l’amigdala riconosce una minaccia, per esempio un potenziale scontro con un veicolo che sopraggiunge in direzione opposta, o una persona per strada che ci guarda in modo minaccioso, invia un messaggio istantaneo all’ipotalamo e al tronco-encefalico, che secernono l’ormone dello stress, sollecitando il sistema nervoso autonomo a organizzare di concerto una risposta di tutto il corpo. L’amigdala ci prepara semplicemente ad attaccare o a fuggire, prima ancora che i lobi frontali abbiano la possibilità di procedere a valutazioni ponderate.
La dissociazione è l’essenza del trauma; l’esperienza travolgente è divisa e frammentata, così che emozioni, suoni, immagini, pensieri e sensazioni fisiche, legati al trauma, assumono una vita propria. I frammenti sensoriali del ricordo intrudono nel presente, dove vengono letteralmente vissuti. Finché non si risolve il trauma, l’ormone dello stress, che il corpo secerne per proteggersi, si mantiene in circolo; i movimenti difensivi e le risposte emotive continuano a essere rimessi in atto. Molte persone possono non essere consapevoli della relazione tra i loro sentimenti, le reazioni “folli” e gli eventi traumatici che stanno rimettendo in atto. Non hanno idea del perché rispondono anche a una seccatura di poco conto come se fossero sul punto di essere annientati.
Il trauma che è iniziato là fuori è rimesso in atto, ora, sul campo di battaglia del nostro corpo, senza che vi sia una connessione consapevole tra ciò che è accaduto allora è quello che sta succedendo in questo momento dentro di noi. La sfida non è imparare ad accettare le cose terribili che sono accadute, ma imparare a ottenere la padronanza sulle proprie sensazioni interne e sulle emozioni. Sapere che qualunque cosa stia accadendo è circoscritto e che, presto o tardi, finirà, rende la maggior parte dell’esperienza tollerabile. È vero anche il contrario: le situazioni, cioè, diventeranno intollerabili se si percepiscono come interminabili. Il trauma, dunque, è l’esperienza estrema del “durerà per sempre”.
Secondo la teoria elaborata da Porges il sistema nervoso autonomo regola tre stati fisiologici fondamentali. Se ci si sente minacciati, si fa ricorso istintivamente al primo livello, il coinvolgimento sociale: chiediamo aiuto, supporto e conforto alle persone intorno a noi. Se nessuno ci presta soccorso, o ci troviamo immediatamente in pericolo, l’organismo ritorna a una modalità più primitiva di sopravvivenza: attacco/fuga. Attacchiamo chi ci attacca o scappiamo verso un posto sicuro. Tuttavia, se tutto ciò non funziona – non riusciamo a fuggire, siamo trattenuti o intrappolati – l’organismo cerca di preservarsi, spegnendosi o spendendo il minor quantitativo possibile di energia. Siamo, quindi, in uno stato di congelamento (freeze) o collasso.
Dunque si può reagire a una situazione traumatica o attraverso la risposta di attacco/fuga, oppure attraverso il suo contrario: spegnersi ed essere morti per il mondo.
Agency è il termine tecnico che indica il sentimento di avere “in carico” la
propria vita: sapere dove si è, sapere di avere voce in capitolo in ciò che ci accade e sapere di poter avere un’efficacia su ciò che ci sta intorno. L’agency inizia con ciò che gli scienziati chiamano interocezione, la consapevolezza di vissuti sensoriali sottili provenienti dall’interno del nostro corpo; maggiore è questa consapevolezza e maggiore sarà la capacità di controllare la nostra vita. Sapere cosa sentiamo è il primo passo per capire perché ci sentiamo in quel modo.
Le persone traumatizzate si sentono continuamente in pericolo dentro il proprio corpo: il passato vive informa di tormentoso disagio interiore. Il loro corpo è costantemente bombardato da segnali viscerali di pericolo e, nel tentativo di controllare questi processi, si specializzano nell’ignorare le sensazioni viscerali, annebbiando la consapevolezza di ciò che viene messo in gioco dentro di loro: imparano a nascondersi da se stessi.
Il prezzo dell’ignorare o del distorcere i messaggi provenienti dal corpo è quello di perdere la capacità di valutare ciò che è veramente pericoloso o dannoso per noi e, cosa altrettanto negativa, ciò che è sicuro o nutriente.
Gli psichiatri usano il termine greco di alessitimia per indicare l’impossibilità di tradurre in parole le emozioni. Molti bambini e adulti traumatizzati non possono descrivere ciò che sentono, semplicemente perché non riescono a identificare il significato delle loro sensazioni fisiche. Gli alessitimici sostituiscono il linguaggio dell’azione con quello dell’emozione. Alla domanda: “Come ti sentiresti se avessi visto un camion arrivare a 130 km/h?”, la maggior parte delle persone risponderebbe: “Sarei terrorizzato”. Un alessitimico, invece, potrebbe rispondere: “Come mi sento? Non lo so… Mi toglierai di mezzo”. Tendono a registrare le emozioni come problemi fisici piuttosto che come segnali che meritano la loro attenzione. Un gradino più in basso sulla scala dell’auto oblio si colloca la depersonalizzazione: la perdita del senso di sé stessi che è molto frequente durante le esperienze traumatiche. Una descrizione particolarmente precisa della depersonalizzazione viene dallo psicoanalista tedesco Paul Schilder, che a Berlino, nel 1928, scriveva: “Per le persone depersonalizzate il mondo appare strano, particolare, estraneo, onirico. Gli oggetti si percepiscono, talvolta, di dimensioni estremamente ridotte e, talvolta, privi di spessore. I suoni sembrano provenire da lontano…Le emozioni, dal canto loro, subiscono una marcata
alterazione. I pazienti si lamentano di non essere in grado di vivere né il dolore né il piacere e di essere diventati estranei a se stessi”.
Le vittime di traumi non possono guarire fintanto che non familiarizzano e “diventano amiche” delle loro sensazioni corporee. Essere spaventati significa vivere in un corpo sempre in allerta. Persone arrabbiate vivono in corpi arrabbiati. Il corpo dei bambini abusati è teso e sulla difensiva, almeno fino a quando non si riesce a trovare un modo per rilassarsi e sentirsi al sicuro.
Per cambiare, le persone hanno bisogno di prendere coscienza delle proprie sensazioni e del modo in cui il corpo interagisce con il mondo che lo circonda. L’auto consapevolezza corporea è il primo passo per liberarsi dalla tirannia del passato.
Nella terza parte di questo volume viene approfondito il funzionamento della mente dei bambini.
I bambini i cui genitori costituiscono fonti di conforto e di forza affidabile hanno un vantaggio nella vita, una sorta di protezione contro il peggio che la sorte può riservare loro. Più sensibile è l’adulto nei confronti del bambino, più profondo sarà il legame di attaccamento e, con molta più probabilità, il bambino potrà sviluppare delle modalità relazionali sane con le persone intorno a lui.
John Bowlby ha inteso l’attaccamento come una base sicura, dalla quale il bambino si muove per andare verso il mondo. Nel corso dei cinquant’anni successivi, la ricerca ha palesemente confermato che, disporre di una base sicura, favorisce il senso di autonomia e instilla il senso di compassione e di aiuto verso chi soffre.
L’attaccamento sicuro è garantito dalla sintonizzazione emotiva del caregiver. La sintonizzazione inizia dai più sottili livelli fisici di interazione tra i neonati e il caregiver e ciò conferisce al neonato la sensazione di essere accolto e capito. Tronick e altri ricercatori hanno dimostrato che bambini e genitori sincronizzati a livello emotivo, lo sono anche a livello fisico. I bambini non sanno regolare i loro stati emotivi e, tantomeno, i cambiamenti del battito cardiaco, i livelli ormonali, l’attività del sistema nervoso che accompagna le emozioni.
I bambini con attaccamento sicuro apparivano stressati quando la madre li
lasciava, ma mostravano piacere al suo riavvicinamento e, dopo una breve verifica di
rassicurazione, si rasserenavano riprendendo a giocare.
Nel “attaccamento evitante”, i bambini si mostravano come se niente li infastidisse: non piangevano all’allontanamento della madre e la ignoravano al suo ritorno. Questo non significava, tuttavia, che fossero anaffettivi. Il loro battito cardiaco accelerato, infatti, evidenziava uno stato di costante iper-aruosal. Alcune madri dei bambini evitanti non mostravano piacere nel toccare i loro figli. Avevano difficoltà a coccolarli, e ad abbracciarli, non usavano le espressioni facciali e la voce per creare dei ritmi di piacevole reciprocità con loro.
In un altro pattern, chiamato “attaccamento ansioso” o “ambivalente”, i bambini attiravano continuamente l’attenzione su di sé piangendo, gridando, aggrappandosi all’adulto o strillando: sono i bambini “senzienti, ma non agenti”. Questi bambini sembrano aver realizzato che, se non danno spettacolo, nessuno presterà loro attenzione. Diventavano fortemente agitati quando non sapevano dove fosse la madre, ma ricavavano scarso conforto dal suo ritorno. I pattern di attaccamento spesso persistono in età adulta. Bambini ansiosi da piccoli diventeranno adulti ansiosi, mentre i bambini evitanti diventeranno, probabilmente, adulti che non hanno accesso alle proprie emozioni e a quelle degli altri.
I bambini che non si sentono sicuri durante l’infanzia hanno difficoltà a regolare l’umore e le risposte emotive, una volta divenuti più grandi; i genitori traumatizzati, in particolare, vanno supportati nel compito di sintonizzarsi sui bisogni dei loro bambini perché spesso non si rendono conto di non essere sintonizzati. Da numerosi studi è emerso che le madri ostili o intrusive avevano una maggiore probabilità di avere alle spalle storie infantili di abuso fisico o di violenza domestica assistita, mentre, per quelle ritirate o dipendenti, vi era una maggiore probabilità che avessero storie di abuso sessuale o che avessero perso un genitore.
Elaborare le memorie traumatiche è una cosa, ben altra cosa è confrontarsi con il vuoto interiore, con quei buchi dell’anima generati da non essere stati voluti, dal non essere stati visti, dal non aver potuto dire la verità. Se non abbiamo mai visto il volto dei nostri genitori illuminarsi al solo vederci, sarà piuttosto difficile sapere come ci si sente a essere amati e desiderati. Un bambino ignorato o ripetutamente umiliato può finire per rispettare poco se stesso; i bambini che non hanno avuto la possibilità di affermare se stessi, probabilmente avranno difficoltà a farsi valere da adulti e la maggior parte degli adulti che ha subito maltrattamenti da bambini porta con sé una rabbia cieca, il cui contenimento richiederà un’enorme energia. Più precocemente abbiamo sperimentato dolore e privazioni, più è probabile che le azioni di altre persone verranno interpretate come intenzionalmente dirette contro noi stessi e minore sarà la comprensione dei conflitti, delle insicurezze e delle preoccupazioni altrui. Un rispecchiamento sintonizzato fa sentire completamente diversi dall’essere ignorati, criticati e rifiutati. Ci consente di sentire ciò che sentiamo e di sapere ciò che sappiamo: elemento fondamentale per stare meglio.
Il testo si conclude sottolineando l’importanza di diventare capaci ad autoregolarsi, potenzialità che può essere insegnata a molti ragazzi che oscillano tra l’iperattività e l’immobilismo.
“Oltre a leggere, scrivere e far di conto, tutti i bambini hanno bisogno di imparare a essere consapevoli di sé stessi, ad autoregolarsi e a comunicare, considerando tutte le competenze del proprio bagaglio interiore. Proprio come si insegna la storia e la geografia, si deve insegnare ai bambini come funzionano il cervello e il corpo. Sia che si parli di adulti sia che si parli di bambini, per avere il controllo di se stessi è necessario familiarizzare con il proprio mondo interno e identificare con precisione ciò che spaventa, ciò che sconvolge o ciò che fa piacere” (p. 405).
Bibliografia
J. LeDoux (2012), “Rethinking the emotional brain”, in Neuron, 73 (4), pp.653-676.
S. W. Porges, J.A. Doussard – Roosevelt, A. K. Maiti (1994), “Vagal tone and the physiological regulation of emotion”, in N.A. Fox (a cura di), The Development of Emotion Regulation: Biological and Behavioral Considerations, Monographs of the
Society for Research in Child Development, 59 (240), pp. 167-186. 9
P. Schilder (1996), “Depersonalization”, in Introduction to a Psychoanalytic Psychiatry, 50, International Universities Press, New York, p. 120.
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