Dialogo sulla gruppalità tra Giovanni Hautmann e Salomon Resnik Pisa, Felici Ed, pp. 76 , (2010)
Recensione di Ambra Cusin
Mentre cammino tra le pietre carsiche di un’isola dalmata, mi rendo conto che sono nel posto giusto per pensare a questo breve, ma intenso libro che tratta dei dialoghi sulla gruppalità tra Giovanni Hautmann e Salomon Resnik. Le pietraie di queste isole sferzate dalla bora, infatti, riescono a darmi tutto il senso di pietrificazione e immobilità che il testo cerca di affrontare. Quella pietrificazione che tiene prigioniero il pensiero e che solo la “fissità disattentiva” può sciogliere, come in un processo alchemico secondo la formula, che caratterizza le funzioni di Orfeo,: “limus ut hic durescit, et haec ut cera liquescit”. Ovvero solve et coagula.
Il 30 gennaio del 2010 sì è svolto a Pisa, all’interno delle attività del Centro Psicoanalitico di Firenze, un convegno con l’intento sia di approfondire, nei suoi più elevati livelli di astrazione teorica, la conoscenza del pensiero di Giovanni Hautmann, ma anche di sondare la “funzione psicoanalitica della mente”. Da questo convegno è nato il libro curato da Gabriela Gabbriellini. Questo approfondimento si è svolto in maniera singolare: un dialogo tra lo stesso Hautmann con Resnik, che in modi diversi e originali si è interessato ai medesimi temi, arricchito dalla presenza vivace di un gruppo di colleghi: Boccanegra, Conrotto e Ferruta, e da una filosofa della politica, Barbara Henry che, coordinati da Gabriela Gabbriellini hanno saputo creare un clima di dinamicità e vitalità del pensiero psicoanalitico estremamente stimolante.
Di vitalità della psicoanalisi, infatti, hanno parlato in definitiva tutti i relatori, ed è significativo per me recensire oggi questo testo, nella primavera del 2012, mentre nella nostra mailing list si sta discutendo, con entusiasmo alternato a incertezza, sul futuro della psicoanalisi.
Il libro scorre veloce pur essendo denso di teorizzazioni originali. Sono poche pagine che però non danno tregua. I capitoli sono brevi, a volte leggibili in un intermezzo del lavoro clinico con i pazienti. Un testo, questo, da tenere sulla scrivania accanto alla poltrona. Da consultare con la consapevolezza però che la lettura non sarà facile e banale, perché ad ogni paragrafo vedremo nascere in noi, apparentemente dal nulla, immagini nuove e stimolanti. Come dalla pietraia carsica inaspettatamente a volte nasce un piccolo fiore.
E’ il “visivo” la prima messa in figurazione, aveva tempo fa affermato Hautmann (1999,39,76), la prima “presentazione” (come dice Conrotto, 2008) di un’esperienza di soggettivazione. Del resto è proprio Hautmann, nel capitolo contenuto nel testo, “Tra l’attenzione fluttuante e la fissità disattentiva (25), a ribadire che è “nel vuoto relazionale di tipo autistico” che si cimenta “lo stato negativo dell’ascolto… un momento di non-pensiero…con difficoltà alla trasformazione in O ricercata dalla mente analitica nella sua sospensione” e che può plausibilmente accompagnarsi ad “un’assenza di movimento. Mentre questo intesse la simbolizzazione a cominciare dai primordi nelle forme iconiche, nei vari livelli dell’immaginazione visiva… e poi narrativa…l’assenza di movimento permea lo stato mentale simbolico”. La mente dell’analista deve quindi spostarsi da “una posizione di pensiero K ad un ascolto che per avvicinare l’immobilità dell’ignoto…deve farsi il più possibile immobile” (29). Apportando dunque questo concetto forte, e direi quasi trasgressivo, di una mente dell’analista che deve sapersi muovere anche attraverso l’immobilità.
Ed è Resnik, in “Nascita del pensiero. Riflessioni cliniche” (35) a ribadire come l’origine del pensiero faccia parte di un processo complesso dove la sensorialità e l’origine dell’immaginario precede ogni formalità rappresentativa. Riprendendo Julia Corominas, Resnik sottolinea come l’esperienza senso percettiva sia fondamentale per entrare in contatto con gli sviluppi arcaici del bambino e dell’adulto. Bisogna cercare “le cicatrici”, ci dice Resnik, fornendoci appunto un’immagine, che si “configurano come una carta geografica in rilievo… cioè il contenitore di una storia” (39). Ma ancora aggiungendo, nelle conclusioni del convegno, senza che purtroppo il testo possa riportarlo, che negli psicotici spesso si è detto che non hanno emozioni, quando invece sono pieni di affettività paralizzata, congelata. Nell’e-mozione c’è movimento. E si può trasformare l’a-mozione, ovvero l’assenza di movimento, in e-mozione mettendo in moto una vita rimasta pietrificata. Perciò nelle trasformazioni è importante la chinesi (Resnik nelle conclusioni del convegno).
Ebbene tutto il testo appunto procede sul terreno dell’arcaico, del primitivo, di ciò che sta prima del pensiero, non solo nel paziente, ma anche nell’analista, su come operare con questo materiale immobile e pietrificato, che a me fa pensare ad una fossilizzazione che trattiene, in una cicatrice sulla pietra, la storia di un oggetto del passato. Sarà Resnik, con il caso di un giovane psicotico, a portarci l’immagine della pietrificazione, dell’immobilità in cui lo psicotico abita, murato vivo, ma con gli occhi mobili e vitali, nella pietra dura della psicosi. E in questo dialogo, vivace e dinamico, Hautmann ci parla della fissità disattentiva, ovvero di quel atteggiamento mentale dell’analista al lavoro che, in una condizione di immobilità, va oltre all’attenzione fluttuante, per raggiungere una sospensione dell’ascolto, in uno stato di fissità della partecipazione in cui niente deve essere messo a fuoco, sia in senso emotivo che percettivo, per mantenersi dispersa. E’ questo per Hautmann il movimento mentale di fissità disattentiva, che è contemporaneamente immobile e per questo, paradossalmente dico io, in movimento. Ed è così che, secondo Resnik in un altro linguaggio, si favorisce lo scongelamento o l’uscita dalla pietrificazione dell’immobilità psicotica.
Il testo inoltre ci accompagna soprattutto a comprendere come sia il lavoro clinico di gruppo, tra operatori, il metodo per affrontare l’ignoto, la primitività, l’immobilità pietrificata. E’ di nuovo Hautmann, in altro capitolo, “Il paziente tra la dualità analitica e la molteplicità gruppale” (49) a descrivere cosa avviene in un gruppo di operatori vari, mostrandoci così la sua capacità di oscillare tra l’individuale e il gruppale nella sua funzione analitica. E sono i contributi di Boccanegra – L’inconsapevole plasticità del testimone” (71) e Ferruta “Il Seminario clinico di gruppo come esperienza analitica, accanto all’analisi e alla supervisione” (55), a sottolineare le funzioni e l’utilità di questi gruppi che, nel tempo, sono stati l’oggetto del lavoro analitico di Hautmann in diversi ambiti. Ad essi Conrotto, in “Funzionamento gruppale della mente e processo di soggettivazione” (65), aggiunge un intenso e complesso lavoro teorico a sostegno del pensiero di Hautmann. In merito Conrotto, in un modello teorico di ispirazione freudiana, sostiene che simbolizzazione e sublimazione siano processi psichici con una radice comune, riconoscendo contemporaneamente come assonante la tesi di Hautmann per cui il processo di simbolizzazione si realizza attraverso una de-energizzazione degli elementi beta, determinando quindi una sublimazione.
Tornando ai seminari clinici di gruppo, questi situandosi tra la dualità analitica del trattamento individuale e la molteplicità gruppale del lavoro sul caso in un gruppo, permettono la dilatazione della visione in quanto viene attivata una funzione mentale strutturante (Ferruta, 61). “il lavoro del seminario analitico è rivolto a far sciogliere il ghiaccio che blocca la mobilità della vita psichica… questo soffio tiepido che scioglie le costruzioni ghiacciate deve assicurare che si vadano costruendo strutture mentali capaci di sorreggere la vita psichica recuperata (potremmo dire una sorta di struttura ‘antisismica’ della mente) dandole… una terraferma sulla quale muoversi più liberamente…” (Ferruta, 61-62).
Solve et coagula!
E’ in questo luogo di confronto e di stimolo tra colleghi, grazie al contenimento di una mente analitica al lavoro, che si può vedere la pietrificazione, l’immobilità a cui giunge la mente degli operatori nel loro insieme gruppale. I gruppi di operatori, spesso, come dice Ferruta, si trovano bloccati nella paralisi del dispositivo terapeutico e sperimentano la difficoltà a rappresentare e muovere affetti, pensieri, gesti. Ed è a volte solo nel “silenzio dell’ascolto” che il conduttore può sperimentare delle configurazioni germinative che sono effetto del lavoro psichico del gruppo nel suo insieme. E’ per questo che il seminario clinico di gruppo si configura come un’esperienza analitica da affiancare all’analisi e alla supervisione. E’ esso quel luogo, ci dice Boccanegra, citando Wittgenstein, in cui il conduttore dà una mano al gruppo, ma questo “dare la mano” se da un lato svolge una funzione di sostegno per il gruppo di operatori, dall’altro aiuta il conduttore a “resistere alla levitazione” e alle varie forme di “idealizzazione” delle proprie capacità. Ed è proprio il “contatto con il linguaggio ordinario degli operatori”, aggiunge Boccanegra (72), a permettere questi esercizi di “contro-levitazione”. Pochi attimi prima Hautmann aveva affermato che in questi seminari il conduttore cerca di cogliere una valenza di pensiero gruppale che scolorisce e marginalizza la propria individuale interpretazione del caso portato, per riassorbirla piuttosto nella sua lettura gruppale. Nella sua concezione dello sviluppo psichico Hautmann, infatti, sostiene che la formazione del Sé prenda avvio da una condizione gruppale, che definisce pellicola di pensiero.
I diversi autori del testo citano ampiamente Bion, ma ciò che colpisce è come il pensiero di Bion sembra evolvere, muoversi, uscire dalla immobilizzazione pietrificante che lo tiene prigioniero quando la sua teoria viene costretta in banali slogan. Bion è stato uno psicoanalista originale e creativo, le sue teorie hanno una capacità germinativa che Hautmann e gli altri hanno saputo cogliere. Si può dire che con questo lavoro il pensiero di Bion ha potuto dilatarsi.
Questo testo dunque riesce ad essere fecondo e fecondante senza essere mai scontato.
E questa originalità viene colta nell’intervento di Barbara Henry “Principio di traslazione e scienze sociali” (13) che ci rende attenti quando sottolinea l’urgenza per gli scienziati, i politici e i cittadini di imparare di nuovo a riconoscere e decifrare i segni del tempo. “Non siamo funghi post-moderni che hanno tagliato le radici con ciò che li ha fatti nascere: ciò è vero soprattutto per la memoria simbolica, che è sì rielaborata da noi, ma dal pari influente in quanto produce effetti eccedenti rispetto alle nostre capacità previsionali e immaginative” (22).
Concediamoci dunque una sorta di fissità disattentiva nei confronti di un sapere che evolve velocemente, ma che forse per certi versi è immobilizzato e imprigionato nell’autoidealizzazione. Con questo atteggiamento forse coglieremo qualcosa che non è ancora nato, che è embrionalmente presente, e che forse contiene in sé il futuro della psicoanalisi.
Maggio 2012
Bibliografia
F. Conrotto (2008), Per una gnoseologia psicoanalitica, Rivista di Psicoanalisi, 50,4,1027-1048.
G. Hautmann (1999), La psicoanalisi tra arte e biologia, Roma, Borla