Freud, Sullivan, Mitchell, Bion, and the multiple voices of international Psychoanalysis
di Marco Conci
International Books, New York, 2019
Recensione a cura di Antonio Imbasciati
In un corposo volume di oltre settecento pagine, edito in inglese quest’anno dall’International Psychonanalytic Books di New York, Marco Conci, componente sia della SPI che della tedesca DPG (IPA), ci offre con una presentazione di Bolognini un panorama delle vicende internazionali della psicoanalisi in questi ultimi cinquant’anni. Gli aspetti del progresso scientifico della psicoanalisi vengono accuratamente intrecciati con la frammentata situazione politica delle varie Società, Scuole e soprattutto correnti di pensiero “periferiche”, nonché con la passione del proprio lungo percorso personale. Una meditazione su un tale intreccio può a mio avviso essere utile per tutti gli psicoanalisti, nell’attuale dibattito entro la SPI a proposito del training e per la posizione attuale della psicoanalisi nel quadro politico sociosanitario italiano riguardante l’utilizzo delle varie psicoterapie.
L’ultima parte del titolo (the multiple voices of international psychoanalysis) è evocativa della situazione della psicoanalisi nel panorama scientifico culturale e sociale mondiale –si osservi la figura di copertina- , ma anche e forse soprattutto delle “voci” interiori che hanno guidato la gioventù di questo nostro ora non più giovane autore, in una laboriosa inquieta e sofferta ricerca di una formazione personale e professionale adeguata a quanto la scienza psicoanalitica richiede, o richiederebbe, ad ogni “psicoanalista”, al di là delle diverse e talora in contrasto regole di formazione, che le differenti Scuole e associazioni prescrivono a coloro che vogliono intraprendere con competenza la professione di psicoanalista.
Il libro si apre con un’accurata rassegna della copiosa letteratura sulla gioventù di Freud, quale ricostruita e commentata attraverso le lettere scritte e intercorse tra Freud e i suoi vari amici, colleghi, parenti, tenendo conto di quanto Freud stesso dichiara sul suo aver voluto distruggere molti altri suoi appunti personali. Come è noto, quanto ci è pervenuto degli scritti privati di Freud è servito a rappresentarci il suo percorso interiore personale lungo la “scoperta” e la relativa “invenzione” della psicoanalisi, nel metodo e nella teoria, ovvero la sua “autoanalisi”. La suddetta letteratura è stata via via scritta e pubblicata ad opera di illustri autori, psicoanalisti e non, lungo la Storia anche recente della psicoanalisi, che Conci rammenta, connette, commenta: si tratta di più di cento pagine di questo libro, in cui si sente vivere anche quello che nella postfazione Conci racconta come biografia, di quanto laboriosamente egli sia andato cercando nella propria vita. Secondo l’autore non c’è modo di capire l’opera di Freud se non si considerano le sue lettere, i suoi corrispondenti e i suoi rapporti con loro: egli mostra come anche l’autoanalisi di Freud cominci ben prima del suo rapporto con Fliess, accompagnandone tutta la vita e l’opera. Questo ne fa un modello imprescindibile e sempre attuale per ogni psicoanalista.
Per capire la prospettiva dell’autore necessario è il riferimento alle origini della famiglia Conci: Trento, il Suedtirol dell’Impero Austroungarico, il multilinguismo, la Vienna imperiale, per il nostro le Università italiane, e oggi il suo lavoro, a Monaco e in parte a Trento. Come egli ci racconta, non gli fu facile trovare l’ambiente e i maestri che lo soddisfacessero, a parte la sua prima analisi personale in Trento, cosicché, animato da una interiore e imperiosa curiosità culturale, poté (e tuttora ne coltiva lo strumento) frequentare i centri e gli studiosi dei più vari paesi europei e transcontinentali. La poliedricità di questa sua personalissima parte formativa viene utilizzata per centrare le ragioni per cui la psicoanalisi tanto ha sofferto e tuttora soffre nelle sue contrastanti differenziazioni, in cui non facile è individuare la sostanza scientifica distinguendola da quella culturale ed entrambe da quella sociale e di politica delle varie Scuole; non ultima la nostra SPI , della quale Conci passa in rassegna quasi tutti i protagonisti, fino ai giorni nostri.
La parte centrale del libro si occupa, come dice il titolo, dei tre giganti che, secondo Conci hanno animato, o rivoluzionato, la psicoanalisi: Sullivan, Mitchell e Bion. La presentazione della loro opera è tutt’altro che asettica, ed è questo il pregio: si vuol sottolineare il salto, purtroppo ancor oggi obliterato nella prassi formativa degli psicoanalisti, tra l’impostazione tradizionale, derivata o forse ricalcata su Freud e quella relazionale, oggi prevalente ma a lungo contrastata e di fatto ancor oggi soffocata dalle incertezze teoriche, che pretendono di affiancare la sacralità della “dottrina pulsionale”, istintuale, biologistica di Freud, alla pratica professionale interpersonale, che di fatto comporta assunti impliciti che invece la escludono.
“Pulsioni o Relazione?” sono la metafora con cui Conci riassume un contrasto di fondo che tutt’oggi si tende a nascondere come fosse ormai chiuso: la mente umana si forma attraverso un continuo “striving for connection and communication, rather than discharge and gratification of endogamaous instinctual pressures” (p.196), come Conci cita in appoggio alla prospettiva di Sullivan. Credo che oggi tutti gli psicoanalisti che si occupano di bambini possano sottoscrivere l’assunto, ma forse manca loro una più chiara distinzione fra ciò che è implicito nella clinica e ciò che è esplicativo di quello che la informa, come si conviene a ciò che si denomina più propriamente “teoria”. Quella di Freud non informa più, ormai, la maggior parte degli analisti che operano nel mondo, anche se qualcuno si scandalizza se vede un qualche libro intitolato “Psicoanalisi senza teoria freudiana”, come è capitato qualche anno fa. A parte il fatto che le Affective Neuroscience oggi confermano quanto sul piano dell’estrazione teorica dalla clinica Conci sostiene.
Il sostegno che il nostro autore usa, qui come in tutto il libro, non è diretto, come opinione personale che molti potrebbero controbattere spregiativamente, bensì portando la documentazione di altri Autori, riconosciuti: il libro è infatti zeppo di lunghe citazioni di lavori originali di molti altri studiosi. Purtroppo uno spirito sotterraneo di molte Associazioni psicoanalitiche tende a operare implicitamente, in una propria politica soltanto autoconservativa: Conci, esponendo nella seconda parte del libro il contributo più rivoluzionario di Mitchell, riporta alcune di lui corpose citazioni, pubblicate su autorevoli riviste, che accusano le più note Società psicoanalitiche di ideologia chiesastica e di democrazia bolscevica nella loro Organizzazione (p.259 sgg). Si critica, fra l’altro, l’eccessiva impostazione delle regole del training sull’opera freudiana, il che non sarebbe male, se non avvenisse a scapito di un più ampio e intenso studio di quanto altri hanno sviluppato negli ottant’anni dalla morte di Freud (p.264). Se la psicoanalisi è una scienza, molte voci reclamano che essa deve necessariamente cambiare nel suo sviluppo.
In altri termini, attraverso gli scritti di Mitchell si sentono “le voci” che reclamano come non si possa, in una scienza, conservare tutto il vecchio accanto al nuovo, né esecrare i necessariamente confusi albori dal nuovo: la psicoanalisi deve cambiare. Per il nostro autore essa non è ancora abbastanza cambiata. E’ questo che Conci fa udire di Sullivan, che fu un “dissidente”, con il suo William Alanson White Institute, per lunghi anni contrastato e boicottato dall’IPA. In sostanza Conci, attraverso il suo tribolato percorso formativo ha potuto sperimentare il fardello delle divisioni avvenute negli ultimi ottant’anni di diffusione della psicoanalisi, e in tale iter raccogliere una preziosa e cospicua esperienza di quanto un sapere scientifico possa essere ostacolato dalle frammentazioni politiche degli stessi studiosi; e pertanto di come per il progresso della psicoanalisi sia necessario un universalismo che non tenga conto semplicemente delle divergenze, ma anche dei “divergenti”, ovvero di tutti gli studiosi che ne hanno comunque contribuito, mentre le Organizzazioni che hanno avanzato il diritto ereditario della dottrina freudiana li hanno emarginati, nella considerazione chiesastica di una ortodossia che disprezza “gli eretici”.
Abbiamo infine nel volume di Marco Conci tutta una grossa terza parte dedicata all’opera di Bion. Se ne sottolineano l’origine e l’evoluzione nel comune lavoro professionale di Bion con Rickman, che era stato il suo analista, durante il loro servizio in guerra, e da tale elaborazione si evince l’eredità kleiniana. L’opera di Bion, che ha sortito fondamentali cambiamenti nella clinica, particolarmente in Italia, viene considerata erede delle connessioni, convergenze, divergenze e innovazioni che Conci ci mostra iniziate da Sullivan e culminate nell’acme della “svolta relazionale” di Mitchell e di tanti altri, fino a quanto oggi può considerarsi la psicoanalisi attuale, per lo meno nella clinica.
Nella quarta parte l’autore si occupa specificamente della “psicoanalisi internazionale, di quella italiana e di quella tedesca, che ricostruisce sul piano sia storico, che della sua esperienza di “osservatore partecipe”. In particolare, per la complessa storia della psicoanalisi tedesca, si argomenta come solo uno straniero che l’abbia vissuta dall’interno possa essere in grado di darcene quel quadro che i tedeschi stessi fanno fatica a fornirci di se stessi. E’ anche per questo che tuttora sappiamo così poco della psicoanalisi tedesca; e di quella austriaca e svizzera. Da questo punto di vista, “psicoanalisi internazionale” appare all’autore come l’imparare a parlare di noi non a chi già ci conosce, ma a cercare di dialogare con chi non ci conosce e noi non conosciamo ancora. In altre parole, solo conoscendo da vicino altre “culture psicoanalitiche” possiamo meglio capire e articolare il nostro proprio punto di vista. Vi sono interessanti fenomeni al proposito, come quello per cui, dipendendo la recezione di un autore dalla tradizione locale di ogni Paese, un autore come Herbert Rosenfeld risulta essere “post-bioniano” in Italia e “post-kleiniano” in Germania.
Da ultimo segue nel volume la biografia, anche interiore, che ha condotto Conci a scrivere questo colossale libro, che potrebbe costituire un archivio della psicoanalisi, vissuto però in prima persona, come peraltro si conviene per questa scienza. In questo Conci segue anche la tradizione tedesca della “Selbsdarstellung” (letteralmente autorappresentazione), che aveva accompagnato la stessa “Autobiografia” di Freud del 1924, composta su invito del curatore di un’antologia della serie “La medicina contemporanea in forma di autoritratti”. Tradizione che in Italia non esiste.
Di primo acchito il lettore potrà rimanere incerto se avventurarsi nella faticosa lettura delle settecento e più pagine di questo testo: di fronte all’impresa, facile è che possa sopravvenire nell’anima di qualche collega, viste anche le continue interposte lunghe citazioni di migliaia di autori e viste le citazioni delle centinaia di lavori scritti e pubblicati dello stesso Conci, nonché notato come il medesimo sia il codirettore di un importante rivista psicoanalitica internazionale, un’accusa di autoreferenzialità, sotto cui si avverte una sommessa implicita imputazione di narcisismo. Ma, se cotal lettore supererà le proprie narcisistiche difese, potrà afferrare il fatto che Conci ha davvero fatto tanto: ha lavorato, scritto e sofferto, e offerto alla comunità psicoanalitica un contributo che non può esser messo nel cassetto.
Purtroppo accade talora, e non solo in psicoanalisi, che le correnti pregne di innovazioni di pensiero vengano a lungo emarginate. Ma spesso è proprio il pensiero periferico che fa germinare il miglior progresso: fa fermentare il main stream verso nuove direzioni.
Antonio Imbasciati, 12/01/20