Parole chiave: Psicoanalisi; Freud; Narcisismo; Pulsione; Socialismo; Bion; Rosenfeld; Green; Kernberg: Gabbard; kohut; Baranger; Racamier; Ogden; Winnicott
Forme del Narcisismo
Teoria e clinica nella contemporaneità
A cura di Alfredo Lombardozzi, Elena Molinari e Roberto Musella
Cortina Editore, 2024
Recensione di Rossella Valdrè
Io sono nero d’amore,
né fanciullo né usignolo
tutto intero come un fiore,
desiderio senza desiderio.
(P.P. Pasolini, La danza di Narciso, 1944-49)
Si inaugura con questo testo importante una nuova collana di temi psicoanalitici che nasce dalla collaborazione della Società Psicoanalitica Italiana con la Redazione della Rivista di Psicoanalisi e l’editore Cortina; la scelta di iniziare sulla scia dell’ultimo Congresso del 2022 dal titolo Oltre Narciso e le solitudini quale sogno per il futuro? , appare sicuramente una scelta felice visto l’amplissimo interesse che il narcisismo ha suscitato non solo nei clinici ma in vasti ambiti della società e della cultura. Un testo necessario, inoltre, per tentare di fare chiarezza e rivedere la nascita e la storia di un concetto che conosce oggi una vastissima diffusione non solo in psichiatria e psicologia ma nella cultura di massa, il cui “potente insediamento semantico e linguistico nella nostra cultura occidentale” (Falci, 253), rischia di portare alla confusione. Diviso in cinque parti, ciascuna preceduta da una ricca e necessaria introduzione, il testo esplora con rigore le figure del narcisismo nei diversi orientamenti psicoanalitici attuali, a partire dal fondamentale saggio di Freud del 1914 Introduzione al narcisismo, intrecciandosi con riletture del mito e altri saperi, come le neuroscienze (curate da Falci), e la filosofia (nella bella intervista finale a Salvatore Natoli a cura di Laura Ravaioli); vi hanno collaborato più di una ventina di Autori italiani e stranieri, facendo di ogni capitolo sia una lettura a sé che il tassello di una trama complessa.
Già nell’introduzione di Sarantis Thanopulos è anticipato il punto che oggi potremmo considerare centrale in tema di narcisismo: la sua duplicità, il suo ‘essere doppio’, a cui i diversi autori hanno dato declinazioni differenti. Abbiamo così il narcisismo a pelle sottile e a pelle spessa (Gabbard, 2018); il tipo overt e covert; il narcisismo di vita e quello di morte (Green, 1973); insomma una forma buona, necessaria, che dà spessore all’identità e protegge la vita, ed una forma mortifera, anoggettuale e distruttiva. L’ipotesi è che la società contemporanea, non più soltanto portata a premiare l’uomo “economico” come osservato nel famoso saggio di Lasch (1978), ma oggi inebriata dai sé immaginari dei nuovi media, come ben descritto nel capitolo di Phil Mollon, tenda ad oscurare il primo, quello buono, a favore del secondo: quella forma di disinvestimento libidico che il poeta chiama, con magnifica sintesi, nero d’amore.
“Non si può amare svuotandosi di se stessi – scrive Thanopolus – è necessario amarsi per potersi sentire amati ed invogliati ad amare. L’amor proprio irradia verso l’esterno e consente di prendersi cura delle cose desiderate” (XII). Jones de Luca propone la metafora della fibra, la stoffa di cui ciascuno di noi è fatto: se troppo sottile non ci protegge dalle acque profonde e dalle turbolenze della vita, ma se troppo spessa non consente nessuna immersione, eliminando così non solo l’oggetto, ma anche la soggettività. In ciascuna delle cinque parti del libro, quindi, da più Autori viene esplorata una dimensione, un orientamento con cui leggere il narcisismo all’interno del caleidoscopio della psicoanalisi contemporanea, ma è interessante osservare come, pur all’interno delle diverse terminologie, i concetti di fondo restino gli stessi. Narcisismo di vita e di morte in Green (curato da Balsamo); oscillazione tra narcisismo e socialismo per gli Autori che si occupano di Bion e i postbioniani (introdotti da Elena Molinari ); il filone delle relazioni oggettuali, da Rosenfeld a Kernberg (curato da Petrelli ) che vede alternarsi nella personalità un sé libidico, capace di legame, ed un sé distruttivo. Sotto la spinta dell’osservazione clinica, è importante notare come le differenti letture teoriche tendano a trovare punti di sintesi, come nell’ultimo Rosenfeld del ’71 che riconoscerà nel narcisismo distruttivo la presenza di defusione degli istinti e la pulsione di morte freudiana, sebbene restando su un terreno eminentemente clinico. La centralità del saggio freudiano del 1914 è ripresa in ogni capitolo, ma alla metapsicologia freudiana è dedicata una parte apposita (curata da Musella), dove leggiamo che, pur non potendo non “imbattersi nella paradossale polisemia del narcisismo “(67), possiamo distinguere, seguendo Baranger (1991) “tre grandi categorie”: alla prima appartengono le definizioni di narcisismo come destino della libido, la seconda descrive le vicissitudini dell’oggetto in relazione al narcisismo, e la terza raccoglie aspetti caratteriali e psicopatologi.
E’ noto che Freud, dopo aver “depurato dallo stigma di perversione sessuale il termine da Havelock Ellis” (Falci,255), fa del narcisismo uno stadio evolutivo della libido, collocato tra l’autoerotismo e l’amore oggettuale, in cui il soggetto non ama che se stesso; attraverso la metafora dell’ “ameba” (Freud, 1914), quote libidiche possono spostarsi, per tutta la vita, dall’investimento dell’Io all’oggetto, dando origine a stati fisiologici, come il sonno e il narcisismo della malattia, al positivo senso di sé e di autostima, o stati patologici come la psicosi (chiamata sulle prime, infatti, nevrosi narcisistica), l’ipocondria, la megalomania. Il narcisismo primario viene necessariamente superato per la necessità dell’oggetto, nel soggetto non psicotico, ma residuando per sempre una sorta di nostalgia per quella perfezione originaria perduta sotto forma di “Io Ideale”, mentre le rappresentazioni ideali a cui si ambisce in fantasia andranno a confluire nel più maturo “Ideale dell’Io”. Nel dopo Freud, sarà soprattutto il ruolo dell’oggetto ad essere non solo incluso, ma a diventare sempre più determinante nella lettura del narcisismo che, da destino della libido, “assume un’accezione più ampia che si rivolge alla dialettica soggetto-oggetto” (Musella, 70).
Appare qui molto preziosa, a mio avviso, la sottolineatura di Dominique Scarfone che fa notare come, “se guardiamo le cose da questa angolazione, si scopre che Freud e Winnicott non si contraddicono poi tanto, ma descrivono le stesse cose a livelli diversi” (81). L’angolazione a cui fa riferimento l’Autore consiste nel tener conto che anche nella metapsicologia di Winnicott (sebbene egli non la abbia mai chiamata tale), che l’ambiente fallimentare dell’infans “è un ambiente eccitatorio” (81) e che Freud, già a partire dal Progetto (1895), non escluse mail l’altro, l’oggetto (presente come Nebenmensch), “non solo è benefico ma costituisce la parte essenziale del mondo esterno dei neonati, un mondo eccitante dove circolano energie (…) a questa ovvietà Freud non fece costantemente riferimento perché ha sempre saputo che si poteva parlare solo dal punto di vista dell’Io” (Scarfone, 80). Fatta salva, dunque, questa non contraddizione tra Autori che privilegiano il ruolo dell’ambiente e l’orientamento freudiano classico, si può dire che il riconoscimento o meno di un narcisismo primario resti un terreno dibattuto: nasciamo senza oggetti o è gia previsto “un posto per l’altro”? (Di Chiara, 1985). Coloro che si orientano sul terreno metapsicologico freudiano tenderanno a riconoscere l’esistenza di un narcisismo primario, mentre se ne discosteranno coloro che, da Bion fino agli intersoggettivisti, riconoscono fin da subito “la spinta dell’individuo a sintonizzarsi con l’altro” (Civitarese, 50), a tendere all’unisono, at-one-ment; con evidenti ricadute tecniche, tale clima dove prevale il qui ed ora sarà ricercato nel lavoro dell’analista. Questo secondo paradigma viene definito “ontologico (dell’essere)”, rispetto a quello classico “epistemologico (del conoscere, del tradurre da inconscio a conscio)”, secondo la definizione di Odgen (2019)
Altro filone essenziale nel libro è l’attenzione all’attualità e al narcisismo nelle sue espressioni sociali e contemporanee. Proseguendo la riflessione inaugurata dal famoso saggio di Lasch del 1978 sulla “cultura del narcisismo”, si colloca ad esempio il capitolo dell’americana Rachel Peltz che collega un certo narcisismo esasperato del neoliberismo (di cui Donald Trump è il riferimento più pericoloso e perverso) all’erosione dell’assistenza, della solidarietà tra le persone, mentre crescono a dismisura le disuguaglianze economiche. Nelle nostre società, come nelle stanze d’analisi, si assiste così ad un “dolore a cascata” (9), alla presenza inquietante di “equivalenti di morte” (Lifton, 1993), “angosce dell’essere” (Durban, 2014) di fronte a cui il soggetto contemporaneo, sprovvisto di dispositivi simbolici e affettivi, può soccombere. E’ interessante notare come sia proprio all’interno di questo clima che ha generato nuove fragilità, che nasce il pensiero a buona ragione considerato rivoluzionario di Heinz Kohut negli anni ’60, a cui è dedicata la parta quarta del libro. A Khout vanno riconosciuti almeno due meriti, legati tra loro: quello di avere riabilitato il concetto di narcisismo, averlo sottratto a quell’aurea “moralistica” da cui era (e spesso è) circondato come fosse una cosa cattiva dell’essere umano, e quello di averne fatto “una seconda linea di sviluppo” (Meterangelis, 234), parallela allo sviluppo psicosessuale e delle relazioni oggettuali, senza che si escludessero l’un l’altra: il narcisismo non esclude le relazioni oggettuali, ma esistono molte relazioni che sono solo apparentemente oggettuali, sono relazioni che hanno “esclusivamente finalità narcisistiche e non vanno confuse con l’amore per gli altri” (234). Nelle relazioni narcisistiche, che osserviamo così frequentemente, l’altro è sentito come parte del sé, come necessario alla coesione del soggetto, persino alla sua integrità; in quanto regolatore di quella che communente si chiama ‘autostima’, l’altro diventa necessario per stare in piedi, per restare vivi, ma senza venire minimamente visto. A seguire Kohut, gli Autori intersoggettivisti (Moccia, Mollon) indagano l’uso tecnico dei transfert narcisistici con “un approccio integrato che supera la vecchia dicotomia tra un atteggiamento di scontro e un altro di gratificazione del narcisismo”, suggerendo piuttosto “l’uso di una capacità di bordeggiare le illusioni del paziente, unendosi con lui in una forma di relazione giocosa” (Moccia, 248). Si tratta, quindi, di superare la querelle Khout-Kernberg e di vedere nei fenomeni narcisistici e in tutti i loro correlati, non solo transferali ma anche di narcisismo maturo (come l’umorismo e la creatività), il disperato bisogno umano di sentirsi rispecchiati, ammirati, stabili, capaci di ideali ma anche di relative illusioni, di amare gli altri e le cose ma anche se stessi, secondo l’insegnamento biblico di amare l’altro come se stesso, né di più né di meno, una tensione ovviamente ideale che non si raggiunge mai. Alla “cultura del narcisismo” degli anni ’80 di Lasch, come fa notare Mollon, è oggi più specifico parlare di una “cultura dell’immagine”, che imprigiona i soggetti rapiti dai social media in un gioco di sé immaginari, dove ci si sottrae alla realtà per essere visti solo per come si vuole; Mollon fa inoltre opportunamente dialogare la lettura intersoggettivista con Lacan (270), e il suo importante contributo nella fase dello specchio, il ruolo del Padre e del linguaggio, a ulteriore conferma della sostanziale sovrapposizione tra i diversi approcci.
Con il narcisismo, la sua regolazione così delicata e complessa descritta in varie metafore, dall’ameba di Freud, al “pendolo” (Semi, 2007), alla muta subacquea prima citata, abbiamo a che fare tutta la vita, noi e i nostri pazienti; solo nelle sue forme realmente distruttive o del tutto perverse possiamo dire riguardi solo alcuni individui, non di rado pericolosi proprio per la capacità di manipolare gli altri in totale assenza di empatia, come la Storia del 900 ha dimostrato drammaticamente. Potremmo qui parlare della “perversione narcisistica” di Racamier (2004), dove il pervertimento non è della meta sessuale, ma l’altro è usato per far pagare i propri conti, come strumento per eludere i lutti e la dolorosa presa di coscienza della vita. Nelle moltissime altre situazioni che osserviamo, tutti sembrano concordare, attraverso vivaci vignette cliniche, che più di frequente l’analista incontra sé fragili e smarriti, mascherati a volte da grandiosità e arroganza (se di tipo ‘overt’), o nascosti in comportamenti timidi ed evitanti (se di tipo ‘covert’), ma alla cui base sembra sempre residuare la sofferenza originaria del non essere stati riconosciuti, oggetto solo dei godimenti materni o della necessità di accontentare le aspettative elevate dell’ambiente.
Concluderei con la riflessione di Laura Ambrosiano, che allarga i termini del discorso da narcisistico-oggettuale a differenziato-indifferenziato: si nota oggi, osserva, una scarsa spinta all’individuazione, a differenziarsi, a diventare autonomi come “una meta che diffonde grande paura di stagliarsi dallo sfondo e di essere visti” (207). Diventare soggetti significa “diventare visibili agli altri”, e ciò suscita quel sentimento di vergogna così legato, a differenza della colpa, al fragile asse narcisistico. Si potrebbe pensare, suggerisce, che l’enfasi a spostarsi dal polo più differenziato ad uno più informi e indifferenziati oscilli nel tempo, attraversi i diversi momenti storici, trovandoci noi oggi sul crinale della paura a differenziarsi che troviamo soprattutto nei giovani, ma non solo. Che fare? Tenendo conto sia del bagaglio pulsionale, endogeno, dell’individuo, sia del suo mondo ambientale, forse non è inutile, in psicoanalisi, andare “un po’ controcorrente, proporsi come degli eroi capovolti”. Ossia individui “capaci di passare accanto alle mentalità dominanti senza lasciarsene impregnare troppo”, “testimoni sospesi e speciali dell’umanità”, riconoscendo “il diritto elementare ad ogni persona su questa Terra a sparire per un po’ come soggetto separato conscio, a sentirsi un po’ indietro, un po’ di lato (…) disponibilità ad essere un po’ più anonimi nel nostro incontro con i pazienti, un po’ più arretrati…” (219).
Relativo anonimato, in realtà assai difficile da mettersi in atto, che non va visto come oziosa passività o delega, ma può consentire la “metabolizzazione della corrente sessuale appassionata, talora predatoria, con cui si mettono al mondo figli, pazienti, allievi…” (corsivo mio, 219). Cannibali, dice una mia giovane paziente di genitori sentiti come divoranti; ora il mondo per lei è un’immensa bocca che continua a chiedere, e non si può fare altro che disinvestire, azzerare, gli studi, gli amici, i desideri e la sua analisi, sempre a rischio.
Di fronte a questo nero d’amore (Pasolini, 1944) che, come una pennellata, invade la tela bianca di molti soggetti quasi a definire una mutazione antropologica, in accordo con Ambrosiano, conviene alla psicoanalisi assumere la postura etica di allargare lo sguardo, restare sospesi, saper sostare anche nell’indifferenziato.
Bibliografia
Baranger W. (1991): Il narcisismo nell’opera di Freud. Tr. it. In Sandler J., Person E., Fonagy P. (a cura di): Studi critici di introduzione al narcisismo. Cortina, Milano, 1992
Di Chiara G. (1985): Una prospettiva psicoanalitica del dopo Freud: un posto per l’altro. Rivista di Psicoanalisi,31(4):451-461
Durban J. (2014): Despair and Hope: On some varieties of countertransference and enactment in the psychoanalysis of ASD (autistic spectrum children). In: Journal of Child Psychotherapy, 40, 187-200
Freud S. (1895): Progetto di una psicologia. OSF, vol- 2
Freud S. (1914): Introduzione al narcisismo. OSF, vol. 7
Gabbard G.O.; Crisp H. (2018): Il disagio del narcisismo. Trad. it. Cortina, Milano, 2019
Green A. (1982): Narcisismo di vita, narcisismo di morte. Trad.it Cortina, Milano,2018
Lasch C. (1978): The Culture of Narcissism: American Life in Age of Diminishing Expectations. WW Norton & Company, New York
Lifton R. (1993): The Protean Self: Human Resilience in a Age of Fragmentation. University of Chicago Press, Chicago
Odgen T.H. (2019): Ontological psychoanalysis or ‘what do you want to be when you grow up’?. In: The Psychoanalytic Quaterly 88, 4, 661-684
Pasolini P.P. (1944-1949): La danza di Narciso. In: La meglio gioventù. Feltrinelli, Milano, 1993
Racamier J. P. (1991): Il genio delle origini. Trad. it Cortina, Milano 1993