Fatti. La tragedia della conoscenza in psicoanalisi
di Paulo Cesar Sandler
Introduzione di Luca Trabucco
(ed. Alpes, 2022)
Recensione a cura di Marcello F. Turno
Penso che occorra veramente ringraziare Luca Trabucco che ha con determinazione, imparato il portoghese per tradurre magistralmente questo volume, permettendo di creare un fecondo ponte con gli autori brasiliani. Nella corposa introduzione, con richiami fondamentali e chiarificatori sul pensiero di Bion, passando attraverso Kant e Cassirer, anticipa che il Paradosso è l’elemento centrale nel pensiero di Sandler, quello che determina ogni dinamica dell’essere, come divenire, o meglio venire a essere. La compresenza di elementi contraddittori ineludibili. (p. XXVI). Altro tema è quello della Verità, “quel qualcosa cioè, come ci dice Bion, di cui la mente ha bisogno per poter crescere” (p. XXIII), Verità, mi permetto di aggiungere che nel corso della nostra vita sensoriale e psichica si sfiora ma non sempre la si afferra, poiché interferita da molte variabili soprattutto psichiche.
Ma cosa c’entra il settantenne Paulo Cesar Sandler con Bion? In effetti come analista non lo ha mai conosciuto personalmente, ma il padre, analista anche lui, fu attivo partecipante, anche come traduttore simultaneo, ai Seminari Brasiliani. La frequentazione col pensiero di Bion gli permise di maturare, in seguito, una personale amicizia con Parthenope e Francesca Bion, con licenza di accesso alla biblioteca di Bion venendo così a conoscenza dei suoi gusti letterari e filosofici, e potendo studiare con attenzione le note a margine che il loro congiunto aveva segnato nel suo percorso di conoscenza. Ha inoltre tradotto in portoghese molte opere di Bion e ha pubblicato per Karnac The language of Bion pietra angolare per lo studio del pensiero di Bion e la sua espansione sulle sue stesse basi epistemologiche, diverso dai “neo-bioniani” che ne stravolgono i presupposti epistemologici.
Il destino delle idee è il titolo del primo capitolo di FATTI. La psicoanalisi e la tragedia della conoscenza, e già dall’incipit, bisogna dirlo, traspare daPaulo Cesar Sandler quella ironia propria di Bion che ha fatto sicuramente scuola e di cui giocoforza ne diviene un continuatore. L’autore va subito al sodo, diciamolo pure, per sgombrare il campo da ogni equivoco e ipocrisia: la teoria può essere “una moda” che “ostacola l’uso reale delle teorie, offuscando il loro valore scientifico”, tenendo a precisare che Bion è servito come “una specie di sveglia per gli psicoanalisti che esercitavano una psicoanalisi ferma, irreale e sempre conosciuta” aprendo una nuova via agli analisti insoddisfatti di quella pratica psicoanalitica. La stessa genuina trasparenza che apparteneva a Bion, quasi per diapedesi, si evidenzia in Sandler.
L’oggetto del suo discorso è l’analista e l‘essere analista. Almeno nella prima parte il volume appare come una critica a certe “norme” psicoanalitiche utilizzate come “sistemi di controllo” (p. 13) e a modo suo, con la pacatezza che lo contraddistingueva, sembra di sentire Bion quando parla dell’elogio che i moderatori fanno ai protagonisti dei simposi: una sorta di lode-fotocopia buona per tutte le stagioni che trovo necessario citare nella nota a piè pagina[1], affinché ci resti ben impresso nella memoria.
L’esperienza di Sandler che si immerge nel pensiero di Bion conduce a prendere confidenza con un ampio spaccato sulla modalità di essere in analisi e questo conferisce valore aggiunto al volume in questione, in quanto certi concetti di Bion, rimasti poco decifrati nel tempo, appaiono tradotti con più chiarezza. A tratti Sandler appare provocatorio riferendosi alla PS vissuta “come un nemico che deve essere espulso” o debitamente addomesticato “come il produttore delle più accurate interpretazioni” (p. 14), addentrandosi successivamente in quel significato caro a Bion dell’apprendere dall’esperienza con il timore che, anche se analizzato, può essere che un analista non apprenda nemmeno “quello che significhi apprendere dall’esperienza” (p. 15), mettendo in guardia la coppia analitica da una possibile “collusione allucinatoria” determinata dalla fantasia allucinosica dell’identificazione proiettiva, composta di elementi β. Quindi un particolare warning all’uso del controtransfert, spesso monoliticamente idolatrato, ma che può creare una disparità fra analista e analizzato al limite del delirio.
Si lascia invece al lettore scoprire quali specie temute ospita la posizione D, esortandoli allo stesso tempo a lasciare lo spiegare o capire a coloro i quali favoriscono i contenuti manifesti e coscienti.
Secondo Sandler sono quindi certe “mode” che danneggiano la psicoanalisi, appiattendola.
A modo suo si pone come un continuatore piuttosto che innovatore, i cui scritti meritano certamente di essere approfonditi. Nel momento in cui propone il termine “sensare” (p. 32), differente da sentire, invita a distinguere i sentimenti dalle sensazioni, in quanto i primi non sono pertinenti necessariamente al mondo dei sensi, apre un discrimine fra ciò che appartiene al mondo mentale dal mondo concreto, sensorialmente percettibile. Esplicativo appare il caso di una paziente silenziosa, che non parla, ma questo, dice Sandler “non implica che non dica nulla”, anche se lo stesso viene assalito da pensieri e sentimenti di colpa, di essere uno psicoanalista di cattiva qualità. Forse la paziente tentava solo di informarlo, tramite l’identificazione proiettiva, del tipo di sentimenti che inondano una persona che non può parlare. Solo successivamente il silenzio visto secondo una “prospettiva rovesciata”, come suggerisce Bion in Elementi della psicoanalisi, rivela un rumore assordante, simile a quello che si produce in un un luogo rumoroso e confuso, generato dall’identificazione proiettiva. E nel momento in cui li verbalizza a sé stesso si sente libero di osservare il terrore della paziente: il rovesciamento della prospettiva, appunto. Quanto accadde in quella stanza d’analisi viene esplicitato in un’altra stanza, quella del supervisore di Sandler a quei tempi. Alla fine aggiunge: “L’inclusione di questo caso è per: 1) illustrare delle idee sul sentire gli stessi sentimenti, come passo provvisorioverso il sorgere di una qualche intuizione, e la sua elaborazione simbolica, da parte dell’analista; 2) gli effetti di tale atteggiamento in una seduta; 3) esempio di elementi β inintelligibili“.
La ri-analisi, un costante motivo all’interno di questo volume, quale strumento per poter avvicinarsi il più possibile alla comprensione del paziente.
Ci si rende conto nel procedere nella lettura della continuità del pensiero di Bion e della ricchezza di come operare in seduta, grazie anche agli argomenti che Sandler affronta come, per esempio, la funzione anti-αconsiderata “una delle armipiù poderose a nostra disposizione nel caso in cui lo scopo sia eliminare la conoscenza reale”. (p. 59) La funzione anti-α ha il potere di congelare istantaneamente ciò che in precedenza era vivo, essa concretifica, trasforma la paura in oggetti concreti, da poter tenere sotto controllo, piuttosto che confrontarsi con nemici di cui non si può neanche pronunciare il nome. Il suo non è uno sguardo attraverso una lente di ingrandimento, ma di un microscopio ad alta risoluzione per mostrare quanto sia viva nelle menti di una generazione intera di psicoanalisti la devozione a un autore nella sua concretezza come se fosse “un idolo o una teoria suprema che ha bisogno di essere ripetuta meccanicamente e/o ritualisticamente”. La funzione anti-α viene definita come la responsabile di una psicoanalisi preconcetta, “saccente, con spiegazioni preconfezionate, razionalizzazioni, istituzioni concrete e verità” che si sono incarnate nell’intero establishment psicoanalitico. Appare chiaro che il lavoro di Sandler ha la funzione nettante di un rasoio di Occam che usando il metodo del togliere caro a Freud focalizza una originale figura di psicoanalista nei cui panni molti vorrebbero ritrovarsi. Non manca di mettere in guardia verso conversazioni vuote e collusive “spiegazioni superficiali che trasudano erudizione e autorità – ma non va ad accadere nessuno sviluppo mentale” (p. 71), rivolto anche a gruppi di psicoanalisti “che agiscono in modo maniacale in incontri psicoanalitici” (ivi).
Una nota a parte merita uno stralcio di seminario condotto da Sandler a Porto Allegre (in Appendice) dove in un interessante scambio di idee con la platea dirime ogni dubbio sulla non-scientificità della psicoanalisi. Le critiche mosse a Popper, Khun e Lacan appaiono plausibili rafforzando il metodo scientifico della psicoanalisi visto come “un metodo che permette di presentare l’individuo a sé stesso” (p.110), sostenuto da osservazioni su Kant, Platone e i fisici. Ci si è spesso chiesto come la presenza di un fisico possa influenzare il campo del suo esperimento, poiché certamente lo influenza, e come questa interferenza possa essere valutata. Sandler afferma che Freud si pose questo problema prima di Planck, Einstein e Heisenberg. Per cui grazie al metodo di Freud, che certamente non ha scoperto l’Edipo ma la psicoanalisi, gli analisti cercano di conoscere le caratteristiche di loro stessi in quanto osservatori: “Siamo stati pionieri in questo, nella scienza. Per sapere come stiamo interferendo nell’osservazione del fenomeno, faremo la nostra analisi personale.” (p. 130). Ritorna quindi, come nelle pagine iniziali, a come si diventa psicoanalisti, a come ci si comporta in questo ruolo fornendo interpretazioni – giustamente chiamate ipotesi – e di come queste ipotesi, grazie alla risposta del paziente, possano essere testate, poiché “ne abbiamo bisogno di una sola”. La catena associativa che il paziente sarà in grado di produrre dimostrerà come l’ipotesi dell’analista ha funzionato. Quindi un occhio molto critico e attento alla formazione dell’analista, dove elementi falso sé devono essere messi al bando. Forse in questa maniera si riesce a comprendere anche il senso della rottura di Bion con la società psicoanalitica anglosassone, motivandolo così ad andare negli Stati Uniti prima e in Brasile dopo, con la convinzione che l’intera psicoanalisi potrebbe non essere che una vasta paramnesia che prende il posto della nostra ignoranza (In Evidence, 1976). Quindi per evitare ogni ombra di impostura, il problema della psicoanalisi non è la conoscenza, ma dire la verità. Una verità che non sia solo buona per il paziente, ma soprattutto per l’analista.
FATTI, che tanto evoca “O is a fact” di Bion, è un’opera necessaria, potente, che ha geneticamente segnato il suo destino nel divenire un caposaldo della psicoanalisi contemporanea.
“Non vi è nulla di stabile nel mondo; il tumulto è la nostra unica musica” (Keats, 1818)
Bion W.R. (1963). Elementi di psicoanalisi Armando, Roma, 1973
Bion W.R. (1975-1980) Memoria del futuro, Cortina, Milano, 1993-2007.
[1] “Signore e Signori, abbiamo appena ascoltato un lavoro molto interessante e molto stimolante. Ho avuto il grande vantaggio di poterlo leggere in anticipo e, anche se non posso dire di essere d’accordo con tutto quello che dice il Dottor X” (essenzialmente perché non ho la minima idea di che cosa lui pensi sia l’oggetto del suo discorso e sono dannatamente sicuro che non ce l’abbia nemmeno lui), “ho comunque trovato la sua presentazione estremamente – hemm – stimolante. Ci sono molti punti che mi piacerebbe discutere con lui se ne avessimo il tempo” (grazie a Dio non ce l’abbiamo) “ma so che ci sono molti qui che sono ansiosi di poter intervenire” (in particolare i nostri rompiscatole ex-officio, in servizio permanente effettivo, che finora nessuno è riuscito a ridurre al silenzio) “per cui non devo rubare troppo del nostro tempo. C’è, però, almeno un punto rispetto al quale vorrei conoscere l’opinione del Dottor X se può essere così gentile da dedicarmi un po’ del suo tempo.”
[Senza data – 1969] pag. 305. In: Bion W.R. (1996) Cogitations. Roma: Armando.