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“Etiche della psicoanalisi”di L. Fattori e G. Vandi. Recensione di A. Braun

7/09/22
"Etiche della psicoanalisi" di L. Fattori e G. Vandi

“Etiche della psicoanalisi”

A cura di Lucia Fattori e Gabriella Vandi

(Alpes ed., 2022)

Recensione a cura di Andrea Braun

La storia della psicoanalisi è costellata da violazioni del limite, condotte abusive che non possono essere relegate nel passato e attribuite ai soli pionieri. Ogni istituto o società psicoanalitica deve fare i conti con la scoperta che siamo tutti potenzialmente vulnerabili (Gabbard G. O. in: De Giorgi C., Masina L., Sessarego A. a cura di, 2022)[1]: le trasgressioni accadono, spesso ai vertici della gerarchia istituzionale. Non possiamo liquidare gli abusi attribuendoli a pochi colleghi corrotti e alla loro psicopatologia. La stesura di un codice etico IPA condiviso, approvato dall’esecutivo nel 1998, e recepito dai codici deontologici delle singole società affiliate, è un’acquisizione relativamente recente[2].

Lungamente attesa dunque l’uscita di un volume come Etiche della psicoanalisi, curato da Lucia Fattori e Gabriella Vandi per i tipi di Alpes nella collana Psicoanalisi e fede.

Questo testo dovrebbe occupare un posto preminente nelle librerie dei nostri studi, non solo perché fornisce ricchi spunti alla riflessione clinica, ma anche per come sa proporre l’applicazione dei principi etici della psicoanalisi all’etica sociale.

Infatti il volume si articola in quattro sessioni e si accosta da diverse angolature alle forme dell’etica nella psicoanalisi.

Nel primo contributo: “Le molteplici forme dell’etica psicoanalitica”, Lucia Fattori, con una notevole capacità di sintesi, ci prospetta un ventaglio di prospettive da esplorare.

D’obbligo la partenza con il richiamo a Freud. In una lettera indirizzata a Putnam egli afferma: “il grande elemento etico nel lavoro psicoanalitico è la verità e ancora la verità”. Ci possiamo chiedere: verità intesa nel senso di far affiorare il rimosso per confrontarci con essa? Oppure verità intesa come ricerca dell’autenticità, del vero Sé?

L’affermazione di Freud si presta a molteplici declinazioni, anche perché i modelli psicoanalitici post freudiani differiscono largamente tra loro. Così, ad esempio la corrente che mette al centro il processo evolutivo può esprimere la valutazione della maturazione raggiunta dall’individuo attraverso un approccio moralistico e giudicante.

Freud stesso si è dichiarato alieno da considerazioni etiche, eppure con l’affermazione – “Wo Es war, soll Ich werden”, tradotto da Fattori con: “là dove c’era l’Es, lì arrivi l’Io” – apre alla prospettiva della soggettivazione e propone un lavoro culturale nel senso di un allargamento del dominio dell’Io.

L’autrice ravvisa alcune caratteristiche nell’etica implicita della psicoanalisi che la accumunerebbero all’etica cristiana. Tali caratteristiche vanno oltre il processo di sublimazione, la rinuncia pulsionale e il superamento del complesso di Edipo che rimandano a “quell’etica ebraica che è un’etica del divieto dell’immagine e dell’interdetto della rappresentazione” (4). Fattori nella sua riflessione sembra prediligere “un’etica dell’amore e della reciprocità e un’etica del perdono”, che confluirebbero nell’etica della responsabilità, attraverso un’acquisizione progressiva della capacità di tollerare il limite.

L’etica freudiana è l’argomento che Roberto Contardi indaga accuratamente con una ricca bibliografia da cui si evince come i pilastri fondamentali messi in evidenza dal fondatore della psicoanalisi (1922) indichino già la dimensione etica della nostra disciplina. La ricerca della verità (Freud, non dimentichiamolo, parlava di verità al plurale: “Wahrheiten aufdecken”) rimanda alla rimozione del complesso edipico. Contardi ci ricorda quanto sia inequivocabile il significato della verità: “Il nostro compito terapeutico consiste nel portare il nevrotico a conoscenza degli impulsi inconsci e rimossi che esistono in lui” (32), per sottolineare la specificità di un trattamento terapeutico in cui la scoperta della verità (edipica) è anche la via regia verso la guarigione.

Un taglio originale contraddistingue il contributo di Sarantis Thanopulos, laddove riflette sull’etica del desiderio per rimarcare: “Desideriamo, insieme al desiderio dell’altro, anche che egli sia desiderante, il che implica la sua libertà di desiderare altro da noi”. Questa posizione presuppone una soggettivazione avvenuta e si traduce nel riconoscimento che il nostro desiderio deve fare i conti con il desiderio altrui: ci può includere o escludere.

Molto puntuale il saggio di Alberto Sonnino, alla ricerca dei punti di contatto tra etica psicoanalitica ed etica ebraica. Tra le molteplici forme dell’etica elencate da Fattori, egli considera principalmente quelle fondate “sul rispetto del limite e sull’assunzione delle proprie responsabilità” (69), due forme che connotano l’etica ebraica. La scoperta della verità, che per Sonnino rimanda al confronto tra proprie parti buone e cattive, dovrà consentire al soggetto di farsi carico dell’elaborazione soggettiva del conflitto. All’inizio del suo contributo, egli considera un passaggio, tratto dal Deuteronomio, che definisce la distinzione tra bene e male: “di fronte alla vita, il bene, e alla morte, il male” (69). Pensiero questo che ritroviamo nella differenziazione proposta da Green tra narcisismo di vita e narcisismo di morte.

Illuminanti alcune precisazioni che distinguono l’etica della rinuncia nel cristianesimo dall’etica del rispetto del limite nella tradizione ebraica. Nella rinuncia si accentua il sacrificio, mentre nell’accettazione del limite si valorizza l’assunzione della responsabilità e il riconoscimento dell’autodeterminazione (limitata) del proprio destino. Nel cristianesimo viene enfatizzato l’invito a perdonare il malfattore, mentre nell’ebraismo molta attenzione viene riservato alla capacità di riconoscere il danno causato e di attivarsi per ripararlo. Solo in seguito a questo passaggio il perpetratore può aspirare al perdono. Due impostazioni che divergono in maniera sostanziale.

Questo filone viene approfondito peraltro nella terza parte del volume, formulato come quesito: “Etica del perdono?”

Spicca un lavoro stimolante e profondo di Stefano Bolognini. Una prima versione dell’articolo è stata esposta nel 2001 a Bologna, alla “Giornata sulla Riparazione”. Ascoltandolo in quell’occasione, mi aveva evocato le recenti guerre jugoslave che, dopo la scomparsa di Tito hanno portato, tra il 1991 e il 2001, alla disgregazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

Il tema affrontato da Bolognini: “Perdono comportamentale, perdono interiore” situa la riparazione in un contesto relazionale e sociale. L’autore chiarisce fin da subito cosa intende per perdono “vero”. Esso non può prescindere dall’assunzione di responsabilità per il danno causato alle vittime, accompagnato dal rammarico sentito e dalla “ri-assunzione dolorosa […] del male inferto” (145).  L’opposto dunque dell’oblio volto a cancellare e a negare, che rimanda al perdono immaturo e a false riparazioni, basati sull’illusione che si possa scavalcare la realtà psichica di chi il male ha subìto. L’esergo, una citazione di Glauco Carloni, lo esplicita: “la riparazione, per essere autentica, non può eludere l’accettazione della perdita e del lutto, rinunciando a utilizzare diniego, magia e crudeltà” (145). Impossibile dimenticare gli scenari di guerra ai quali assistiamo impotenti, che ci costringono a riflettere sui tempi lunghi richiesti per riparare la distruzione in corso.

Anche di questo Bolognini ci parla attraverso un riferimento storico. Ci ricorda, infatti, che l’IPA ha aspettato che fossero passati quarant’anni dopo la seconda guerra mondiale, prima di considerare nuovamente la possibilità di scegliere la Germania (Amburgo nel 1985) come sede di uno dei congressi internazionali, dopo un “intenso e doloroso percorso di ricordo, elaborazione e assunzione di responsabilità storica riguardo alla tragedia nazista” 157). Riecheggiano queste parole di fronte a chi, oggi, nella nostra comunità psicoanalitica, fantastica ingenuamente di poter far sedere allo stesso tavolo per un confronto scientifico psicoanalisti ucraini e russi, senza cogliere la dimensione della devastazione che il conflitto armato in atto continua a creare nei gruppi e negli individui.

Bolognini ci segnala come solo nel 2007, altri ventidue anni dopo Amburgo, poté svolgersi un nuovo congresso IPA a Berlino segno, forse, di un profondo e vero perdono, ma evidenzia in conclusione del suo lavoro che questo processo “intermittente e soggettivo, avrà avuto e avrà comunque i suoi tempi privati e segreti per ogni persona, tempi che non potevamo allora e non possiamo ancora oggi veramente conoscere” (158).

Nella terza parte segue poi un lavoro interessante di Amione e Cusin, che s’interrogano sull’evoluzione dalla vendetta al perdono in una lettura bioniana della terza parte dell’Orestea di Eschilo. Nel loro percorso le autrici agganciano la tragedia a interrogativi sull’attualità. Ci mostrano la fragilità della trasformazione da Erinni in Eumenidi e segnalano che “Il Super-Io sadico è sempre in agguato e la democrazia non è una certezza conquistata per sempre, ma deve essere mantenuta educando, conservando e sviluppando il senso di responsabilità” (196). Quanto scritto mi ricorda l’impresa coraggiosa del regista svizzero Milo Rau, attualmente direttore artistico del teatro NTGent in Belgio. Subito dopo la liberazione della dittatura dell’Isis a Mosul, Rau inizia le prove di Orestes in Mosul con la partecipazione di attrici e attori iracheni. La rappresentazione della trilogia rimanda a scene di violenza nel cuore della città, evidenziando il doloroso parallelismo tra la tragedia di Eschilo e la guerra civile scatenata dalla strategia espansiva del califfato. Come sarà possibile interrompere il circolo vizioso della violenza, è stato l’interrogativo che ha accompagnato Milo Rau e la troupe nel loro accostarsi al testo.

Anche Susanna Messeca in “Non c’è futuro senza perdono” si riallaccia all’Orestea, quando considera l’esperienza sudafricana dell’apartheid, nel cui nome furono commessi crimini contro l’umanità. Il timore che le tensioni sociali potessero innescare una guerra civile interrazziale dopo il crollo del regime è stato affrontato da Tutu e Mandela attraverso l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione. Essi decretarono “un’amnistia per tutti i colpevoli del passato regime, purché riconoscessero i loro crimini e chiedessero di essere perdonati” (205). La valutazione positiva di avere saputo contenere le tensioni sociali all’epoca dovrebbe comunque comprendere una valutazione a distanza di tempo. Attualmente si osserva una crescente spirale di violenza che attraversa il Paese. Ricordo una discussione vivace al Centro Veneto di Psicoanalisi con Pumla Gobodo-Madikizela, titolare della cattedra di ricerca in Studies in Historical Trauma and Transformation presso la Stellenbosch University in Sud Africa. Gobodo-Madikizela è stata componente della  Commissione per la verità e la riconciliazione. Ha seguito con dei colloqui il caso di De Kock, un ufficiale autorizzato dal regime dell’apartheid a commettere assassini su ampia scala, motivo per cui è stato condannato per crimini contro l’umanità. Il suo rilascio, nell’ambito della politica del perdono, è stata l’occasione per porre la questione se quest’approccio non potesse veicolare il messaggio di un’abolizione del limite, limite che si associa anche alla punizione del criminale e favorire così in ultima analisi, una recrudescenza della violenza.

L’esperienza psicoanalitica in Svizzera negli anni 1970-1990, con esiliati latinoamericani che avevano subìto traumi estremi, orienta le riflessioni di Silvia Amati Sas.  L’autrice segnala che “La cura ci pone, dunque, nella condizione di testimoni non neutrali di fronte a qualunque tipo di abuso, compresi gli abusi compiuti dal paziente su qualcun altro o i nostri stessi eventuali abusi su di lui” (160). Amati Sas delinea in che modo l’etica psicoanalitica possa fornire un modello e offrire “un appoggio eticamente alternativo per elaborare l’esperienza estrema, ossia il cinico attacco-abusivo alla sua soggettività e la sua manipolazione a livello trans-soggettivo da parte del gruppo sociale, di cui anche noi facciamo parte (160)”. Amati Sas si prefigge di ripristinare nei suoi pazienti il funzionamento psichico e l’affrancamento dall’assoggettamento al perpetratore. Nell’approccio dell’autrice molta attenzione viene riservata all’interazione tra individuo e contesto sociale che comporta l’integrazione di vari livelli di osservazione: dall’intrasoggettivo all’intersoggettivo fino al trans-soggettivo.

In Bleger dapprima e successivamente in Berenstein, Puget e Kaës et al., ella trova i tasselli per affrontare l’allarme etico che l’analista sarà auspicabilmente in grado di registrare. Amati Sas si augura che esso possa sfociare in un’ ”etica della sfida” (161). Si riferisce ad una situazione complessa grazie alla quale diventa possibile uscire dall’ambiguità accomodante, falsamente pacificante e provare indignazione e vergogna di fronte a scenari perversi. Intenso e toccante il materiale clinico presentato nel testo. Va da sé che questa visione si pone in una dialettica critica con l’enfasi sul concetto di neutralità in psicoanalisi. Di fronte alla violenza sociale l’analista è chiamato a sbilanciarsi e a indignarsi a fianco del paziente!

Una sessione che mi è sembrata particolarmente interessante è rivolta a “Etica dell’analista”.

Rita Corsa ricorre alla sua ben nota competenza storica per rileggere una pagina nera della nostra disciplina con il caso di Sabina Spielrein. La ferita narcisistica inferta da Freud all’umanità con la scoperta che l’Io non è padrone in casa propria, non vale solo per i pazienti, ma concerne anche l’analista. Il training non elimina la vulnerabilità e non possiamo illuderci di avere conquistato un assetto stabile, in grado di contrastare gli agiti una volta per sempre. Ripercorrere l’esperienza tragica di Spielrein è un monito. Ci interroga su come l’istituzione possa aiutare il singolo terapeuta a chiedere aiuto quando si accorge di operare “piccole violazioni” del setting che dovrebbero allertarlo e scongiurare le trasgressioni irreparabili attraverso il ricorso a supervisioni o intervisioni. Il testo di Corsa testimonia il desiderio di affrancare Spielrein dall’emarginazione e da un ruolo stigmatizzante che Freud e Jung le hanno assegnato.

Di “Effrazioni etiche e vulnerabilità dell’analista” si occupano in maniera approfondita Luisa Masina e Gabriella Vandi nell’ottica della responsabilità che nella coppia analitica spetta al terapeuta. Le colleghe richiamano l’attenzione sul percorso formativo dell’analista, necessariamente formazione permanente. La funzione analitica “è una funzione della mente non esistente nell’uomo in forma naturale, ma creata attraverso il lavoro analitico” (83) e proprio per questo anche esposta a logoramento. Le autrici si soffermano su variazioni del setting che possono sfociare in effrazioni critiche e irreparabili. Mettono in evidenza come in frangenti problematici della vita come ad es. lutti, separazioni, invecchiamento e malattia, la fragilità dell’analista può tradursi nel pretendere compensazioni da parte del paziente. Rispondere alla sofferenza e al dolore dell’Altro, senza aspettarsi reciprocità, rimane una componente essenziale dell’etica psicoanalitica. Le autrici ribadiscono infine l’importanza dell’ineludibile interminabilità della nostra autoanalisi per salvaguardare l’oggetto d’amore scelto: la psicoanalisi.

Mi rendo conto che per motivi di spazio non potrò entrare in merito ad altri lavori importanti, come quello di Cesare Secchi su “Riflessioni sul posizionamento laico dello psicoanalista” in cui egli si confronta con gli assetti psichici ideologici dell’analista che possono condizionare l’ascolto. Devo tralasciare anche la parte conclusiva, dedicata a Etica e psicoanalisi, in cui confluiscono i lavori pregevoli di Stanzione Modàfferi e Leonelli Langer.

La prima in “Etica e anetica della psicoanalisi”, entra in merito ad un argomento fondamentale ovvero la trasmissione del sapere in psicoanalisi, mentre la seconda, nella sua rilettura del pensiero di Franco Fornari, stabilisce un collegamento audace ma convincente tra il concetto di Terrificante assoluto e la lotta della nuova generazione contro lo sfruttamento predatorio indiscriminato di risorse e materie prime, l’inquinamento dell’atmosfera e la produzione di rifiuti tossici che minano la sopravvivenza dell’umanità intera. L’impegno di combattere lo scenario da finimondo veicola una speranza riparativa e creativa volta a salvare la vita della madre terra, che rimanda al passaggio già citato dal Deuteronomio “di fronte alla vita, il bene, e alla morte, il male”.                  


[1] Cosima De Giorgi, Luisa Masina, Antonella Sessarego (a cura di): Dialogando con Glen O. Gabbard. Roma, Alpes, 2022

[2] https://www.ipa.world/ipa/en/IPA/Procedural_Code/Ethical_Principles.

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