Emergenze borderline. Istituzione, gruppo, comunità
Franco Angeli, pp. 235 ,(2012)
Recensione di Laura Contran
Per lo psicoanalista che lavora (o ha lavorato) nell’Istituzione Emergenze borderline, curato da Cono Aldo Barnà e Giuseppe Corlito (con Prefazione di Stefano Bolognini e Introduzione di Antonello Correale), costituisce un’occasione di lettura meritevole di particolare attenzione per almeno tre buoni motivi. Innanzi tutto sono piuttosto rare e perciò preziose, le testimonianze di coloro che quotidianamente nell’istituzione si trovano ingaggiati in un lavoro emotivamente faticoso e difficile, a contatto con “pazienti di arduo cimento e di severo impegno” (33).
Il “fenomeno borderline”, come viene ricordato, è ritenuto a tutti gli effetti non solo una categoria nosografica, ma anche una sindrome psico-sociale, emblematica dell’epoca in cui viviamo, che ha messo in crisi sia l’organizzazione dei servizi di salute mentale sia la stessa modalità di lavoro dei singoli operatori sanitari.
In secondo luogo il libro offre una descrizione ampia e dettagliata, ricca di riflessioni, sul lavoro svolto da un gruppo multidisciplinare, contenitore di culture e vertici di osservazione differenti, che nel suo procedere ha privilegiato la logica dell’inclusione e dell’integrazione delle diverse professionalità.
Il terzo motivo è che “il progetto borderline” è la testimonianza che nonostante le difficoltà
incontrate nel percorso, la sua realizzazione si è resa possibile grazie alla fiducia e alla passione degli operatori che vi hanno aderito, superando gli scogli rappresentati dalle appartenenze di categoria, dai diversi linguaggi tecnico-professionali e dalle strategie di politica “aziendale” ed economica.
Questo volume nasce quindi da un impegno collettivo che ha visto coinvolte le diverse equipe del Dipartimento di Salute mentale di Grosseto (psichiatri, neuropsichiatri infantili, psicologi, infermieri, assistenti sociali) impegnate nell’attività clinica, di studio e di ricerca sul trattamento e la gestione dei pazienti borderline. Nato dieci anni fa come gruppo di supervisione condotto da Cono Aldo Barnà, si è trasformato nel tempo “in un tavolo di lavoro, programmazione, regia e valutazione della gestione di casi borderline in carico ai vari servizi del Dipartimento” (19).
L’esperienza ha come elemento di continuità – temporale e metodologica – la supervisione del gruppo allargato che, insieme alla psicoterapia e al lavoro di rete, costituiscono i punti “forti” del progetto.
La parte iniziale del volume è dedicata a un’attenta ricostruzione storica, nell’ambito delle discipline psicologico-psichiatriche, della sindrome borderline nei suoi aspetti diagnostici, fenomenici ed etiologici, fino ad arrivare agli studi e alle ipotesi teorico-cliniche più recenti.
Diversi autori (tra cui Kernberg, Bergeret) ritengono che la patologia borderline si connoti “come una modalità di funzionamento intrapsichico specifico e stabile nel tempo, caratterizzato da una costellazione tipica di meccanismi di difesa e deficit nelle relazioni affettive” (78). Altri autori invece propendono per teorie più integrate, ipotizzando un’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali (86). Resta così un margine d’incertezza: la verità sui borderline è ancora una “verità nomade” (80) che non ha trovato a tutt’oggi una propria identità clinica ben definita e in questo senso lascia aperto un campo di indagine tutto da esplorare. Quello che possiamo constatare e a cui dobbiamo far fronte è la varietà e la gravità dei sintomi attraverso cui si esprime questa
forma di disagio psichico: il senso del vuoto, la frammentarietà nella percezione della realtà, la discontinuità nelle relazioni, gli agiti (auto)distruttivi. Una complessità che rende il più delle volte inefficaci o insufficienti gli strumenti terapeutici classici (farmacologici, psicoterapici), e la stessa psicoanalisi viene sfidata nella sua capacità di rielaborare, e di produrre nuove forme di sapere.
Non per questo si tratta di rinunciare ai principi fondamentali e alla ricchezza del pensiero psicoanalitico, ma neppure di aderirvi dogmaticamente. La tesi di fondo espressa in questo libro è che sia necessario attingere (e quindi includere e integrare) a modelli e contributi anche lontani ma utili “alla ricerca di comprensioni ulteriori relative alla ricchezza ma anche alla complessità relazionale, interpersonale e intersoggettiva nel contesto psicoterapico e/o terapeutico in genere” (38).
Nei numerosi lavori presentati, ciascuno dei quali affronta un tema specifico, ricorrono due elementi, o meglio due dimensioni della cura che potremmo definire cruciali: lo spazio e il tempo.
Il setting a cui si fa riferimento non è quello classico bensì il setting istituzionale che prevede luoghi diversi per la cura. Ma come viene giustamente sottolineato questi luoghi, per assumere un’autentica valenza terapeutica, devono potersi trasformare in spazi simbolici e affettivi, “ove instaurare un pensiero che comprenda il disagio, a partire dall’esperienza emozionale degli stessi operatori. Il setting istituzionale coinvolgerà a diversi livelli il paziente, i familiari, la rete sociale e tutte le risorse presenti sul territorio, che diventeranno parte integrante del processo terapeutico” (109).
Inoltre, ci vuole tempo per costruire un legame stabile (di alleanza terapeutica) con pazienti estremamente fragili con “precoci vissuti traumatici”, spesso provenienti da ambienti familiari carenziali che necessitano, a loro volta, di un supporto o di una cura. Occorre darsi del tempo per ascoltare, per capire e decidere quale progetto terapeutico sia più idoneo per ciascuna situazione clinica, in controtendenza con “l’imperante ideologia dell’aggressione al sintomo e del riduzionismo evidence-based” (129).
In questo scenario multiforme, la supervisione del gruppo allargato viene a svolgere una funzione fondamentale: nel creare uno spazio di pensiero condiviso, produce una “meta-lettura” e grazie al “funzionamento riflessivo” del gruppo permette “una posizione più integrata e consapevole attraverso una capacità del gruppo di leggere i movimenti controtransferali nei confronti del paziente” (63).
L’ultima parte del volume raccoglie una sintesi di tutti i casi seguiti nel corso degli anni,
ripercorrendo la storia, gli interventi terapeutici di ciascun paziente, gli elementi significativi emersi negli incontri di supervisione fino alla conclusione ( e relativi esiti) dei trattamenti.
Al termine della lettura, ci troviamo in pieno accordo con Stefano Bolognini quando sostiene che in presenza di un lavoro capillare e silenzioso svolto dallo psicoanalista con gli operatori delle equipe psichiatriche, “vi è un’assenza di riconoscimento istituzionale, prossima al paradosso”.
Possiamo solo aggiungere che il valore dell’esperienza raccontata in questo libro è duplice in quanto viene ad assumere un significato non solo clinico ma culturale in senso più ampio. In un momento storico caratterizzato dalla “frammentazione” e della disgregazione, questa impresa, a partire dal disagio psichico, ha saputo creare una rete di legami sociali, riuscendo a sensibilizzare e a coinvolgere la comunità. Non rimane che auspicarci che tale iniziativa abbia un seguito e sia da stimolo e avvio per la realizzazione di altri nuovi futuri progetti.
Gennaio 2012