Massimo Recalcati (2007)
Mondadori, pagg. 125
Cosa significa – o significherebbe – per il soggetto umano, vivere senza inconscio?
Cosa sarebbe un uomo "se l’inconscio si estinguesse?".
E’ sulla scia di queste domande che si apre il piccolo saggio, o meglio il pamphlet, di Massimo Recalcati, apprezzato Autore di formazione lacaniana particolarmente sensibile ad interrogarsi circa lo statuto odierno della psicoanalisi.
Sarebbe una catastrofe, è la risposta. Un uomo senza inconscio, prosegue l’Autore, «sarebbe davvero l’incarnazione di un uomo grigio incapace di sogno, dunque di desiderio.« […] Non c’è, in effetti, per la psicoanalisi malattia più terribile che questa: vivere senza avere accesso al proprio desiderio».
Elogio dell’inconscio è uno di quei libri che, per il loro essere divulgativi, brevi e al tempo stesso profondi, si spera finiscano sotto gli occhi di quanti più lettori possibili.
Con lo stile, appunto, del pamphlet, scorrevole e facilmente leggibile, Recalcati fa seguire a questo inquietante interrogativo d’apertura (che ne sarà dell’uomo senza inconscio?) un’appassionata difesa della psicoanalisi, non intesa in termini generici o riduttivamente curativi, ma attraverso la difesa di quello che è indiscutibilmente il suo oggetto specifico: l’inconscio. Il discorso si snoda, con molta agilità, attraverso dodici capitoletti, ciascuno dei quali puntualizza, con semplicità ma anche con estrema precisione, a mio avviso, un carattere peculiare dell’inconscio, un elemento che, insieme agli altri, contribuisce a darne quello statuto di assoluta irriducibilità e necessità: abbiamo bisogno di questa istanza psichica, scoperta da Freud, che chiamiamo inconscio. Abbiamo bisogno di difenderla, noi analisti, dagli attacchi di quello che l’Autore chiama lo "scientismo contemporaneo", ma anche dalle tentazioni omologanti della contemporaneità, dalla seduzione delle psicoterapie, da tutti i numerosi tentativi di svuotare la psicoanalisi di senso e ragione di esistere. Poichè la psicoanalisi si identifica primariamente con l’esplorazione dell’inconscio, è solo difendendo ed elogiando la primarietà dell’inconscio che difendiamo la psicoanalisi e la sua sopravvivenza.
L’inconscio di cui parla l’Autore è l’inconscio freudiano (precisazione appassionata nel libro, e a mio parere non superflua). Esiste un solo inconscio, anzi, e cioè quello scoperto da Freud: una scoperta a tutt’oggi rivoluzionaria. Inconscio freudiano che non ha nulla a che vedere con l’inconscio romantico inteso come zona oscura, umbratile, da scoprire e sfuggire al tempo stesso, o con l’inconscio banalizzato del linguaggio comune. L’inconscio di cui noi ci occupiamo è un’istanza psichica ben definita, «una ragione dotata di un suo proprio rigore etico e di una sua propria grammatica» (2), che parla una lingua estranea al soggetto, straniera, ma che tuttavia parla, preme per esprimersi e lo fa attraverso atti mancati, lapsus, sogni, sintomi, o il transfert se siamo nella situazione analitica. Uno straniero dentro di noi con un suo proprio linguaggio e rigore etico. Cosa vuol dire?
Molto forte e ripetuto, nel libro, è l’accento all’Etica. Trovo questo punto, in sé affascinante, straordinariamente attuale e importante, un richiamo che credo nelle intenzioni dell’Autore vada aldilà del riferimento al testo lacaniano del 1960 «L’Etica della psicoanalisi», e certo non coincide con il senso della morale comunemente inteso. L’Etica di cui il soggetto umano ha bisogno per vivere, con se stesso e con gli altri, è un concetto strettamente legato alla necessità di un inconscio: lungi dal costituire un alibi, l’inconscio freudiano ci radica nella responsabilità personale, ci costringe a prenderci sul serio, a confrontarci con la nostra "impurità pulsionale". Contro la "deriva paranoica" del mondo contemporaneo, che delega e attribuisce sempre all’altro (lo straniero, il diverso, il mio vicino) ogni emozione scabrosa e disturbante, la scoperta dell’inconscio ci obbliga, al contrario, a riprenderci le nostre proiezioni e a farci carico delle nostre pulsioni. «Il vero passo compiuto da Freud – scrive Recalcati – è di tenere insieme una visione indebolita del soggetto ed una radicalizzazione della responsabilità etica» (27).
Di Etica, psicoanaliticamente intesa, si avverte oggi un grande bisogno, la si invoca da più parti, nella società, nella politica, nelle coscienze individuali. Anche di "identità" oggi si fa un gran parlare, con pericolosi rigurgiti di ipertrofie identitarie che spuntano qua e là. Il discorso psicoanalitico si pone dunque come estremamente cogente e attuale (tema sollevato anche dal sociologo iek nel suo ultimo libro), contrariamente a quanto comunemente si lamenta circa la crisi della psicoanalisi, proprio perchè è l’unico discorso forse in grado di tenere insieme ("tenant liens", definiva Lacan l’inconscio, luogo dove si tengono i legami tra le cose) l’idea di un’identità comunque esiliata in partenza, quella umana ma portatrice anche di un’irriducibile responsabilità.
Nell’ambito della cura, viene sottolineata con incisività l’autonomia della psicoanalisi, la sua radicale differenza dalla/dalle psicoterapie, altro luogo comune in cui la spinta all’omologazione (oltre a vari altri fattori qui non indagati) rischia di condurci. Il discorso sarebbe ampio e complesso, e l’Autore non entra nel dettaglio delle differenze tecniche o specialistiche, ma solo si sofferma sulla diversità sostanziale: la psicoanalisi non solo non promuove alcun adattamento, evita di principio ogni direttività o pedagogia, ma quasi ribalta il discorso in quanto vede nel sintomo una frattura potremmo dire "parlante" dell’inconscio del soggetto, non necessariamente da sopprimere ma semmai da tradurre, di cui svelare i significati e i guadagni secondari. La psicoanalisi non è una cura della felicità o dell’adattamento sociale, e l’elogio dell’inconscio si pone in radicale distanza dalle psicologie dell’Io americane, così come dal pericolo delle attuali derive intersoggetivistiche (segnalato, di recente, da Riolo, Green e altri).
Mi piace citare una voce di ambito extra-analitico che il libro mi ha evocato, quella dello scrittore Giorgio Manganelli, il quale attraversò la sofferenza mentale, e si chiedeva: "E’ la psicoanalisi una psicoterapia? Ne dubito. Da lunga esperienza a "parte obiecti" ho ricavato un’impressione del tutto diversa, e drammaticamente diversa. Non si va dall’analista come si va dal medico, per essere "curati", e tuttavia si va dall’analista perché si soffre. […] Direi che l’analisi sostituisce ad una sofferenza impropria – quella che definiamo "malattia" – una sofferenza propria; potremmo dire che l’analisi mira a "cambiare malattia."» (Manganelli, 2001). Siamo del tutto all’interno del discorso freudiano: sostituire la nevrosi non con l’illusione del pieno soddisfacimento (poichè siamo obbligati ad un sacrificio di godimento è un conflitto ineludibile), ma con la normale infelicità.
Radicalizzando il discorso, Lacan (cui l’Autore fa prevalentemente riferimento) parlava dell’inguaribile come assetto tragico di fondo dell’essere umano: non solo la psicoanalisi non si pone come fine l’adattamento o l’edonismo del vivere contemporaneo, ma si sottolinea con forza che l’essere umano non tende al Bene, spinto com’è dalla ripetizione, dalla coazione a ripetere. Se è vero che solo Lacan e la Klein, sottolinea l’Autore, hanno conservato e accolto il concetto freudiano di pulsione di morte, pur declinandoli nella teoria e nella pratica con delle differenze, non può che derivarne una visione tragica, sebbene ricca di complessità, del destino del soggetto umano. Inguaribile.
A difesa della possibilità di vita per il soggetto, l’Autore invoca il concetto di Limite.
Che lo si chiami padre, nome-del-Padre, terzo, a seconda degli assetti teorici, il concetto di limite è un altro nodo oggi molto avvertito, un altro inciampo in cui la contemporaneità sembra incappata. L’assenza di limite, di quel terzo che ci sottrae all’illusione del godimento (lacanianamente inteso come attiguo alla pulsione di morte), lungi dal liberarci ci condannerebbe alla psicosi, al "cortocircuito mortifero tra desiderio e godimento", alla perdita della creatività personale che origina proprio dalla spinta interna a ridurre lo scarto, e che per far questo ha bisogno dell’interdetto, della «funzione strutturante della castrazione» (58).
Pamphlet dunque di facile appeal e dai temi molto attuali, questo Elogio di Recalcati.
La portata vasta, inesaurita ed inesauribile del discorso freudiano appare ancora attualissima, e tutta aperta. Etica, responsabilità personale, identità, limite, fino all’elogio dell’ignoranza dell’ultimo capitolo in cui si sottolinea il valore dell’apertura al sapere, dell’ignoranza lacanianamente (e bionianamente) intesa, che non consiste nell’«ignorare il sapere, ma ignorare il sapere che si suppone di sapere» (123), vengono a comporre un discorso complesso ma unitario, che situa "l’oggetto inconscio", specifico della psicoanalisi, al centro di una concezione dell’uomo come soggetto tragico, sì, in quanto intrinsecamente debole e limitato, ma dotato di desiderio e consapevolezza.
Sebbene il libro non ne parli esplicitamente, in quanto prevalentemente rivolto ad un pubblico eterogeneo e non specialistico, val la pena di ricordare che spetta prima di tutto a noi psicoanalisti il compito, possiamo dire il mandato, di preservare l’autonomia della psicoanalisi attraverso l’attenzione, ed il rigore "etico", con cui restiamo indagatori fedeli e curiosi dell’inconscio, capaci di tollerare quel tasso di angoscia, come scrive Hautmann, che incontriamo nella nostra quotidianità operativa, sebbene sollecitati sempre più dalle «pressanti antianalitiche richieste dei pazienti […] e dai canti della sirena ricattatoria della psicoterapia» (2000). Per evitare, o limitare, la progressiva caduta dello "spirito psicoanalitico", come scrive Green, ossia quello spirito che "dimora nello psicoanalista durante il suo lavoro e le sue riflessioni", occorre che noi per primi si abbia presente che il nostro compito «è di tenere vivo quello spirito» (2002).
Infine, è a mio avviso curioso constatare come un concetto che pareva assodato, quello di inconscio, per l’uomo del Novecento, che anzi ne sembrava essere diventato parte costitutiva (potevano esistere la letteratura e l’arte del Novecento senza inconscio?), debba oggi venire nuovamente "riabilitato". Si tratta di un fenomeno passeggero, una deriva del postmoderno? O piuttosto occorre mettere in conto che il "soggetto senza inconscio", come efficacemente lo ha definito Recalcati anche in Psiche (2008), non è solo un prodotto del nostro tempo, ma qualcosa di più radicale: un’istanza antipsichica, antipensiero, che periodicamente tende a ripresentarsi nella storia dell’uomo, una sorta di ondata all’indietro, al prima della consapevolezza, una tentazione a riposare la mente in quella "deriva paranoidea" che il libro menziona, come un porto comodo e sicuro per lo psichismo umano. Non dipende da me, è colpa dell’Altro. E allora ecco che vi è bisogno di tenere aperto il discorso sull’inconscio anche aldilà delle storture contemporanee, poichè è nella stessa natura umana la tentazione di cedere al canto delle sirene della fuga dall’etica, dalla responsabilità, dell’abdicare al proprio desiderio per evitare il dolore della soggettività.
Rossella Valdrè
Bibliografia
Bonaminio V. e Fabozzi P., a cura di (2002). Quale ricerca per la psicoanalisi?, Milano, Franco Angeli
Hautmann G., (2000), Psicoanalisi, psicoterapia analitica, training. In Rivista di Psicoanalisi, I, 149-156.
Manganelli G., (2001), Il vescovo e il ciarlatano, Quiritta ed.