La Ricerca

Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Recensione a cura di Paolo Fonda

4/09/13

Edoardo Weiss a Trieste con Freud.Editore Alpes Italia, Roma, pp. 217,(2013)

Recensione a cura di Paolo Fonda  

E’ stata Anna Maria Accerboni a sedurre Rita Corsa alla ricerca storica della psicoanalisi, e in particolare delle sue vicende triestine. Dopo anni di collaborazione, e poi di ricerca autonoma, Rita Corsa ci dà un bellissimo libro: Edoardo Weiss a Trieste con Freud con i sottotitoli Alle origini della psicoanalisi italiana e Le vicende di Nathan, Bartol e Veneziani.

Con la collaborazione anche di Giuliana Marin, Pierpaolo Martucci e Vlasta Polojaz, Rita Corsa mette a fuoco con grande passione uno spazio – Trieste, e un tempo – il decennio susseguente la prima guerra mondiale, in cui la psicoanalisi vi fa una fugace, ma oltremodo ricca comparsa. La figura centrale è Edoardo Weiss, attorno al quale ruotano, in un modo o nell’altro, figure molto interessanti: pazienti, colleghi, personaggi della cultura e non pochi oppositori.

Lo sfondo, costituito dagli “straordinari sovvertimenti socio-politici e culturali” a lungo preannunciati e poi realizzatisi con la Grande Guerra, è descritto da Rita Corsa con Pierpaolo Martucci con grande sensibilità e attualità. La storia di Trieste sembra la storia di un paziente in analisi: è stata continuamente rivisitata, risistemata, faticosamente liberata da fantasmi ingombranti e arricchita dal superamento di rimozioni e scissioni. Gli esiti di un secolo infettato da nazionalismi e totalitarismi si stanno finalmente cicatrizzando. Da triestino devo dire che, dopo un centinaio d’anni di analisi, i risultati si cominciano a vedere: oggi la città vive meglio ed ha un migliore rapporto con se stessa. Ci sono state molte storiografie parallele, ma tra loro incompatibili. Ora si cominciano a scrivere storie, come quella delineata nel libro, nelle quali tutti possiamo riconoscerci. Un Sé scisso e molto conflittuale si sta finalmente integrando.

Il periodo all’inizio della nostra storia vede le contrapposizioni tra le componenti austriaca, italiana e slava (oltre agli sloveni ci sono presenze croate, serbe, ceche e pure influenze russe) e i contraccolpi che ciò ha sulla componente ebraica, cui  Weiss appartiene. Nel 1918 si ha un radicale capovolgimento dei rapporti di forza e Weiss, un ebreo con una moglie croata, svestita l’uniforme di ufficiale austroungarico, rientra a Trieste e deve affrontare l’inserimento in un ambiente dominato dalla roboante retorica irredentista, che nella città giuliana, prima che nel resto d’Italia, comincia a tingersi di fascismo. Weiss, troppo italiano in Austria (tanto da essere trasferito dal fronte russo nei Balcani), sembra essere troppo poco italiano in Italia (rifiuta l’italianizzazione del proprio cognome).

Ma, al suo rientro a Trieste nel 1919, la sua “anomalia” è soprattutto la psicoanalisi, che lo isola dall’ambiente medico in generale e dai colleghi dell’Ospedale Psichiatrico in particolare. L’ambiente intellettuale e letterario, al contrario, lo accoglie con sin troppo entusiasmo, tanto da infastidirlo, poiché è tra i medici che vorrebbe trovare degli allievi e fondare una società psicoanalitica. La sua solitudine è mitigata da due figure che gli stanno costantemente a fianco: lo stesso Freud, che non si limita alle consulenze-supervisioni, per lo più epistolari, ma lo sostiene e assiste anche nell’opera di diffusione della psicoanalisi. L’altro è Paul Federn, il suo analista, che gli fornisce un aiuto più personale nei momenti difficili. Nel dopoguerra Weiss inizia anche i primi contatti con i personaggi interessati alla psicoanalisi nell’ambito nazionale italiano, ma è un ambiente complesso e a lui culturalmente in parte estraneo: si sente molto più a suo agio a Vienna che a Roma.

Nel libro è molto interessante e ben documentata la descrizione dell’ambiente scientifico psichiatrico dell’epoca, dell’assistenza psichiatrica a Trieste e della nascita dell’Ospedale Psichiatrico (lo stesso in cui avverrà, 40 anni dopo, la memorabile rivoluzione basagliana, che però ne perpetuerà la blindatura a qualsiasi penetrazione psicoanalitica). Weiss vi lavora durante tutto il suo periodo triestino. L’autrice ha scoperto ed esaminato minuziosamente ben 340 cartelle cliniche da lui compilate, ma in sostanza non vi è traccia di psicoanalisi: né di approcci terapeutici, né di concetti psicoanalitici. (La stessa cosa succederà a me quarant’anni dopo nello stesso ospedale. Nella pesante atmosfera antianalitica a che scopo scrivere dell’inconscio dei pazienti, quando per i colleghi, per i quali si scrivono le cartelle, ciò è solo “un’invenzione borghese”?).

Rita Corsa affronta un ulteriore avvincente quesito: perché Weiss, pur vedendo in Ospedale molti reduci dal fronte affetti da nevrosi e psicosi post-traumatiche belliche, non partecipa al dibattito e al particolare interesse, che in quegli anni coinvolge su questo tema i colleghi psicoanalisti degli altri paesi usciti dal conflitto? L’autrice non trova a ciò una risposta certa, descrive il ricco dibattito psicoanalitico in corso in quegli anni su questi temi e fa interessanti congetture sullo strano atteggiamento di Weiss.

Ma è ciò che avviene nello studio privato di Weiss, in via San Lazzaro (dove nel 2002 la SPI appose una targa ricordo), che appare ancora più interessante. Rinunciando a parlare di Italo Svevo e di Umberto Saba, il paziente più illustre di Weiss, dei quali già tanto si è scritto, lo sguardo di Rita Corsa si posa su una galleria di pazienti “minori”, che rivivono nel carteggio con il supervisore Freud. Tra questi Bruno Veneziani, cognato di Svevo e amico di Weiss.

Rita Corsa e Giuliana Marin dedicano un capitolo di notevole interesse ad Arturo Nathan, grande pittore triestino, del quale si segue l’avvincente storia personale, l’analisi con Weiss e le ripercussioni di questa sulla sua produzione artistica, fino alla sua tragica fine nel lager nazista.

L’ultimo capitolo, scritto da Vlasta Polojaz, è dedicato allo scrittore sloveno Vladimir Bartol, significativamente connotato come “Un fantasma di Trieste”. Nato nel 1903 a pochi passi dal sito dove sorgerà pochi anni dopo l’Ospedale Psichiatrico triestino, cresce in quella separatezza quasi totale, che caratterizza in quell’epoca le componenti nazionali della città. Paradossalmente rimarrà così per tutta la vita un fantasma, sia per i letterati italiani che, in una certa misura, anche per quelli di Lubiana. Anche lui è troppo sloveno a Trieste e troppo poco sloveno a Lubiana. Il suo interesse per la psicoanalisi nasce in modo del tutto autonomo dal “ciclone psicoanalitico”, che coinvolge i concittadini italiani. Bobi Bazlen è suo compagno di scuola al liceo tedesco della città, ma ciò sembra assicurare solo un comune Zeitgeist. Tant’è, che è a Lubiana, dove è costretto ad emigrare, e poi a Parigi che Bartol nel primo dopoguerra conosce la psicoanalisi, che tanto lo intrigherà per buona parte della sua vita, ispirerà alcune delle sue opere e gli farà pure tentare, con alcuni pazienti, qualche trattamento psicoanalitico.

Nell’accurata ricostruzione della sua vita si rileva “una mole di appunti, osservazioni e riflessioni sui propri stati d’animo”, che suggerisce un parallelo con i tentativi di Nathan di cogliere i tratti della propria identità nei numerosi autoritratti. Del resto, Anna Maria Accerboni aveva fatto notare l’inusuale frequenza di autoritratti tra i pittori di Trieste dell’epoca, che sembra riflettere l’incerta identità della città.

E’ sulla principale delle opere di Bartol, il romanzo Alamut, che Vlasta Polojaz si sofferma in particolare. Il fascino di questo romanzo, scritto nel 1938 e ripubblicato recentemente nella traduzione italiana, non sta tanto in quella che sembra una suggestiva preveggenza-analisi dei “kamikaze” islamici odierni, ma nella personalità del suo protagonista e della sua filosofia del potere. Vlasta Polojaz va oltre il tentativo di spiegare Bartol sulla base dei suoi ricordi infantili, peraltro così ricchi. Si sofferma invece di più sui meccanismi psichici messi in rilievo dalla sua produzione artistica, e in particolare sulla distinzione-coesistenza tra il concreto e il fantastico e la relazione tra ciò e l’onnipotenza narcisistica.

Nella Postfazione Pietro Rizzi espone interessanti considerazioni metodologiche sulle ricerche da Rita Corsa e sul rapporto tra storiografia e psicoanalisi.

Forse non è stato un caso che la psicoanalisi si sia affacciata sulle sponde dell’Adriatico proprio dopo “lo sfacelo politico e sociale seguito allo smembramento dell’Impero Asburgico, che pareva riflettersi tragicamente nella disgregazione psichica del singolo individuo.” Quando si creano minacciose crepe nel meta-Io sociale, scaturiscono ansie che necessitano di mentalizzazione e contenimento. Il venir meno delle sicure nicchie sociali scarica sugli individui il peso del dover diventare in maggior misura soggetti delle proprie scelte. Ciò li sovraccarica di responsabilità e di angosce, e si fa forte l’esigenza di un aiuto psicologico a livello personale. Ma Rita Corsa ci dice di più: “[…il] turbamento prodotto dall’incontro con l’oggetto, sconvolge la fragile certezza propria di ogni confine. La catastrofica disintegrazione delle frontiere politiche e sociali succeduta al conflitto mondiale ha portato ineludibilmente ad uno squasso anche dei contorni psichici individuali. L’inquietudine generata dalla disgregazione dei profili identitari, che lancia il soggetto nello spazio aperto, ha accompagnato il pensiero di Weiss durante l’intero arco della sua esistenza. Gli studi sull’agorafobia e le seguenti, innovative proposte concettuali sulla particolare struttura dell’Io agorafobico rappresentano, senza dubbio, il più originale e prezioso legato weissiano (p.129)”.  E’ il filo che lega l’esperienza personale di Weiss alla sua produzione scientifica. Questa però, pur anticipatoria di importanti sviluppi del pensiero psicoanalitico avvenuti poi negli anni ’40, rimarrà in sostanza nell’ombra. Weiss non sembra abbastanza sicuro di sé per affermare con la dovuta forza le novità che intravede e rimarrà anche nei decenni successivi ai margini del dibattito scientifico dell’epoca.

Il prezioso lavoro di Rita Corsa documenta, con una minuziosa ricerca, risvolti particolari, in molta parte inediti, che danno però un senso al tutto e dipingono un’immagine di Weiss e della sua epoca più reale, più verosimile e nel contempo più coerente con la turbolenta incoerenza dello sfondo su cui la sua vita si è svolta.

Settembre 2013

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