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“Dialogando con G. Gabbard” a cura di C. De Giorgi, L. Masina, A. Sessarego. Recensione di A. Braun

21/03/22
"Dialogando con Glen Gabbard" a cura di C. De Giorgi, L. Masina, A. Sessarego. Recensione di A. Braun

A cura di Cosima De Giorgi, Luisa Masina, Antonella Sessarego

(Alpes, ed. 2022)

Recensione a cura di Andrea Braun

Dialogando con Glen Gabbard

A cura di Cosima De Giorgi, Luisa Masina, Antonella Sessarego

(Alpes, ed. 2022)

Recensione a cura di Andrea Braun

Questo libro nasce da un dialogo stimolante con Glen Gabbard, promosso e organizzato per l’incontro Inter-Centri dalle segretarie scientifiche dei tre Centri: veneto, bolognese e fiorentino. Esse hanno curato l’edizione e collaborato in maniera creativa e proficua per restituirci l’atmosfera e la ricchezza del confronto.

La pandemia ha imposto il dibattito online, ma la capacità comunicativa di Gabbard ha reso le due giornate di studio indimenticabili, anche per la discussione alla quale egli ha dato un contributo generoso, trasmettendo competenza e passione per la ricerca in psicoanalisi. Nella Prefazione al volume, Stefano Bolognini, oltre a presentare l’incontro, ha tracciato il profilo di questa eminente e poliedrica personalità scientifica.

Come è noto, Gabbard è l’analista che, più di ogni altro, ha consentito di approfondire “Le violazioni dei confini sessuali in psicoanalisi”. All’incontro Inter-Centri ha presentato “una retrospettiva trentennale” che si basa sugli oltre trecento casi seguiti nella sua carriera, alcuni in terapia, molti in consultazione.  Se agli esordi dell’esperienza Gabbard era incline ad attribuire la violazione dei confini sessuali a caratteristiche personali e alla psicopatologia individuale del singolo analista, ora la prospettiva è profondamente mutata: “Un punto cruciale che sottende tutto ciò che ho finora detto è che noi tutti razionalizziamo, neghiamo e proviamo in altro modo a trovare argomenti a favore di ciò che facciamo e che sappiamo essere fuori dal nostro ruolo e forse non etico. Ebbene sì, sto usando il termine “tutti” per arrestarci dal nostro proseguire additando un utile capro espiatorio: “l’analista non etico”, che possiamo insistere essere fondamentalmente diverso da tutti noi altri” (11, grassetto mio).

Se dunque la possibilità delle violazioni dei confini sessuali riguarda potenzialmente ognuno di noi, sfuma la prospettiva di prevenire gli agiti. Un certo pessimismo si avverte anche osservando quanto diffusa sia la tendenza autoassolutoria con la quale siamo propensi a giustificare e difendere certe nostre condotte, anche se palesemente distorte.

Gabbard si interroga su una forma di amore presente in ogni percorso analitico e cerca di coglierne la peculiarità: in senso freudiano la si può considerare come investimento libidico dell’oggetto, mentre autori recenti, come Loewald e Lear, la associano alla fiducia nelle potenzialità evolutive del paziente e alla promozione dell’individuazione.

Tuttavia Gabbard ci ricorda come nella storia della psicoanalisi già Ferenczi avesse considerato problematico l’eccesso di sentimenti amorosi sul versante dell’analista. Nelle sue riflessioni autoanalitiche, egli aveva accostato questo trasporto a un sentimento infantile di odio nei confronti della madre e delle sue pretese di essere amata dal figlio, pretese paragonabili alle esigenze perentorie di alcuni pazienti. Per Ferenczi, l’eccesso di gentilezza rimanda a un tentativo di neutralizzare l’aggressività e all’ambivalenza, che si manifesta in tutte le relazioni intime e non manca certamente nei rapporti di transfert e contro-transfert, dove amore e odio appaiano aggrovigliati e la loro differenziazione una conquista sul versante terapeutico.

A De Giorgi il merito di avere individuato “tre vertici dell’attività analitica” dai quali seguire l’esposizione di Gabbard: la dinamica transfert- controtransfert, la funzione analitica e la Comunità Psicoanalitica. I cardini individuati con ammirevole sintesi dalla collega hanno trovato ampia risonanza nella discussione del lavoro.

E’ stato deplorato quanto sia difficile comunicare e riflettere sulle violazioni dei confini sessuali a livello istituzionale nella nostra comunità scientifica. Un esempio significativo delle resistenze si è presentato all’ultimo congresso IPA tenutosi in presenza (Londra, 2019), prima dello scoppio della pandemia. Mi riferisco al seminario intitolato: An ethical violation of one is a violation of many: Disruptive impact on individuals and the group (Una violazione etica del singolo diventa una violazione per molti: l’impatto dirompente sugli individui e sul gruppo). Alcuni colleghi della California del Nord hanno preso spunto da una serie di violazioni etiche commesse da due senior member all’interno dell’istituto di training a cui essi afferiscono. Hanno esaminato l’impatto sul gruppo allargato e riscontrato numerosi segnali di malfunzionamento istituzionale che hanno alimentato sfiducia nello strumento psicoanalitico, depressione, perdita intermittente del funzionamento simbolico dei soci accanto ad altri sintomi di disagio. Di fronte alla descrizione di queste reazioni è stata sconcertante la premessa: “We do not discuss specifics of the violations” (non entreremo in merito alle violazioni commesse).Verso la fine del seminario due interventi da parte di illustri colleghi della società britannica hanno rotto il ghiaccio con la loro protesta vibrata. Essi hanno segnalato come, attraverso la premessa, si stesse riproducendo il trauma.

Infatti, non era dato sapere se le violazioni fossero consistite ad es. in un ritardo cronico dell’analista o in una violazione di natura sessuale. La genericità ha perpetuato una ripetizione della congiura del silenzio, lasciando l’uditorio interdetto e sollecitando difese come evitamento, diniego, scissione etc.

Mi sembra molto pertinente la domanda inquietante formulata da De Giorgi nella Presentazione: “Il silenzio è forse una collusione inconscia con la coppia che ha violato il divieto?”

Anche Gabbard ha sottolineato l’importanza di affrontare apertamente le trasgressioni per scongiurare scissioni e lacerazioni di gruppo, pur segnalando le complicazioni legali legate alle normative sulla privacy che possono ostacolare un confronto diretto.

Occorre valutare l’opportunità dell’inserimento di seminari su deontologia e etica nel training dei candidati, come già enfatizzato da A. Sandler e Godley (2004)[1] in conclusione alle loro riflessioni inerenti le numerose violazioni del setting (anche sessuali) da parte di Masud Khan.

Un’attenzione particolare è stata riservata al rischio corso dai colleghi che scelgono di isolarsi e di non frequentare più i centri, una volta completata il training. Essi si privano della possibilità di ricorrere alla consulenza di un “terzo” in situazioni di particolare vulnerabilità (basti pensare a separazioni, lutti, malattie etc.),  anche sul versante personale dell’analista.

Gabbard ha ribadito il ruolo fondamentale che spetta alla consultazione e all’intervisione nel contenimento del rischio di agiti. Il confronto con l’altro è vitale perché è difficile tollerare l’instabilità della posizione psicoanalitica, che richiede all’analista un’oscillazione costante tra avvicinamento e distanziamento rispetto al paziente. Infatti, l’attenzione è rivolta all’individuazione dei bisogni e dei desideri del paziente e presume la rinuncia all’appagamento dei propri. Questa instabilità e l’asimmetria all’interno della relazione può indurre delle reazioni difensive e alimentare una ambivalenza strutturale dell’analista nei confronti del proprio lavoro che, con la complicità di un Super-Io corruttibile, può favorire lo scivolamento verso condotte professionali eticamente indifendibili.

La Presentazione di Luisa Masina introduce la seconda parte del libro, dedicata a “Il concetto di cambiamento”. L’autrice prende spunto dalla conclusione dello scritto inedito di Gabbard in cui egli afferma: “Dopo tutto, il nostro dovere è in definitiva rivolto verso il paziente, e non verso la psicoanalisi”. La ricerca di Gabbard si rivolge al cambiamento su due versanti: analista e paziente. Masina ci suggerisce di seguire tre filoni nel testo dell’autore, da lei stessa arricchito con brevi vignette cliniche che riprendono il percorso teorico clinico di Gabbard e la sua concezione dell’analisi come non coercitiva, non convenzionale e sovversiva.

Quanta strada separa il giovane Gabbard dalle riflessioni attuali! Ce lo segnala egli stesso, quando ricorda una delle sue prime supervisioni. In quell’occasione, egli fu ammonito severamente di non pensare nemmeno lontanamente alla conclusione di un trattamento in presenza di residui sintomatici del paziente. Queste direttive del passato non gli sembrano più condivisibili (lo sono mai state?), perché controproducenti. Possono, infatti, contribuire a un attaccamento tenace al sintomo, in difesa dall’assalto dell’analista.

Da qui la prima affermazione dell’analisi come non coercitiva, ma incline ad adattarsi al paziente, tenendo sempre in mente il desiderio di renderlo autonomo, anche dalla terapia e dal nostro progetto terapeutico. Solo il paziente, infatti, può valutare quale cambiamento può essere sostenuto e sostenibile per lui. Occorre interrogarsi sulle resistenze al cambiamento e riconoscere che la “verità” spaventa. Forse una certa quota di autoinganno è ineliminabile. Come non pensare ad un lavoro illuminante su questo tema scritto da Micati[2] (1993) dal titolo: “Quanta realtà può essere tollerata?” D’altronde, afferma Gabbard: “Come analista statunitense, penso che noi americani idealizziamo il concetto di cambiamento. I francesi hanno una visione completamente diversa: sono scettici sui risultati terapeutici del trattamento psicoanalitico” (40).

In conclusione Gabbard, in sintonia con Ogden (2019), distingue tra “psicoanalisi epistemologica (che ha a che fare con la conoscenza e la comprensione), di cui Freud e Klein sono esempi, e psicoanalisi ontologica (che ha a che fare con l’essere e il divenire), di cui Winnicott e Bion sono esempi” (43-44). Ritroviamo qui echi della prospettiva delineata da Riolo[3] (1983), che ha individuato una posizione ricettiva-sognante accanto a quella investigativa-razionale. Oggi riconosciamo che si tratta di posizioni tra cui oscilliamo costantemente nell’ascolto analitico, anche in rapporto alla sofferenza individuale e ai bisogni del paziente. In Gabbard l’attenzione rivolta al “come”, all’esperienza condivisa, passa in primo piano rispetto al contenuto da interpretare. Sempre più frequenti i casi in cui l’analista deve rivestire il ruolo di testimone e offrire uno spazio protetto, in cui il paziente possa aprirsi e sperimentare molteplici stati del Sé senza dover rispondere ad aspettative e sollecitazioni.

Come nella prima parte del volume, anche nella parte finale possiamo seguire la traccia della discussione. Siamo riconoscenti per il lavoro impegnativo e generoso delle colleghe della segreteria scientifica, che ci consentono di farci un’idea della ricchezza degli stimoli ricevuti.

Il libro si chiude con un’intensa e poetica Postfazione di Antonella Sessarego che accosta la voce della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie a quella di Gabbard per segnalare il pericolo insito nella semplificazione e nel riduzionismo, che può renderci propensi ad assestarci su un’unica storia anziché “pensare apertamente al paziente” (65) e con il paziente, precludendo un’autentica trasformazione alla coppia. Toccanti le parole della conclusione che Sessarego affida a Adichie: “Quando rifiutiamo l’unica storia, quando ci rendiamo conto che non c’è mai un’unica storia per nessun luogo, riconquistiamo una sorta di paradiso” (66).


[1] Sandler, A. & Godley, W. (2004) Institutional responses to boundary violations: The case of Masud Khan. International Journal of Psychoanalysis 85:27-42

[2] Micati, L. (1993) Quanta realtà può essere tollerata? Rivista di Psicoanalisi 39:153-163

[3] Riolo, F. (1983) Sogno e teoria della conoscenza in psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi 29:279-295

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