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Craparo G.e Mucci C. (2017). Unrepressed Unconscious, Implicit Memory, and Clinical Work. Recensione di Giorgio Mattana

27/02/17

Craparo G. e Mucci C. (eds.) (2017). Unrepressed Unconscious, Implicit Memory, and Clinical Work. With a Foreword by Peter Fonagy

Karnac, London, 2017. Recensione di G. Mattana

Il tema dell’inconscio non rimosso, all’incrocio fra psicoanalisi, neuroscienze e teoria dell’attaccamento, è ormai più o meno esplicitamente presente in moltissime pubblicazioni psicoanalitiche teorico-cliniche. Ne mancava ancora, tuttavia, una trattazione sistematica e approfondita. Il presente volume rappresenta lo «stato dell’arte» delle concettualizzazioni sull’argomento, che esce così da quell’alone di vaghezza e insufficienza di definizione che spesso ne circonda l’evocazione. Curato da Clara Mucci e Giuseppe Craparo, dei quali ospita due importanti contributi, edito in inglese e di prossima pubblicazione anche in italiano, il testo si giova di un’illuminante prefazione di Peter Fonagy, che ne condivide le linee di fondo e le interpreta, in sintonia con gli Autori, come un’evoluzione della nozione freudiana di preconscio. I diversi capitoli offrono dell’argomento una ricognizione sistematica, altamente informativa e di grande stimolo per il proseguimento della ricerca. Senza abbandonare la teorizzazione classica fondata sulla rimozione, riferita alla più evoluta patologia nevrotica, gli Autori, fra i quali figurano alcuni fra i maggiori teorici della neuropsicoanalisi, si addentrano nel più ampio e profondo territorio dell’inconscio non rimosso, collegato alla memoria implicita e all’emisfero destro, i cui disordini sono all’origine delle patologie più severe e resistenti, in vario grado attraversate dalla dissociazione, come quella borderline.

A partire dalle prime pagine del libro, grazie alle trattazioni di Mark Solms e Allan N. Schore, ai quali viene idealmente ad aggiungersi Mauro Mancia, psicoanalista e neuroscienziato italiano scomparso nel 2007, l’inconscio non rimosso assume contorni nettamente definiti e clinicamente molto significativi. Sulla base di una grande quantità di dati clinici, osservativi e sperimentali, esso viene precisamente localizzato dal punto vista anatomico, adeguatamente definito da quello funzionale e opportunamente descritto da quello genetico-evolutivo.

Mark Solms, rifacendosi a Panksepp e alle neuroscienze affettive, propone un interessante e «rivoluzionario» ribaltamento dei rapporti freudiani fra inconscio e coscienza, imputando al fondatore della psicoanalisi la condivisione di una diffusa «fallacia corticocentrica», che gli avrebbe impedito di collocare la coscienza nei livelli sottocorticali profondi del cervello, sede dell’Es, e l’inconscio in quelli corticali, sede dell’Io e del sistema percezione-coscienza. L’affetto in sé è conscio, o meglio, la prima forma di coscienza (la «coscienza primaria» di Edelman e – aggiungerei – il «proto-Sé» di Damasio) è in sé affettiva, una sorta di rilevatore endogeno delle variazioni omeostatiche dell’organismo, ed è essa, in particolare la formazione reticolare ascendente tronco-encefalica, che attiva la coscienza di ordine superiore, legata alla corteccia e al linguaggio: esattamente l’opposto di quanto si riteneva e si è ritenuto fino a tempi molto recenti.

Di grande attualità il contributo di Mauro Mancia, noto alla comunità psicoanalitica internazionale come uno dei primi teorici dell’inconscio non rimosso, collocato nella memoria implicita, sede del nucleo inconscio pre-verbale del Sé del soggetto. Mancia definisce la natura dell’inconscio non rimosso come intrinsecamente relazionale, poiché i suoi contenuti sono il precipitato rappresentazionale pre-linguistico delle vicende legate alla relazione primaria. Diversamente dall’inconscio dinamico, nato dalla rimozione e implicante l’operatività di strutture all’epoca non mature come l’ippocampo, presupposto della memoria esplicita, episodica e semantica, collegata al linguaggio, l’inconscio non rimosso contiene apprendimenti relazionali impliciti molto più precoci, non suscettibili di ricordo cosciente non perché rimossi, ma in quanto non verbalizzati e non verbalizzabili, che possono riaffiorare nel transfert e nel sogno. Tali apprendimenti precoci orientano inconsapevolmente l’intera vita relazionale del soggetto, cosa che ovviamente assume particolare importanza qualora essi siano disfunzionali.

Nel suo capitolo, che si inserisce fra quelli di Mancia e di Schore, Giovanni Liotti mostra come la «conoscenza relazionale implicita» (Lyons-Ruth, Stern) contenuta nell’inconscio non rimosso, concetto nei cui confronti gli Autori del volume esprimono a più riprese la loro sintonia, sia identificabile con i «modelli operativi interni» teorizzati da Bowlby e abbondantemente convalidati dalla ricerca empirica. Essi contengono rappresentazioni del Sé e dell’oggetto suscettibili di condizionare in modo decisivo le interazioni del soggetto, a seconda che configurino un attaccamento sicuro, insicuro/evitante, insicuro/resistente (o ambivalente), oppure disorganizzato. Liotti dialoga a distanza con Mancia sulla compatibilità della «conoscenza relazionale implicita» con il concetto di inconscio non rimosso sostenuto da quest’ultimo. Seguendo Bowlby, Liotti si fa assertore di una prospettiva evolutiva multi-motivazionale, che implica l’interazione di sistemi motivazionali diversi, fra i quali l’attaccamento, la cura e l’accoppiamento sessuale, dominati da mete relazionali diverse fra loro in complessa interazione. Su questa base, egli integra l’accezione «ristretta» di inconscio non rimosso di Mancia, riferita a specifiche esperienze relazionali precoci, dissociate e rese inaccessibili alla coscienza fin dall’inizio, con quella «estesa», legata alla complessa articolazione fra i diversi sistemi motivazionali.

Da un lato, Liotti sottolinea come la dissociazione, documentata da studi empirici condotti con il metodo della strange situation e dell’adult attachment interview, fra le memorie esplicite e implicite dell’attaccamento, particolarmente evidente nell’attaccamento insicuro, non coincida con il concetto classico di difesa. Dall’altro, egli mostra come l’arruolamento di un sistema motivazionale (come la cura) allo scopo di inibirne un altro (come l’attaccamento, quando le relative esperienze sono eccessivamente dolorose), difficilmente rappresenti un fenomeno non verbalizzato ma cosciente, bensì possa essere considerato un fenomeno a tutti gli effetti inconscio.

Allan N. Schore, in continuità con Mancia, sottolinea con decisione le differenze funzionali fra i due emisferi, identificando quello sinistro con la sede della logica, del linguaggio, della verbalizzazione e della coscienza logico-linguistica, e quello destro, che presiede a importanti regolazioni omeostatiche e alla realizzazione dei processi motivazionali ed emotivi, con la sede del Sé profondo, inconscio, implicito e pre-verbale del soggetto. Fondamentale, dal punto di vista evolutivo, psicopatologico e terapeutico, la funzione di regolazione affettiva assegnata da Schore all’organizzazione del Sé, legata all’andamento della relazione primaria con la connessa comunicazione implicita delle emozioni, più o meno gravemente danneggiata o non adeguatamente sviluppata in tutte le psicopatologie. La funzione di regolazione affettiva è essenziale, nella relazione primaria di attaccamento come in quella psicoterapeutica, alla costituzione del Sé implicito del soggetto, attraverso il dialogo emotivo inconscio fra i rispettivi emisferi destri del paziente e dell’analista, con la conseguente strutturazione dei circuiti lungo l’asse che va dalle aree sottocorticali alla corteccia, in particolare quella orbitofrontale. Ricollegando il concetto di inconscio non rimosso a quello freudiano di preconscio, Schore mostra come in generale, e in particolare nelle patologie gravi, il processo terapeutico si fondi non tanto sull’interpretazione e l’insight, quanto piuttosto su quegli enactments transferali/controtransferali, dove gli stati emotivi dissociati del paziente incontrano l’inconscio empatico ed emotivamente ricettivo dell’analista. L’intuizione clinica di quest’ultimo, basata sull’elaborazione inconscia delle informazioni non verbali e para-verbali del paziente da parte dell’emisfero destro dell’analista, non si traduce pertanto nel proposito di rendere conscio l’inconscio, quanto piuttosto in una ristrutturazione profonda dell’inconscio non rimosso del paziente.

Clara Mucci muove dalla concezione di Schore dell’attaccamento come processo di regolazione affettiva, deputato alla costituzione del Sé implicito dell’individuo attraverso l’interazione delle sue predisposizioni relazionali con la risposta della figura di attaccamento. Le esperienze del primo anno di vita, non registrate nella memoria esplicita a causa dell’immaturità dell’ippocampo, vengono immagazzinate all’interno del sistema limbico dell’emisfero destro, concepito come un’organizzazione composta da tre strati o livelli, dall’amigdala al cingolo anteriore, all’insula e alla corteccia orbitofrontale. In esso, a vari livelli di profondità e di elaborazione, vengono immagazzinate le esperienze relazionali precoci, dando luogo alla costituzione di un modello operativo interno dell’attaccamento suscettibile di condizionare l’intera vita relazionale del soggetto, compresa la relazione terapeutica. Mucci accosta tale concezione a quella di Mancia, che localizza l’inconscio non rimosso, e dunque il Sé implicito del soggetto, nelle aree associative temporo-parieto-occipitali dell’emisfero destro, identificandone i contenuti con i precipitati rappresentazionali non-verbali della relazione primaria. E’ intuibile l’impatto del trauma, sia come assenza di sintonia e ricettività emotiva, sia come maltrattamento e abuso vero e proprio, sessuale e non sessuale, sulla formazione dei modelli operativi interni che riflettono la relazione primaria di attaccamento. Come intuito da Janet e da Ferenczi – sottolinea l’Autrice – la dissociazione è la risposta «fisiologica» del soggetto non ancora strutturato e incapace di rimuovere al trauma, un’estrema «difesa» contro il crollo, un esserci e non esserci fondamentale per la sopravvivenza e necessario alla comprensione delle patologie gravi. Ne consegue la stigmatizzazione, come di un’importante occasione perduta per l’evoluzione del pensiero psicoanalitico, dell’abbandono freudiano della realtà traumatica e della connessa risposta dissociativa, a favore della fantasia e del più evoluto meccanismo della rimozione, conseguente alla ripulsa della teoria traumatica dell’isteria e all’affermarsi del modello pulsionale.

In questa prospettiva, raccordando la linea che va da Janet a Ferenczi con le più recenti ricerche empiriche sui disturbi di personalità, Mucci offre una dettagliata descrizione della relazione fra attaccamento disorganizzato e patologia borderline, mediata dal ruolo etiopatogeneticamente decisivo del trauma, sia nella forma di deficit di ricettività e sintonia emotiva, sia in quella di maltrattamento e abuso fino all’incesto. La patologia borderline è descritta come un disordine dell’inconscio non rimosso, dovuto all’interiorizzazione nelle strutture dell’emisfero destro di modelli operativi disfunzionali, legati al cattivo andamento della relazione primaria. Il carattere patogeno di quest’ultima è connesso al fallimento della fondamentale funzione di regolazione emotiva dell’oggetto, con induzione di una serie di risposte e difese patologiche contro emozioni eccessivamente intese e insopportabili. Come conseguenza della sua origine traumatica, in linea con Bromberg, la patologia borderline è collegata alla dissociazione, come l’isteria di conversione e altri severi quadri patologici, sia nella sua forma più eclatante e drammatica, con eclissi del soggetto, collasso delle funzioni del pensiero e prevalenza delle reazioni autonomiche del corpo, sia in quella sua espressione «minore», tanto sottolineata da Kernberg, che è la scissione, con presenza di rappresentazioni opposte del Sé e dell’oggetto. Su questa base dissociativa e scissionale, intervengono poi l’identificazione proiettiva, gli agiti e gli enactments analitici. Mucci delinea con chiarezza anche il processo terapeutico, consistente nel dialogo fra l’inconscio non rimosso del paziente e dell’analista, con l’interiorizzazione da parte del primo di modelli operativi più validi, e con l’assunzione da parte del terapeuta, nei casi di trauma grave, di un insostituibile ruolo di testimone della verità di cui è portatore il paziente.

Di notevole interesse, quanto al processo terapeutico, anche il contributo di Giuseppe Craparo, specificamente dedicato agli enactments, tema di grande attualità recentemente molto dibattuto all’interno della comunità psicoanalitica, che viene qui collegato in maniera diretta, valendosi anche di importanti lavori italiani sull’argomento, a quello dell’inconscio non rimosso. Craparo concepisce e descrive gli enactments come momenti inevitabili, costitutivi della relazione analitica con pazienti difficili, frutto dell’incontro transferale/controtransferale dell’inconscio relazionale non rimosso di paziente e analista, legati a un’interazione largamente indipendente dal contenuto esplicito dello scambio e fondata sul contatto degli emisferi destri di entrambi. La ripetizione, la lettura e l’interpretazione di questi fondamentali momenti di incontro, anche e soprattutto attraverso l’analisi del controtransfert dell’analista, rappresenta uno dei fattori terapeutici decisivi e degli assi portanti della cura, nell’ipotesi che l’inconscio non rimosso dell’analista non solo sia da quest’ultimo leggibile, ma contenga anche modelli operativi interni più validi di quelli del paziente.

Completa il volume la voce «fuori dal coro» di Howard B. Levine, critico della ricerca empirica in psicoanalisi, così come della relazione della psicoanalisi con neuroscienze, scienze cognitive, osservazione infantile e psicologia evolutiva. Il suo capitolo, una sorta di omaggio a Bion, ammonisce a non semplificare, oggettivare e localizzare troppo, sottolineando il carattere peculiare, aperto e irriducibile dell’indagine psicoanalitica. Il tema di fondo del libro, tuttavia, è ben presente anche in quest’ultimo contributo, che rivendica con forza la peculiarità e il fondamento clinico della psicoanalisi, rifiutandone con decisione la subordinazione ad altre discipline, ma condivide esplicitamente con gli altri Autori una nozione di inconscio in larga parte identificabile con il non-verbale, l’implicito, il proto-emotivo, l’informe, il non rappresentabile o difficilmente rappresentabile, insomma l’inconscio non rimosso.

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