A cura di Laura Contran
Stefano Bolognini, psichiatra e psicoanalista è Presidente della Società Psicoanalitica Italiana e membro del comitato editoriale europeo dell’«International Journal of Psychoanalysis». Da anni svolge una intensa attività scientifica e istituzionale nell’ambito dell’International Psychoanalytic Association, con articoli, seminari e conferenze in Europa, America Latina e Nordamerica.
Ha pubblicato, come curatore Il sogno cento anni dopo (Bollati Boringhieri, 2000) e, come autore, L’empatia psicoanalitica (2002) e Passaggi segreti. Teoria e tecnica della relazione interpsichica (2008), tradotti e pubblicati in varie lingue. La sua raccolta di racconti Come vento, come onda (1999) ha vinto il Premio Gradiva.
In questa intervista l’Autore ci parla del suo ultimo libro Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire (Bollati Boringhieri).
D. Dottor Bolognini la pubblicazione di “Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire” segue, a distanza di dieci anni, “Come vento, come onda”, la Sua prima esperienza narrativa che ha incontrato un notevole consenso ed ha ottenuto importanti riconoscimenti a livello internazionale. Nel frattempo ha scritto “L’empatia psicoanalitica” (2002) e “Passaggi segreti. Teoria e tecnica della relazione interpsichica” (2008), due testi strettamente psicoanalitici che affrontano in termini teorico-clinici la Sua esperienza di psicoanalista, anche se non mancano degli elementi narrativi che ritroviamo in quest’ultima raccolta di racconti.
E’ possibile considerare questo Suo percorso “alternato” una ricerca che va nel senso di uscire da un eccessivo schematismo linguistico (quello che Lei definisce parlare in “psicanalese”) mantenendo tuttavia una riflessione analitica rigorosa?
R. Ecco, direi così: la terminologia e la concettualizzazione psicoanalitica sono assolutamente necessarie nel nostro campo, altrimenti entriamo in una Babele teorica; già così, come siamo organizzati nel nostro attuale dibattito scientifico, gli stessi termini tecnici e teorici alle volte significano qualcosa di diverso per i diversi gruppi culturali.
Tuttavia ciò che intravvedo è il rischio di perdere il contatto tra la teoria psicoanalitica e la vita. Quando Freud scrisse “La psicopatologia della vita quotidiana”, a mio avviso, stabilì un ponte formidabile tra la psicoanalisi e la vita.
Fatte le debite proporzioni, a me piace ricercare ancora dei ponti tra le due dimensioni, quella della teoria e della clinica psicoanalitica da un lato, e quella dell’osservazione e del commento dei fatti della vita dall’altro.
Devo riconoscere che per me è un piacere narrare: per cui anche nei testi psicoanalitici veri e propri cerco di ricreare l’atmosfera delle sedute attraverso una narrazione se possibile ricca e colorita, che descriva gli affetti in campo e che dia un’idea dell’esperienza vissuta.
E’ però altrettanto vero che nei racconti è possibile rintracciare in filigrana alcuni elementi di riflessione, apparentemente di facile lettura, ma che in realtà rimandano a un funzionamento osservativo e associativo che è propriamente psicoanalitico.
Mi rendo ben conto della differenza tra il raccontino e un resoconto clinico; però esistono dei ponti possibili fra le due dimensioni.
Il fatto di alternare queste due frequenze, queste due specifiche lunghezze d’onda, mi sembra un esercizio utile, mi diverte – lo confesso – e vedo che, tutto sommato, è ben accolto.
Questa forma di comunicazione permette inoltre di allargare la cerchia dei possibili lettori senza perdere troppo della propria identità psicoanalitica.
Capita che delle persone che hanno letto il libro mi riferiscano di “non avere mai pensato prima” a certi aspetti descritti nei racconti, e questo richiama una consonanza con il lavoro psicoanalitico: anche il paziente in seduta, a seguito di un nostro intervento, di una ricostruzione o di una descrizione, esclama a volte: “Questo non l’avevo pensato …”.
D. Mentre parlava mi veniva in mente il libro di Thomas Ogden “L’arte della psicoanalisi“ e in particolare il capitolo in cui affronta il tema della scrittura psicoanalitica.
R. Allora potrei integrare questa sua associazione con un mio ricordo personale. Nello scorso ottobre mi trovavo a San Francisco per la presentazione di un lavoro clinico e sono stato invitato a cena proprio da Thomas Ogden. Nel corso della serata non abbiamo parlato di psicoanalisi in senso stretto, né tanto meno di faccende istituzionali, ma abbiamo parlato in maniera molto psicoanalitica di cose della vita. Mi sembra attinente a quanto dicevo prima.
D. Mentre”dare parole alle cose” – scrive in “Passaggi segreti” – è una parte fondamentale del lavoro psicoanalitico, è altrettanto importante “dare cose alle parole” nel senso di renderle evocative e dotate di sostanza. A tale proposito cita Freud, come del resto ricordava prima, e il suo uso creativo di “parole-ponte”. Nel leggere i Suoi racconti troviamo luoghi, personaggi, (molti dei quali appartenenti alla sua storia personale) e situazioni di ordinaria quotidianità che al lettore risuonano familiari. In realtà toccano temi di rilevanza psicoanalitica (i lutti mancati, le rivalità fraterne, il senso del tempo) anche se tratteggiati in tono leggero, a volte divertito, ironico o nostalgico. Ritiene, in quanto scrittore-psicoanalista, che il linguaggio logopatico, in cui è presente l’elemento affettivo, possa favorire una maggiore co-partecipazione e permetta di cogliere degli aspetti del mondo che altrimenti non verrebbero percepiti?
R. Be’! … Ha già detto tutto Lei ed è proprio quello che penso. L’unica cosa che potrei aggiungere è che questo modo di comunicare secondo me facilita la dimensione interpsichica: cioè quella dimensione in cui fra due persone – e quindi anche fra chi scrive e chi legge – si vengono a creare dei canali di comunicazione che non sono solo logici e razionali, ma che veicolano anche sensazioni, evocazioni, a volte affetti; e quindi si costituisce un campo interpsichico che può allargare gli scambi tra due mondi interni.
Per carità, adesso sto enfatizzando una cosa quotidiana che riguarda tutti gli esseri umani, alcuni di più, alcuni di meno.
Ci sono delle persone che hanno la fortuna e la capacità di essere estremamente comunicative ed altre invece che rivelano una difficoltà enorme, diremmo noi analisti, ad utilizzare identificazioni proiettive comunicative in modo duttile.
Detto altrimenti, in un linguaggio meno scientifico, certe persone hanno il dono di farci provare delle emozioni e delle sensazioni e di farlo in un modo sopportabile o addirittura piacevole, in certi casi molto arricchente. In definitiva, chi scrive dovrebbe cercare di creare questo “interpsichico” presso-, con- e dentro chi legge: le “cose” sono importanti quanto le parole.
Le parole senza la “cosità”, senza una componente di sostanza, di sensazione ed emozione sono vuote; possono essere meravigliose, ma restano prive di vita.
D. Nei suoi racconti procede per “filoni associativi”: quale associazione ha seguito nel pensare al titolo di questo libro?
R. In questo caso ho dato rilievo al titolo di uno dei capitoletti (Non si sa cosa dire) perché lo ritengo un punto qualificante di questa maniera di essere.
Ho voluto valorizzare il fatto – ora lo dico in psicanalese – che l’Io cosciente non pretenda di controllare tutto, che l’Io difensivo allenti la morsa e che, nella convivenza tra l’Io e le altre istanze e tra l’Io e il territorio esperienziale del Sé, si crei una sufficiente armonica morbidezza di contatto. Si tratta di accettare, insomma, di non sapere cosa dire e di non sapere cosa pensare, e di lasciare venire le cose come sono, nascenti dentro di noi.
In questo senso, paradossalmente, diventa un po’ un’arte, quella di non sapere cosa dire. Si potrebbe riformulare così: l’arte di non sapere già cosa dire.
Beninteso, il titolo dato alla raccolta è un titolo scherzoso, perché io non ho niente a che fare con lo Zen: sì ho letto qualcosa, ma in realtà ne so ben poco.
Però ho afferrato questo principio, che nello Zen si impara un po’ alla volta ad allentare la morsa: e in questo ci trovo una somiglianza con la cultura e il modo di essere psicoanalisti.
D. Certo ricorda proprio la posizione dell’analista, l’attesa, l’insaturo …
R. Esattamente.
D. Tra le varie divagazioni, Lei prende in esame certi “luoghi comuni” o alcuni miti del nostro tempo che spesso hanno un significato difensivo o illusorio. Ad esempio, il fatto che le distanze geografiche si siano oggettivamente ridotte non ha in realtà neutralizzato gli effetti dolorosi (soggettivi) delle separazioni. Oppure la pretesa idealizzante di non invecchiare sembra diventata sempre più irrinunciabile in una società nella quale impera la cultura dell’immagine. Le Sue riflessioni in merito mi hanno fatto pensare al un principio etico della psicoanalisi in quanto come Lei scrive “quel che è da evitare è la falsificazione della realtà” (127). Questo sì è un aspetto irrinunciabile, quantomeno per noi psicoanalisti …
R. Sappiamo bene come questo, oggi più che mai, ci riguardi.
Naturalmente quanto sostengo non ha niente a che vedere con il fatto che le persone abbiano più cura di sé e si tengano in buona forma: ma è la falsificazione della realtà che segnala la sfasatura, effetto di un mito del nostro tempo.
Ne potrei elencare altri; ad esempio all’inizio del libro parlo della “ottimizzazione del tempo”, che, in effetti, grazie a tutti i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione ci permette di essere sempre molto informati: ma è una dannazione, perché in questo modo non abbiamo più un minuto di tempo libero.
Mi viene in mente un film americano di qualche anno fa con Tom Hanks, Cast Away: l’inizio, angosciante, ci mostra, appunto, una persona estremamente organizzata nell’ottimizzare tutto il suo tempo.
Quasi per una sorta di contrappasso simbolico, il personaggio si trova precipitato in una situazione in cui il tempo non esiste più, in un luogo in cui non c’è niente da fare.
Quel poveretto deve trovare una maniera di sopravvivere, anche psichicamente, disabituato com’è ad avere tempo per se stesso.
Noi ottimizziamo tutto, neghiamo le distanze geografiche e quindi gli effetti dolorosi delle separazioni; pensiamo che i mezzi di trasporto veloci pongano rimedio alla lontananza.
Invece quando le persone vivono lontane cominciano a nutrirsi di altre notizie, di altre culture di altre presenze, la separazione comunque avviene…
Insomma l’essere umano grazie alla tecnologia può certamente migliorare la sua condizione, ma spesso si illude di averla radicalmente trasformata, il che non è vero.
Così con la chirurgia estetica si può migliorare senz’altro l’aspetto fisico, ma l’illusione dell’eterna giovinezza è una misera illusione.
D. Ancora un richiamo a Passaggi segreti: “Gli psicoanalisti si allenano a tollerare dentro di loro la percezione della complessità non solo a livello concettuale, ma anche a livello esperienziale, emotivo e controtransferale” (113). Da più di vent’anni l’empatia psicoanalitica è al centro del Suo interesse teorico-clinico. E’ indubbiamente un concetto “complesso” che, come Lei sottolinea, va distinto dai fenomeni di identificazione inconsci, o dal cosiddetto “buonismo” analitico a cui spesso l’empatia è stata omologata. Ci può accennare alle modificazioni e alle evoluzioni che tale concetto ha incontrato nella Sua elaborazione?
R. Questo è un punto per me importante, perché incominciai a interessarmi all’empatia quando lessi l’opera di Kohut, un autore che avevo apprezzato e ammirato in quanto mi sembrava proponesse delle idee psicoanalitiche molto “vere”.
Sono rimasto di quell’idea, però Kohut non mi basta più: nel senso che ho trovato altri autori che hanno espresso concetti diversi dai suoi, eppure “veri” quanto quelli di Kohut.
Mi spiego. Un anno e mezzo fa sono stato invitato dall’Istituto di Chicago a parlare di empatia e ho trovato una platea vastissima di analisti del Self.
Io ho espresso la mia ammirazione per l’opera di Kohut e per il suo pensiero, ma ho sottolineato che ritenevo importante includere nel mio campo di riferimenti le teorie di altri autori.
In particolare, poi, a Kohut contestavo due punti.
Il primo riguarda “l’empatia come metodo”. Ritengo, infatti, che l’empatia non sia un metodo, ma un evento che noi possiamo cercare di facilitare un po’ ma che non possiamo adottare – appunto – come un metodo intenzionale o riproducibile.
In secondo luogo, la sintonizzazione consigliata da Kohut è orientata preferibilmente verso la parte bisognosa del paziente, intendendo la parte ferita narcisisticamente.
Secondo me Kohut ha detto una cosa molto “vera”, ma ha preteso di estenderla a tutto l’atteggiamento analitico.
Credo non si debba limitare la nostra percezione e il nostro contatto alla parte bisognosa e narcisisticamente ferita, bensì ampliare la nostra attenzione a tutta le altre parti del paziente e della relazione, compreso l’Io difensivo.
Mi piace dire che mi interessa non solo il carcerato ma anche il carceriere e tutte le parti scisse che flottano nel campo e che lì per lì non sono strettamente connesse alla parte ferita, narcisisticamente vulnerabile.
Quando a Chicago ho sostenuto quanto detto ora, una parte dell’uditorio non ha gradito per niente perché in quell’istituto l’atteggiamento riparativo nei confronti della parte ferita narcisisticamente è talmente dominante che, estendendo il campo percettivo e operativo dell’analista come proponevo, si andava in un certo senso di intaccare qualcosa di sacro e fondamentale.
Io resto del parere che Kohut è un grande autore, ma lo è come lo sono Rosenfeld, Kernberg, e tutti coloro che hanno parlato delle componenti complesse del mondo interno e del fatto di sintonizzarsi con esso; compreso con l’Io difensivo (e quindi rivaluto integrativamente la parte freudiana e la psicoanalisi del conflitto).
La psicoanalisi oggi è molto ricca grazie a tutti questi apporti e per tutti noi è una risorsa poter godere di questa famiglia analitica allargata.
D. Abbiamo parlato di interpsichico, di empatia e volevo soffermarmi su un altro concetto da Lei trattato: quello di trans-psichico, a proposito delle patologie gravi ma anche di quelle patologie che caratterizzano la nostra epoca, come ad esempio gli attacchi di panico. Patologie che riguardano la perdita di confini …
R. Ho un grande interesse per l’equivalenza che la psicoanalisi indaga, con una specificità molto elevata, tra i fenomeni del campo psichico e quelli fisici, corporei.
Credo che la psicoanalisi abbia sempre saputo stabilire delle connessioni significative e profonde tra l’esperienza corporea degli esseri umani e l’esperienza psichica.
Così quando parliamo del trans–psichico ci riferiamo a tutte quelle comunicazioni improprie che si stabiliscono patologicamente tra due o più persone, a modalità malate di comunicazione o di intrusione che gli esseri umani realizzano tra di loro e che trovano il corrispettivo in intrusioni corporee, potremmo dire, “contro natura”: nel senso che il trans-psichico è una modalità di entrare nel mondo dell’altro o 1) per vie che non sono quelle naturali o 2) con modalità che non sono quelle visibili, tollerabili ed elaborabili dall’altro.
Quindi abbiamo intrusioni di vario tipo, attraverso canali di ingresso nell’altro, nella mente dell’altro, nell’animo dell’altro che sono l’equivalente di intrusioni per canali d’ingresso anali o orali forzati o soffocanti, o trafittivi, ferendo la pelle.
Sono così tutte quelle modalità, insomma, che non rispettano l’armoniosa fisiologia degli scambi corporei tra le persone.
Psichicamente si realizzano gli equivalenti (positivi o negativi) di questi processi: la possibilità di nutrire l’altro o di farsi nutrire dall’altro; di penetrare l’altro amorevolmente o di farsi penetrare dall’altro amorevolmente; di toccare, di accarezzare l’altro oppure di trafiggerlo traumaticamente. Sono modalità molto diverse. La differenza tra l’interpsichico e il trans-psichico è proprio questa. Nell’interpsichico si crea un campo comune dove troviamo gli equivalenti psichici delle buone connessioni e comunicazioni corporee: come in una buona nutrizione, in un buon rapporto amoroso, in un buon contatto tra due esseri umani (il tutto però in forma psichica ma con delle equivalenze ben riconoscibili).
Nel trans-psichico, invece, abbiamo tutto il campionario possibile delle violazioni, delle intrusioni psichiche che equivalgono a quelle fisiche.
Direi che nel campo delle patologie gravi ritroviamo in modo massiccio la modalità trans-psichica di invadere, violentare o di subire l’altro.
Un punto per me di grande interesse, nel campo delle patologie gravi, è quello di recuperare l’importanza in psicoanalisi delle funzioni di contenimento pre-rêverie.
Negli ultimi anni alcuni analisti (in particolare Ogden, Ferro, Grotstein) hanno sviluppato la dimensione creativa necessaria della rêverie per creare un campo mentale condiviso che nutre e cura.
Il mio interesse nasce dal fatto di aver lavorato a lungo e con impegno in psichiatria, rivolgendo una grande attenzione anche a tutto ciò che è pre-rêverie: quando il contenimento non ambisce ancora a sviluppare la funzione di rêverie, ma svolge una funzione pressoché uterina di contenimento (che può essere concreto o un equivalente simbolico, ma comunque necessario).
Questo ha a che fare per esempio con la dimensione del ricovero, in cui la differenza tra contenimento e contenzione è importante e in cui la funzione del “contenitore pre-rêverie” è stata a lungo contestata, attaccata e non compresa in campo psichiatrico.
Anche nelle sedute psicoanalitiche più turbolente ci sono delle situazioni in cui non si può ancora funzionare in regime di rêverie, ma è importante essere lì e funzionare come un utero contenitivo, comunque.
Il fatto che l’analista ci sia, che la seduta ci sia, sono importanti anche se non è possibile funzionare in un regime di rêverie.
Solo quando le turbolenze più violente si saranno calmate, allora, forse, la rêverie potrà incominciare a svolgere il suo insostituibile ruolo.
Occorre sottolineare che questo gli psichiatri lo sanno e lo fanno, e questo va assolutamente valorizzato.
D. A proposito di rêverie non può mancare una domanda sul sogno e l’esperienza del sognare durante il percorso analitico. In “Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire” Lei non scrive di casi clinici. Solo due brevi “incursioni”: nel racconto Paesaggi del sogno(128) si sofferma sull’attività onirica, sulle sue forme rappresentative e le sue trasformazioni. Mi sembra che Lei sostenga l’opportunità di ampliare i confini interpretativi del sogno integrandoli con nuove visioni della clinica.
R Credo di poter dire che in questi ultimi anni il lavoro psicoanalitico del sogno, sul sogno e con il sogno abbia progressivamente valorizzato tutte le rappresentazioni e le funzioni del Sé.
Non solo il sogno inteso come espressione del desiderio e del rimosso, legato quindi alla pulsionalità nascosta che si manifesta in forma mascherata nelle varie rappresentazioni oniriche; ma il sogno quale indicatore delle condizioni attuali del Sé del sognatore e del suo mondo interno. L’altro aspetto che è stato evidenziato negli ultimi anni è il sogno come esperienza, nel senso che nel sogno – dico di solito – le cose non sono reali ma sono vere.
Corrispondono cioè a esperienze vere del soggetto, che molto spesso ha modo, attraverso il sogno, di mettere in gioco, mettere in azione o alla prova, parti di sé che durante la veglia non riesce a contattare.
Il sogno come esperienza valorizza una prospettiva che dobbiamo soprattutto ai maestri inglesi del middle group, ed è una novità degli ultimi decenni (parlo di decenni perché nella nostra storia abbiamo passato il secolo già da un po’).
Diciamo che ad una visione criptica, investigativa dell’analisi del sogno, si è aggiunto un concetto più ampio di valorizzazione dell’esperienza del sognare che rimanda a un’attività profonda della mente e che in parte si verifica, come sappiamo, anche durante la veglia.
D. Si è svolto recentemente a Taormina il XV Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana di cui è l’attuale Presidente. Quali sono complessivamente le Sue impressioni o considerazioni sia rispetto alla partecipazione sia al contenuto dei lavori presentati nel corso di questo Congresso?
R. Ho già avuto modo di esprimere il mio parere in una lettera ai Soci. Il Congresso non è stato un congresso pacifico e bonario. E’ stato un Congresso intenso dal punto di vista scientifico, dove le differenze si sono evidenziate e dove non c’è stato alcun tentativo di ammorbidimento delle differenze.
Però ho potuto constatare un alto livello di attenzione come poche volte mi è capitato di vedere, con una partecipazione sempre molto intensa, con pochissime uscite dalla sala.
Mentre il va e vieni frequente durante lo svolgimento di questi congressi può suggerire l’idea di una mente collettiva che si frammenta e si sparpaglia, in questa occasione la mente collettiva è stata molto coesa, molto interessata al procedere e allo sviluppo dei lavori, capace di tollerare le differenze anche con delle animosità. Interventi molto forti, con forte partecipazione emotiva.
D. Espressione comunque di una certa passione…
R. Di vera passione. E quindi è stato un Congresso di vero lavoro, uno di quelli di cui si parla nelle settimane e forse anche nei mesi successivi.
I contributi sono stati notevoli perché al di là delle differenze individuali, l’impressione è stata quella di una ricerca.
I differenti approcci riflettevano storie scientifiche molto lunghe, però oserei dire che quasi tutti i relatori hanno fatto un passo un po’ più in là rispetto a quello che già si conosceva di loro.
Hanno tentato di esplorare qualcosa di ulteriore: chi concettualmente, chi clinicamente.
I lavori sono stati molto diversi: qualcuno si è addentrato in una ricerca di tipo concettuale, qualcun altro ha trattato di casi clinici davvero molto belli.
Le discussioni sono state particolarmente impegnate e il livello degli interventi era piuttosto alto, perché stimolato dalla qualità dei lavori.
Come Presidente della SPI sono stato fiero della partecipazione di molti stranieri e del fatto che questi abbiano espresso degli apprezzamenti sulla tensione scientifica del Congresso: colleghi provenienti da società psicoanalitiche molto raffinate hanno incontrato un ampio range di visioni teoriche, di solito inusuale nelle loro società di appartenenza.
E in questo risiede la risorsa fondamentale della SPI, che è una società ad alta diversificazione interna (pensiamo ai suoi dieci Centri scientifici…).
Gli stranieri questo lo avvertono e lo evidenziano con rispetto: questa connessione strutturale fra i vari Centri, che mantengono tuttavia una loro individualità e una loro storia, li rende molto ammirati.
Tenga presente che, nelle grandi realtà istituzionali e scientifiche degli Stati Uniti e del Sud America, nelle grandi città non esistono centri: ci sono società.
La differenza è nelle connessioni fra queste istituzioni nelle quali avvengono minori scambi rispetto a quanto accade da noi. Noi abbiamo una grande articolazione ma anche una grande connessione.
D. Un’ultima domanda sulla tanto discussa crisi della psicoanalisi legata ai fattori di cambiamento socio-culturali. Qual è il Suo parere al riguardo e in che misura questa crisi mette in gioco la nostra responsabilità di psicoanalisti?
R. La mia idea personale sulla crisi della psicoanalisi riguarda due punti che considero gravi e profondi, e che proverò a dirle anche se non sono facili da esprimere perché contengono un potenziale culturalmente quasi eversivo.
I due punti critici che a mio parere svolgono una funzione profonda nella relativa crisi della psicoanalisi (che, come sappiamo, è a livello mondiale, quindi al di là delle politiche culturali delle singole Società), sono i seguenti.
Il primo riguarda la progressiva difficoltà degli esseri umani di accettare condizioni di protratta dipendenza.
A mio avviso, una protratta e intensiva dipendenza, come quella richiesta da un trattamento analitico con quattro sedute settimanali per anni, sta incontrando nel nostro periodo storico un certo rifiuto, un rigetto da parte dei possibili pazienti, perché la dipendenza è diventata più difficile da tanti punti di vista.
Tanto per cominciare, il Super-io ha perso peso specifico, funzioni e potere.
Una volta i pazienti erano desiderosi di mettersi sotto l’ala protettiva di un oggetto-equivalente genitoriale, mentre oggi hanno un enorme difficoltà a tollerare la dipendenza da esso.
Le ragioni della difficoltà nell’accettare la dipendenza sono moltissime.
Forse una di queste potrebbe essere il fatto che, in linea di massima, la simbiosi e la convivenza madre-bambino si siano ridotte.
L’ambiente familiare è meno continuativo e meno stabile di quello di un tempo; sono aumentate le separazioni e i divorzi; ma soprattutto nella fase primaria della relazione, la quantità di tempo e di cure, ma direi proprio di simbiosi fra madre e figlio, è diminuita per tutti i fattori sociali che possiamo immaginare.
Affermare questo non è popolare e non è sicuramente politically correct, perché implica una serie di considerazioni sul fatto che “la coperta è sempre troppo corta”.
Occorre però aggiungere che in linea di massima, al di là della psicoanalisi, tutte le situazioni in cui si tratta di dipendere consapevolmente e chiaramente da un altro essere umano, sono oggi contestate.
Magari si dipende da una sostanza o da un’abitudine, ma non si dipende volontariamente e facilmente, regredendo, da un altro essere umano.
Il secondo punto, che per me è ancora più doloroso da dire e che ha caratteristiche quasi di empietà a ben pensarci, riguarda l’amara constatazione che la vita umana oggigiorno probabilmente vale meno.
Al di là di tante dichiarazioni di tipo teorico o ideologico, di fatto, gli esseri umani oggi sono, come dire?, in eccedenza: non c’è più alcun bisogno di loro, non c’è più bisogno degli esseri umani, soprattutto nel lavoro.
C’è un’effettiva perdita di valore della vita umana e, secondo me, questo ha dei riflessi pesantemente negativi sul senso di importanza e legittimità delle soggettività degli esseri umani.
Dico “soggettività” e non “narcisismo”, perché il narcisismo difensivo invece viene sostenuto e incoraggiato da mille forme socialmente indotte, mentre il vero senso e valore della soggettività umana e dell’individuo è, in realtà, più o meno, occultamente e sottilmente negato.
Mi rendo conto di quanto tali affermazioni possano risultare piuttosto eversive.
Mi sono però venute in mente nel vedere come ci sia oggi un fuggi-fuggi dalla dipendenza, e parlo della dipendenza necessaria, quella creativa, nutritiva, quella che permette di crescere e di diventare davvero meno dipendenti o indipendenti da adulti; e nel percepire come ci sia un senso di relativa rassegnazione, dietro a tanti narcisismi, riguardo invece alla valorizzazione della vita umana e della soggettività. Sono pensieri amari …
D. Che tuttavia rimandano ai disagi della nostra Civiltà.
R. Il richiamo al titolo dell’opera di Freud mi sembra puntuale. Certo che terminare così l’intervista!
D. Potremmo concludere ricordando che nel percorso analitico l’esperienza della fiducia resta un elemento fondamentale sia per l’analista sia per il paziente.
R. A tale proposito, mi permetto di ricordare che nel titolo di alcuni miei lavori ho citato delle situazioni che in un medioevo come quello attuale (umano e culturale) ci attribuiscono una funzione e, come diceva Lei prima, una responsabilità.
Un mio lavoro di qualche anno fa si intitolava Il focolare analitico. Un altro Il bar nel deserto. Gli analisti, oggi, richiamano immagini di questo genere. Attraverso la ricerca di “passaggi segreti” cercano di rifornire di “cose” pensabili, buone e condivisibili, una parte di umanità che sembrerebbe averne un gran bisogno.
A mio avviso gli analisti possono dare qualcosa di preziosissimo in un mondo confuso e superficiale com’è quello attuale e quindi credo che abbiano una funzione e, sì, anche una responsabilità.
luglio 2010