D.: Professore, può esporre, sinteticamente, il suo concetto di psicosi e di intervento terapeutico per la psicosi ?
R.: In varie pubblicazioni, che sono iniziate nel ’67 con La psicoanalisi del delirio, ho cominciato a esporre i risultati della mia esperienza clinica relativa alla psicosi. Gli aspetti fondamentali che fin dall’inizio ho esplorato e approfondito, riguardano il significato del panico psicotico e i tentativi di auto terapia che lo psicotico attua con la principale finalità di poter negare i propri bisogni, sentiti come limite inaccettabile in quanto creano uno stato di dipendenza, fonte di un’angoscia disorganizzante, non solo dal bisogno ma anche dall’oggetto di bisogno.
D.: Che lei definì: il bisogno di non aver bisogni?
R.: Esattamente, e alla negazione dei bisogni sono rivolti i suoi tentativi di auto cura. Tre sono a mio parere le manifestazioni principali di questi tentativi. Il delirio di fine del mondo, modalità di auto cura rispetto al panico che gli deriva dalla percezione del limite, in particolare del limite estremo, quello della morte. Proietta quindi il senso della propria distruzione all’esterno e il pericolo della distruzione del mondo rende motivato e comprensibile il suo panico. Il delirio di negazione è rivolto sia al bisogno che all’oggetto di bisogno, quindi anche alle cure e a coloro che gliele somministrano. Le fantasie di rinascita esprimono la convinzione onnipotente di poter superare il panico di fronte al limite e ai bisogni attraverso una rinascita, in una realtà illusionale, priva delle costrizioni della realtà esistente, sia la propria che quella esterna.
Quindi, noi dobbiamo metterci nelle condizioni di pensare che non siamo solo noi, come tecnici e come esperti, i curanti, ma che anche lo psicotico tenta, a suo modo, di realizzare un’auto terapia: dobbiamo quindi svolgerà una funzione di intermediazione tra la sua auto cura e la cura che noi gli proponiamo. Questa è quindi la prima fonte di integrazione. Ma dato che i bisogni del paziente sono molteplici è necessaria una pluralità di interventi realizzati da esperti in diverse discipline: ma farmacoterapeuta, psicoterapeuta, chi svolge l’assistenza e chi svolge la rieducazione, devono essere consapevoli della necessità di usare una metodologia di integrazione. Uno di questi esperti non può realizzare da solo il proprio intervento, senza tener conto di quello degli altri: il farmacoterapeuta deve pensare che ci sono anche lo psicoterapeuta, gli assistenti, i rieducatori, e viceversa.
D.: Lei, quindi, ritiene che, curare lo psicotico con il metodo psicoanalitico classico rischierebbe di “riprodurre” il delirio onnipotente dello psicotico
R.: Non solo di riprodurlo ma, in tal modo, si realizzerebbe una sfida tra onnipotenti. Inoltre non si terrebbe conto della possibilità di utilizzare altre tecniche in modo integrato e non, come spesso avviene, secondo il principio “ex non juvantibus”. L’integrazione infatti permette di attuare degli interventi secondo un’ottica sinergica. A questo fine dobbiamo vedere come possiamo impostare la mappatura dei poteri. Non avendo infatti un solo potere, dobbiamo integrarli, e a questo scopo è necessario delineare la mappa dei vari poteri perché non entrino in conflitto ma si potenzino reciprocamente.
D.: Dunque, non si è in un’ottica onnipotente, ma in un’ottica di rete di poteri
R.: Sì, e dobbiamo ricordare che la mappa dei poteri non riguarda solo gli esperti, ma anche lo psicotico, che, per esempio, non desidera essere curato, la sua famiglia, la società, che hanno anche loro dei poteri che, se non vengono considerati in modo corretto, agiscono come fattori di opposizione e quindi in senso distruttivo. Per quanto riguarda poi il problema fondamentale della psicosi cioè la possibilità di modificare lo stato di panico, dobbiamo tener conto di quella che viene definita la simbiosi, stato di dipendenza regressiva dove, pur in gradi differenti, esiste uno stato di scarsa differenziazione tra sé e l’altro. Ma la simbiosi ha stadi differenti, quindi caratteristiche diverse lungo un continuum. Lo psicotico può passare quindi da una posizione di simbiosi fusionale, a una simbiosi ambivalente, a una di simbiosi focale, in cui esiste un’area nella quale persistono manifestazioni simbiotiche, ma anche un’area “libera” dalla simbiosi, in cui si può di conseguenza sviluppare un funzionamento autonomo. Come se il paziente dicesse, per esempio. “Con la mamma, cioè il partner simbiotico, abbiamo un elemento in comune attraverso il quale saturiamo reciprocamente certi bisogni, per il resto possiamo essere indipendenti”. Uno degli scopi principali del trattamento degli stati psicotici è, quindi, fare in modo che la simbiosi fusionale, diventi simbiosi ambivalente, per poi trasformarsi in simbiosi focale. Nel concetto di simbiosi dobbiamo tener conto di queste tre possibilità, che equivalgono a modificazioni, possibili e in senso progressivo, della psicosi. Usare le tecniche che sviluppino nel modo migliore l’alleanza con il soggetto psicotico e l’integrazione di tecniche diverse e di queste con le modalità di auto cura dei pazienti sono fondamentali a questo scopo.
D.: Questi sono i principi fondamentali dell’approccio integrato
R.: Sì. A livello delle tecniche inoltre dobbiamo considerare alcune specificità. Ne ricordo alcune. Nel rapporto con lo psicotico, ad esempio, il discorso transfert/controtransfert, va ampliato, tenendo conto non solo degli affetti di amore e di odio, ma anche di quelli di paura e di noia. Va, inoltre, tenuto conto dell’aspetto di tradimento, in quanto lo psicotico spesso lo attua nei nostri confronti come risposta alla percezione di una minaccia alle sue sicurezze, minaccia che sente provenire da noi quando ad esempio vogliamo che percepisca dei bisogni che non è in grado di vivere.
D.: Su questo, lei ha scritto due importanti libri: La paura e la noia, e Paranoia e tradimento
R.: In cui descrivevo proprio questo. Altra questione molto importante è quella che ho trattato nella psicosi e il segreto. Dobbiamo infatti riuscire a creare con il paziente un’alleanza attraverso un’area di segreto condiviso, area necessaria per diminuire le manifestazioni pericolose e incomprensibili, cioè la psicosi pubblica, e strutturare una psicosi privata, area costituita dalla relazione terapeutica, in cui le manifestazioni dei suoi bisogni specifici, ad esempio, di onnipotenza, possono venire accettate e contenute, perdendo il loro carattere di pericolosità. Cioè noi possiamo accettare che lo psicotico mantenga delle sue caratteristiche e dei suoi sintomi psicotici nella sua area privata e nel rapporto con noi, mentre nel rapporto pubblico, quello che ha con gli altri, riesce ad essere adattativo e a non manifestare i suoi bisogni legati all’onnipotenza psicotica, proprio perché può mantenerli ed esprimerli nel privato. Si arriva, attraverso questa modalità di intervento terapeutico, a strutturare una posizione molto importante, per cui le manifestazioni psicotiche vengono ridotte e mantenute in un ambito circoscritto, e a quella che può essere considerata la guarigione sociale.
D.: Questo implica il raggiungimento, da parte del paziente, di una differenziazione fra diverse aree del Sé e di differenziazione fra sé e gli altri
R.: Differenziazione che si raggiunge perché noi lo accettiamo, non vogliamo che sia solo “normale”, ma che conservi anche una sua area psicotica, cioè di onnipotenza e di negazione del limite purché rimanga nei limiti del “privato”.
D.: E’ anche una posizione etica?
R.: E’ una posizione etica, senz’altro. Non c’è la pretesa di usare il criterio della vecchia medicina ubi pus ibi evacuat, cioè dove c’è un disturbo, dobbiamo fare in modo di toglierlo; ma possiamo mantenere quello che per noi è un disturbo ma per lui una necessità, entro limiti accettabili, anzi è proprio questo che gli permetto lo sviluppo di un sé orientato alla realtà. È importante ricordare che, se impostiamo il trattamento con questa finalità, non solo rispettiamo il bisogno del paziente di mantenere un’area illusionale, che rimane privata e che può anche seguendo i suoi tempi, essere ulteriormente ridotta ma anche che lo aiutiamo, proprio per questo, a strutturare un equilibrio più stabile e naturale, in quanto non ottenuto attraverso la forzata repressione ed esclusione di ciò che egli sente essere una parte di sé creativa e vitale. Questo è un aspetto che è essenziale che venga compreso e applicato da chi desidera realizzare un trattamento di questa categoria di pazienti, basato su una comprensione della loro specificità e non su una attribuzione di nostre convinzioni o ideologie.
Così come è essenziale imparare a utilizzare oltre alla metodologia dell’integrazione, la funzione che ho descritto a livello teorico e clinico ne La follia e l’intermediario. Si tratta, in sintesi, di svolgere una funzione di intermediazione sia tra i bisogni dello psicotico e quelli dell’ambiente, sia tra gli aspetti pubblici e quelli privati, sia tra i diversi poteri, cioè dobbiamo essere in grado di svolgere una funzione terapeutica, non solo nel senso usuale del termine ma anche di una intermediazione. Questo significa fare da intermediario, tra lo psicotico e i familiari, tra lo psicotico e i suoi compagni di vita, fra lo psicotico e i datori di lavoro. Ciò che voglio sottolineare, cioè, è che tale funzione è assolutamente necessaria perché è indispensabile mediare tra le modalità di auto terapia del paziente e le modalità di terapia che, invece, gli esperti propongono, tra lo psicotico e il mondo esterno e tra il potere dello psicotico e quello delle persone che di lui si occupano, familiari e curanti.
D.: Questo è molto diverso rispetto alla funzione, assunta in alcuni casi dal terapeuta, di essere un “Io vicariante”, rispetto all’Io del paziente?
R.: Sì. Perché è diversa la condizione di base: non può essere considerato solo l’Io residuale non psicotico, ma anche l’Io psicotico. Altrimenti escluderemmo tutti i tentativi di terapia che lo psicotico cerca, in maniera evidentemente non positiva, di attuare, e di potere intervenire a modificarne gli aspetti distruttivi. In breve solo così siamo nelle condizioni di fare da intermediario tra l’Io psicotico e l’Io non psicotico. Non si tratta, quindi, solo di esplorare le origini di certi disturbi e di certi traumi; dobbiamo considerare l’intermediazione tra follia e normalità, una forma di esperienza emozionale correttiva. La tecnica tradizionale, che usiamo con i nevrotici, non funziona con gli psicotici, perché vanno tenute in considerazione queste le sue specifiche caratteristiche e modalità.
D.: Facciamo un passo indietro: lei concepisce la psicosi come esito di una situazione segnata dal deficit?
R.: E’ attualmente riconosciuta nell’eziologia della psicosi l’esistenza di una parte deficitaria, dovuta ad un’interazione di fattori bio psico sociali. La funzione dell’intermediario è proprio quella di collegare le parti deficitarie e le parti conflittuali. Dobbiamo tener conto di tutte e due le componenti: non c’è solo una componente dovuta a un deficit o una dovuta a un conflitto, ma possono essere presenti entrambe, e noi dobbiamo fare da intermediario fra aspetti deficitarii e aspetti conflittuali, usando tecniche di mediazione specifiche per le psicosi. Quindi dobbiamo innanzitutto individuare quali sono le aree deficitarie e quali le aree dove c’è conflitto, perché vanno trattate secondo tecniche diverse. Per le aree deficitarie, si cerca di dare delle protesi che compensino i deficit, mentre per le aree espressione di conflitto, si cerca di fare in modo che il conflitto venga elaborato e risolto con le tecniche “classiche” di presa di coscienza e di esperienza emotiva correttiva nella relazione.
D.: Il suo ultimo libro si intitola La diagnosi. Ce ne può accennare?
R.: Già non lo considero più il mio ultimo libro, perché sta già per uscirne un altro. In una situazione di integrazione, i diversi esperti, per poter arrivare a una diagnosi, fanno ciascuno una diagnosi e ognuno è consapevole della necessità di integrare i dati delle diagnosi degli altri esperti. Non c’è solo il diritto da parte dello psichiatra di fare una diagnosi: le diagnosi sono fatte anche dagli psicoterapeuti, dagli psicologi in genere, dagli infermieri. Gli infermieri psichiatrici, ad esempio, nel momento in cui usano il cosiddetto “libro delle consegne” fanno delle diagnosi. Dobbiamo cioè tener presente che i diversi momenti diagnostici devono essere integrati in vere e proprie reti diagnostiche, perché ciascun esperto coglie solo aspetti parziali, che vanno completati con gli aspetti colti dagli altri.
D.: Adesso, come può sottrarsi dal darci un’anticipazione sul prossimo libro!
R..: Nel prossimo libro, il cui titolo sarà: Psicopatologia grave: una guida alla comprensione e al trattamento, riprendo tutte queste questioni, in maniera sistematica e approfondita, con la finalità di presentare una sintesi dei risultati della mia esperienza clinica e della elaborazione teorica che da essa è derivata, utile a comprendere e curare le patologie gravi. Parlo di patologie gravi in quanto essere in grado di capire gli stati psicotici e come impostarne il trattamento è, a mio parere, una base necessaria per comprendere e curare anche altre condizioni psicopatologiche che sono da considerarsi su un continuum, ad esempio la patologia borderline.
BIBLIOGRAFIA
G. C. Zapparoli. La perversione logica. Milano, Franco Angeli, 1970.
G. C. Zapparoli.e E.Segre Vivere e morire. Milano, Feltrinelli, 1977.
G. C. Zapparoli. La paura e la noia. Firenze, Il Saggiatore. 1979
G. C. Zapparoli (1967). Psicoanalisi del delirio. Milano, Bompiani, 1982.
G. C. Zapparoli. La psicosi e il segreto. Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
G. C. Zapparoli, (a cura di) (1985). La psichiatria oggi. Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
G. C. Zapparoli. Paranoia e tradimento. Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
G. C. Zapparoli. La realtà psicotica Bollati Boringhieri Torino 1994
G. C. Zapparoli. La follia e l’intermediario. Bergamo, Dialogos Edizioni, 2002.
G. C. Zapparoli (a cura di) La diagnosi Bergamo, Dialogos Edizioni, 2004
G. C. Zapparoli Psicopatologia grave: una guida alla comprensione e al trattamento. Bergamo, Dialogos Edizioni, in press