La Ricerca

Intervista a Dina Vallino e Marco Maccio

17/11/08

D.: Il libro contiene approfondite considerazioni sull’Infant Observation. Potreste illustrare brevemente questa metodologia osservativa, concepita da Ester Bick con la peculiarità di essere “esente da ogni procedura di laboratorio”?

R.: La regola dell’Infant Observation permette di declinare, con l’osservazione dei lattanti, un tempo più lento, più vicino alla vita quotidiana del neonato e dunque alla sua corporeità-mentale, l’area somatopsichica, direbbe Bion. Il tempo del lattante scandito dai vagiti, dai suoni non articolati, dai gesti, dagli sguardi, dall’emergenza della fame e del desiderio è comunque tempo fuori dall’organizzazione dei ruoli, degli orari, degli uffici e costituisce per la madre la base del suo adattamento al piccolo e la base delle certezze che di settimana in settimana le confermano che il suo bambino “sta bene”. Gli osservatori dell’Infant, come le madri, accettano il tempo del neonato, o come ci è piaciuto chiamarlo il kairòs, tempo opportuno per stare con l’altro. Spesso lo dimentichiamo, ma l’osservazione del lattante in famiglia ci insegna ad ascoltare, a guardare, a rallentarci per potere, in un secondo momento, riflettere: l’après-coup, ciò che si comprende a posteriori, è la base dell’esperienza che si giunge ad avere di un neonato. Quel che la madre fa per lui, di buono, lo si capisce dopo. Non solo. L’Infant Observation della madre col neonato, secondo il metodo della Bick, non è un’osservazione pre-scientifica, “povera” nella sua banalità quotidiana (e poco importante rispetto alla osservazione sperimentale), ma è, al contrario, osservazione che, talvolta, con difficoltà, si avvicina al cuore segreto della vita mentale, e pertanto ha un significato religioso, filosofico, esistenziale. In quanto tale, l’osservazione bickiana deve suscitare un “impatto emotivo” nell’Osservatore: ti scuote, talvolta ferisce e ti riporta alla necessità della conoscenza: non puoi proiettare te stesso nell’altro, ma devi riconoscerne la diversità. In questo senso, l’Infant Observation rispetta il principio scientifico della psicoanalisi.

 

Nomino alcuni elementi del metodo dell’Infant Observation: la continuità e la periodicità delle osservazioni, l’esclusione di ogni strumento tecnico di registrazione (foto, registratore od altro), la stesura di un resoconto (il protocollo) dopo che è finita l’ora di osservazione. A seguito di ciò, durante il seminario di Infant Observation, avviene che l’Osservatore legge il suo resoconto scritto della visita al neonato a un piccolo gruppo di operatori con un Conduttore esperto della materia. Tenendo conto dell’atmosfera emotiva della famiglia, l’Osservatore permetterà al gruppo di discutere la seduta di osservazione potendo recepire la risonanza delle emozioni sui partecipanti al gruppo, trasmesse dal bebè alla madre e al padre e dalla madre e dal padre al bebè. Questa prima fase è molto importante perché aiuta l’Osservatore a prendere contatto con i suoi pregiudizi nell’osservare, il suo coinvolgimento e la sua perspicuità osservativa. Per il gruppo e il Conduttore del lavoro di supervisione, questo è un lavoro di verifica delle asserzioni contenute nel protocollo scritto.

D.: Nel libro, scrivete di aver usato l’Infant Observation in un modo particolare. Che cosa intenetei?

R.: Sì, in Essere neonati, noi sviluppiamo una Ricerca sull’Infant Observation, che è cosa assai differente dall’Infant Observation. Ogni Infant Observation si compone, nel suo insieme, di decine di protocolli osservativi discussi nel gruppo. La nostra ricerca parte da questi protocolli già elaborati e discussi, anche molti anni fa, li ristudia e li confronta tra loro; considera cioè protocolli inerenti a due o più, anche a decine di bambini differenti. Il tutto al fine di rispondere a una domanda che precede l’inizio della ricerca. Le domande possono essere le più varie. Noi, ad esempio, ci siamo interrogati a lungo sul significato del pianto del neonato come espressione della sua vita mentale. La ricerca sui protocolli ha avuto inizio, io ritengo, dalla Bick e poi da Harris e Meltzer ecc., i quali non l’ hanno ritenuta, però, come una disciplina diversa dall’Infant Observation. A me pare che un progetto psicoanalitico di ricerca osservativa (il nostro è un singolo contributo) potrebbe aver luogo proprio a partire dalle migliaia di protocolli di migliaia di bambini diversi, che giacciono sparsi in archivi privati e pubblici, in decine di diverse nazioni… conoscenze osservative lì depositate da anni che aspettano, penso, che gli psicoanalisti li considerino “cronache” da studiare, e non soltanto strumenti, già usati, per la formazione degli operatori.

D.: Infant Research e Infant Observation sono uno strumento importante per lo psicoanalista?

R.: L’Infant Research e l’Infant Observation ci ricordano che l’osservazione diretta del bambino è indispensabile per gli psicoanalisti.

Ritengo ragionevole, anche se non tutti i colleghi saranno d’accordo, che un settore della ricerca psicoanalitica si dedichi all’osservazione diretta infantile, nella convinzione che questa sia influente per lo sviluppo della teoria e per la pratica psicoanalitica. Come è ben noto, vi sono psicoanalisti che preferiscono usare i metodi dell’Infant Observation e altri che si richiamano alla teoria dell’attaccamento di Bowlby e all’impostazione cognitivo-interazionista dell’Infant Research, come, tra gli altri, la collega Cristina Riva-Crugnola che ha recentemente pubblicato il libro Il bambino e le sue relazioni1. Sono metodiche differenti, entrambe necessarie, poiché, come utilmente sottolinea la nozione di vertice di Bion, vertici differenti permettono di “vedere” aspetti diversi della realtà (infinitamente sondabile), così come il Monte Bianco si presenta assai diversamente se guardato da Chamonix o da Courmayeur. Tra le tante caratteristiche dell’Infant Observation io sottolineerei che essa nasce all’interno della psicoanalisi e possiede genuini caratteri psicoanalitici. E’ di particolare significato per gli psicoanalisti e in generale per qualsiasi operatore che ha a che fare con bambini e genitori in quanto il suo oggetto di studio è proprio quella relazione precoce tra bambino madre e padre che Freud e Klein hanno messo alla base della crescita individuale. Qualcosa è avvenuto nella vita precoce di quel bambino o adulto; il genitore ci ha messo del suo (il Super-io per Freud); anche l’infante ci ha messo del suo (amore e odio); ci sono stati vissuti ed emozioni; si è strutturato un mondo interno. E’ certamente una O (nel senso bioniano) infinita. Ma come sono necessarie pratica clinica e immaginazione speculativa per esplorarla (Freud, Klein ecc.), è anche necessaria l’osservazione diretta. Il metodo scientifico prevede i due momenti, che si correggono e incentivano a vicenda, come ci ricorda Freud, in particolare a proposito dello studio della sessualità infantile: “L’indagine psicoanalitica che da età successive risale all’infanzia, e la contemporanea osservazione del bambino contribuiscono a mostrarci ancora altre fonti da cui regolarmente fluisce l’eccitamento sessuale. L’osservazione dell’infanzia ha lo svantaggio di lavorare con un oggetto che si presta facilmente a equivoci; la psicoanalisi viene ostacolata dal fatto che solo per vie molto indirette essa può raggiungere i suoi oggetti e le sue conclusioni; ma i due metodi nella loro cooperazione attingono a un grado sufficiente di sicurezza della conoscenza”(Freud,1905,508-9). 2

Ma ciò che vale per lo studio della sessualità infantile, deve valere ovviamente anche per tutti gli altri aspetti della personalità infantile.

D.: Come si situa l’Infant Research nel vostro pensiero?

R.: Nel nostro libro Essere neonati, abbiamo tenuto conto e valorizzato le conquiste conoscitive apportate dall’Infant Research. L’Infant Research utilizza un metodo sperimentale che inserisce il neonato in una situazione predisposta, misura, quantifica, realizza riprese video che poi studia fotogramma per fotogramma ecc., con un’impostazione, sul versante sperimentale, svolta secondo i criteri della psicologia della coscienza non sovrapponibili ovviamente a quelli della psicoanalisi. La Ricerca sui protocolli di Infant Observation, invece, usa una metodologia differente: osserva la relazione mamma-bebè così come si presenta, in modo spontaneo, casuale, un modo che lascia indisturbato il bambino e inferisce i vissuti, presenti nel campo, dall’interazione madre-bambino-osservatore.

D.: Mi sembra rilevante il concetto di neonato “soggetto”, in rapporto alla capacità di desiderare. Soggetto anche come subiectus e subiectum: sottoposto, espresso. Potreste accennarne?

R.: A parer nostro, considerare “Soggetto” il neonato, soggetto nel senso di essere intenzionale, essere capace di desiderare, essere bisognoso di riconoscimento, è ancora qualcosa d’altro rispetto all’evidenza su cui tutti gli autori sono d’accordo, ossia che nei primi mesi la Madre sia al centro della vita mentale del neonato. Il Centro: con questa parola si esprime bene la diffusa sensazione che un neonato da’: di vivere immerso totalmente nell’atmosfera materna. Questa atmosfera piena di grazia, al centro della “vasta cattedrale dell’infanzia”, per usare una felice espressione di Virginia Wolf 3 ), la si può vedere già a poche ore di vita, quando si instaura una felice “corrispondenza di amorosi sensi” tra madre e neonato, il che non è poi cosa tanto rara.

D.: “Chi” è, dunque, il neonato, nel libro (e nel pensiero) di Dina Vallino e Marco Macciò?

R.: Chi è il neonato? Il neonato che emerge dalla nostra ricerca sui protocolli dell’Infant Observation non è il neonato del narcisismo primario (nelle sue due accezioni di Freud da una parte, e di Winnicott-Mahler dall’altra). Ma non è neanche quello dell’Infant Research, che nega che il neonato si senta fuso e indifferenziato dalla madre. E’ questo un punto particolarmente intricato della nostra Ricerca, che ci ha impegnato per molto tempo. Vi è qualcosa di irrinunciabile, questo ci hanno detto le osservazioni in famiglia che abbiamo studiato: si tratta di quella realtà O che si può avvicinare in molti modi e che noi pensiamo oggi si possa avvicinare al meglio con la dizione di impulso fusionale. L’impulso fusionale ci si è presentato come amore, amore primario, lo chiama Balint. Io l’intendo nel senso di amore corporeo, forza gravitazionale che vorrebbe portare il corpo del neonato a fondersi col corpo materno, ma non può farlo; è il corpo materno che deve sollevarlo a sé (ecco perché, secondo la nostra ricostruzione, l’holding materno è risposta a un bisogno comunicato dal neonato alla madre; Winnicott pionieristicamente ha colto l’holding come una funzione materna, che il neonato non conosce però come tale4. Le osservazioni in famiglia indicano invece che l’holding è risposta d’amore materno, anche corporeo, a una richiesta d’amore corporeo del lattante e in questo senso, perciò, è una vera e propria comunicazione tra loro. La questione ha tutta una storia alle spalle, in particolare nella Psicoanalisi italiana. Le osservazioni in famiglia, a lungo interrogate, mettendo alla prova differenti teorie psicoanalitiche ed anche il punto di vista di Stern (1985), ci hanno infine costretto ad ammettere il fatto della fusionalità neonatale.

Siamo grati a Claudio Neri che ha apprezzato la nostra soluzione, facendovi riferimento alla Voce “Fusione” (curata da Neri e da L. Selvaggi) nel Dizionario “Psiche” di psicologia, psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze ( Einaudi 2006).

Insomma la tradizione psicoanalitica ci si è imposta come insuperabile, stando alle osservazioni in famiglia: Freud ha posto la questione nei termini dell’amore per il padre e la madre, e quindi della gelosia e dell’odio: è questa l’intuizione che si riafferma rinnovandosi. La gelosia edipica si affaccia intorno all’anno di età, allorché il bambino ha difficoltà ad addormentarsi, si sveglia e corre nel letto dei genitori e si mette di preferenza in mezzo a loro per imporre loro la centralità del proprio corpo amoroso. Ne nasceranno conflitti interni ed esterni.

D.: Attraverso il concetto di fusionalità, si può superare la controversia sul narcisismo primario che divide psicoanalisi e Infant Research, come afferma Neri…

R.: La fusionalità è stata intesa dalla psicoanalisi come senso di indifferenziazione del neonato dalla madre e quindi come aspetto del narcisismo primario. L’Infant Research, per opera di molti ricercatori, ha messo in evidenza come non esiste un senso di indifferenziazione del neonato dalla madre e quindi ha negato l’esistenza dell’impulso fusionale neonatale (in particolare Stern 1985, 116 e seg.5). Insomma, dato che il neonato si differenzia, allora non può essere fusionale. La dimensione fusionale, così evidente nel primo mese di vita del lattante, così importante per il bambino e poi anche per l’adulto, viene in tal modo cancellata da Stern e dall’Infant Research. Ammessa l’esistenza dell’impulso fusionale, il nodo si può districare così. Per me si tratta di distinguere due situazioni di vita: quando il neonato desidera con timore e tremore l’unione fusionale corporea con la madre si sente separato, distaccato, scisso, dunque ben differenziato da lei ed è perciò nella sofferenza; quando la madre lo solleva a sé abbracciandolo si sente fuso con lei e, sulla base di questo esaudimento, l’Io del neonato fiorisce nelle sue potenzialità (diverse naturalmente nelle diverse età). Questo lo diciamo su basi osservativamente fondate. Solo successivamente si dovrà porre il problema di un’eccessiva fusione con la madre che disturba l’ Io del bambino.

D.: Mi ha sempre colpita la difficoltà del primo Freud (“Progetto”)a prendere esplicitamente in considerazione la dipendenza originaria. Questo fa correre il rischio di concepire paradossalmente il neonato come bambino erculeo, il cui funzionamento psichico può apparire articolato e autonomo fin dall’inizio. D’altro canto è di forte impatto la visione di Winnicott: “non esiste bambino come entità a sé”. Semplificando, si può trovare poi un’altra posizione “forte” nel pensiero di Stern, che sostiene esista una competenza relazionale implicita…

R.: All’attrazione amorosa corporea che il neonato mostra di sentire, dovrebbe corrispondere, quando è esaudita, anche uno stato mentale di quiete in cui è presente un modo di sentirsi con l’oggetto. Molti pensatori nella storia della psicoanalisi hanno cercato di afferrare questo stato mentale. E’ una storia affascinante, poiché si vede il pensiero adulto che cerca di afferrare una misteriosa O infantile e si vede lo sforzo di ciascuno di trovare le parole che meglio si avvicinino. E’ qui che si è imposta la parola “indifferenziazione”. Stern invece, che non riesce a vedere l’attrazione amorosa corporea, vede un “essere con” tra il lattante e la madre. Io penso che occorra piuttosto utilizzare l’espressione, che è quella inaugurale, di Ferenczi: “essere tutt’uno con”. E uso questa espressione per indicare che il neonato vive un senso di unità intima con l’altro da sé, la madre, e che tale senso di unità non mortifica l’io del neonato, al contrario lo aiuta a crescere, a mettere in atto le sue funzioni: come l’attenzione, la memoria, le prime ideazioni. La madre ci si rivela come oggetto unico e totale della mente del neonato sin dall’inizio: la passione per il suo corpo è anche interesse tutto rivolto a lei, di tutti i sensi e di tutta l’anima. Abbiamo chiamato ciò: “intenzionalità del neonato”, ispirandoci a Husserl, e cioè intendendo che esiste un Io sin dalla nascita e che esso è orientato al di là di sé. L’io neonato, ci mostrano le osservazioni, è tutta una vibrazione di passione e di primi pensieri rivolti verso il suo polo intenzionale, il suo oggetto esterno: sua madre. In Essere neonati facciamo riferimento a due neonati: Bianca e Claudio che, in modo simile, allorché sono in braccio alla mamma, e la mamma sta per sbottonare la camicia, ma non lo ha ancora fatto, si acquietano. E’ ragionevole pensare che in questo momento si è accesa nella mente del neonato qualcosa come l’idea-immagine del capezzolo che sta ritornando. Il capezzolo è velato dal vestito. Il movimento della mano della mamma è indizio del ritorno del capezzolo che il neonato ancora non vede. Basta che l’abbia visto una volta per sapere che esiste. E’ un’ immagine memorabile. Probabilmente il neonato ne sente l’odore, ma è odore “del” capezzolo, il quale non è ancora percepito. La memoria lavora per conto suo, inconsapevolmente; il risultato del suo operare è ciò che il neonato sa: sa che sta tornando il capezzolo. Non può ricordarsi l’episodio passato, come sostiene Mauro Mancia su basi neurologiche, ma la memoria produce un sapere che riguarda il futuro, è un’immagine carica di futuro, dell’idea di ritorno. La prima funzione della memoria è di aprire al senso del futuro. Naturalmente è un futuro “prossimissimo”, comunque futuro è, perciò parliamo di “lampi di pensiero”.

D.: E’ rappresentazione dell’oggetto assente?

R.: Sì e no, poiché il capezzolo è assente dalla bocca, ma la madre è presente! La madre è presente; Bianca e Claudio sono nelle braccia materne, l’amore fusionale è soddisfatto. La nostra tradizione psicoanalitica vede che il pensiero nasce per affrontare l’assenza materna; io aggiungerei che il pensiero si produce anche nella presenza della madre.

D.: Da qui originerebbe l’amore adulto?

R.: L’amore fusionale manterrà sempre la sua radice corporea, compreso il sentimento di essere tutt’uno con, anche nell’adulto, ma via via si arricchisce nel tempo sino al difficile incontro nella pubertà con la sessualità genitale. Già nel secondo mese, in modo temporaneo ma evidente, si presenta una forma ora puramente mentale di amore. “Amor matris intellectualis”, saremmo tentati di dire con Spinoza. Seguendo un altro percorso metodologico, e cioè a partire dalla stanza di analisi, ho individuato dagli anni Ottanta una dimensione dell’io del bambino e dell’adulto che inerisce alla radice del senso di sé: prima del senso d’identità si forma il senso di esistere per qualcun altro: l’essere riconosciuto come me stesso. Successivamente si costruiranno le altre strutture del senso di sé.

Senso di Sé per il neonato è un sentirsi bene, nelle braccia e nella mente della madre, poter gioire della vita, calmarsi, addormentarsi, guardarsi intorno, scoprire il mondo. Anche per un neonato vale l’esperienza che vale per un adulto: sentirsi bene con se stesso, sentirsi vivo, in comunicazione con l’Altro. L’essere mentalmente vivi è un’esperienza senza età.

Possiamo ritenere anche che il problema dell’osservatore sia lo stesso degli psicoanalisti: riuscire a staccarsi dal congelamento emotivo della vita quotidiana adulta per cogliere quanto il bambino, durante la seduta di osservazione, può vivere di eccezionale: un trasporto affettivo, un’ascesa verso chi lo comprende.

D.: Questa è dunque la base per uno sviluppo “sufficientemente sano”?

R.: Cercare di tratteggiare uno sviluppo normale, quello di un bambino sufficientemente felice di vivere, vuol dire poter avere dei parametri di confronto rispetto a quello che è uno sviluppo infelice, patologico. Il mio lavoro di analista ha anche questo scopo. Le identificazioni patologiche si possono cogliere se si ha idea di come è un neonato che si sente esistere. Il neonato che sventola il lenzuolino non è compiacente, ma richiama la madre a sé, perché crede che la mamma lo prenderà in braccio. La neonata che nel momento in cui la mamma arriva alla culla sta zitta, non si muove, guarda altrove, non fa versi, è già nella situazione in cui non ha fiducia, non crede nella madre. Non crede che arriverà qualcuno, non ha idea che quello che lei prova conti per l’altro. La storia dei pazienti adulti è piena di “identificazioni patologiche”, compaiono rappresentazioni di sé che fanno pensare a un bambino infelice. Ci sono molte lacune nella conoscenza dello sviluppo sano. Il mio è un contributo; in ogni caso penso che per far crescere la conoscenza dello sviluppo sano il ricorso alla osservazione infantile sia determinante.

D.: Potreste accennare al concetto di”spoilt” children?

Franco Borgogno che, come sai, ha portato l’attenzione sul tema, coglie due significati del termine: quello di bambini “capricciosi e viziati o deprivati, derubati, spogliati dopo un’azione di guerra. L’azione di guerra è ovviamente portata avanti in precedenza da qualcun altro”. Gli psicoanalisti e psicoterapeuti inglesi hanno usato il termine nel significato di bambini viziati e capricciosi e l’unica attenuante che ne hanno dato a favore dei bambini è che il bambino può diventare viziato, capriccioso e poi vizioso a causa dei genitori. In questa ottica, il bambino verrebbe danneggiato dall’indulgenza e dall’iperpermissività della madre e del padre. Secondo Borgogno, invece, questi sono “bambini almeno in parte morti e devitalizzati anche se l’aspetto che colpisce di più può essere la loro tirannia”(Borgogno-Vallino, 2005, 109-110) 6).

Io penso che proprio per una certa facilità ad essere depositari dell’identificazione proiettiva dei genitori, in questi bambini, la vita mentale possa restare privata di consistenti e peculiari funzioni sensoriali cognitive ed emotive. Le emozioni sono legate alla propria individualità corporea solo se questa può essere accettata e non risulta incompatibile con l’identificazione che uno ha assunto. La sofferenza specifica dell’identificazione con l’adulto può essere per un bambino proprio nell’aver perduto parti vitali della propria incarnazione, sensazioni, emozioni ecc. In conclusione, l’accezione allargata che io conferirei attualmente al termine “spoilt children” è di bambini “spogliati” dell’attenzione dei genitori, e per questo motivo deprivati e impoveriti, in senso lato, di un “educazione sentimentale” che consenta loro di accettare delle regole e risuonare ai sentimenti degli altri. Di conseguenza presentano un comportamento socialmente negativo.

1 Riva-Crugnola C. Il bambino e le sue relazioni, Cortina, Milano 2007

2 Freud S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, OSF, Vol.4.

3 .Wolf. V. (1939-40), Immagini del passato, p.103, in Momenti di essere, La Tartaruga , Milano1977.

4 Scrive Winnicott: “Il neonato non ha nessuna nozione delle cure materne” (1961, 53). E spiega: “non esiste uno scambio tra madre e bambino; sul piano psicologico il bambino prende un seno che è parte di se stesso” (1953, 39); ovvero “non esiste comunicazione tra bambino e madre fino a che non si sviluppa una situazione di nutrimento reciproco” ( circa a 12 settimane) (1969, 277). Cfr. Winnicott D.W. (1953), Oggetti transizionali e fenomeni transizionali in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1975; La teoria del rapporto infante –genitore (1961), in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1970; L’esperienza di mutualità tra madre e bambino (1969), in Esplorazioni psicoanalitiche, Cortina, Milano 1995.

5 Stern D.S.(1985), Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

6 Borgogno F., Vallino D. (2006) , “Spoilt-Children”, un dialogo fra psicoanalisti. Quad. Psicoter. Inf. 52

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