Parole chiave: Psicoanalisi, Freud, Klein, Kohut, Little, Guntrip, Bion, Ogden.
CENTRO ADRIATICO DI PSICOANALISI
Presentazione del libro
Ascoltare con l’inconscio. Alcuni casi clinici esemplari
(Freud, Klein, Kohut, Little, Guntrip, Bion, Ogden)
di Mauro Manica
(Alpes ed., 2022)
Dialoga con l’Autore: Chiara Rosso
CENTRO ADRIATICO DI PSICOANALISI, venerdì 20 ottobre 2023
Contributo a cura di Chiara Rosso
Manica concorda con Freud nell’immaginare la psicoanalisi come la forma più raffinata di comunicazione…ma di che tipo di comunicazione si tratta? Manica pone al centro del suo pensiero la co-creazione come frutto della comunicazione tra inconsci… e allora la nevrosi di transfert non è tanto una nevrosi artificiale ma potrà essere come sostiene Jung un trasferimento di demoni che richiede un esorcismo? E dunque un campo in cui il male del paziente diventa il male dell’analista?
E’ interessante questa rilettura attraverso la lente del modello bioniano bipersonale di casi clinici esemplari dei maestri della psicoanalisi. Nel primo capitolo Sigmund Freud; il caso di Sergej (e di Sergio) viene ripreso il famoso caso clinico de L’uomo dei lupi di Freud, per passare al pettine fine tante concettualizzazioni come l’ambiguità della neutralità, la teoria dei bisogni al posto del soddisfacimento del desiderio, sulla scia del pensiero winnicottiano. Insomma tutto porta a valorizzare quei “mattoncini ad alto tasso affettivo”, gli elementi alfa all’interfaccia tra conscio e inconscio di cui è intessuta la rêverie materna e di cui l’analista nella sua capacità di “sognare assieme al paziente” si fa carico attraverso la sua funzione alfa, per raggiungere l’intuizione necessaria nell’incontro del suo paziente, la cosiddetta “luccicanza” tanto per parafrasare il film di Shining, evocato da Manica.
Il caso de l’uomo dei lupi, un caso studiatissimo, è paradigmatico nella misura in cui da un lato offre l’occasione di mettere a fuoco una serie di concettualizzazioni cardine in psicoanalisi quali l’importanza del transfert, la ricostruzione della scena primaria, la Nachtraglickeit tanto per dirne alcune e dall’altro rappresenta l’ esempio di un certo fallimento della cura psicoanalitica. Della serie: “l’intervento è andato bene ma il paziente è morto”!
Il paziente Sergej Pankejev viene curato da Freud che lo considera guarito anche se solo sul piano di un certo soddisfacimento del senso di colpa, (scrive Freud un sibillino : “a mio avviso guarito”) poi passa alla Brunswick e infine a Muriel Gardiner, che lo sosterrà e raccoglierà le sue memorie. In una intervista della fine degli anni ’70 che questo paziente rilascerà, dichiarerà però di non aver trovato giovamento dai trattamenti analitici; benché per lungo tempo lusingato dallo scritto di Freud, questo paziente è stato felice di testimoniare attraverso lettere e scritti il “trionfo” pubblico di Freud. Da paziente “tributo” diventa una sorta di “spettro”, “ossessione della propria lacuna” come scrivono Abraham e Torok nella Scorza e il Nocciolo. Gli autori ungheresi dedicano un ‘opera al caso dell’uomo dei lupi dal titolo Il Verbario dell’Uomo dei Lupi in cui ipotizzano che gli analisti che lo hanno avuto in cura non hanno saputo decifrare il segreto di cui era portatore, non hanno saputo ascoltare adeguatamente i suoi sintomi, ascoltare con il “terzo orecchio” e decodificare il “segreto” custodito dal paziente. Per Abraham e Torok si tratta di un testo “criptico”. In fondo la questione è: di quale lingua parliamo? Quella freudiana in difficoltà col transfert-controtransfert? Le lingue della vita del paziente: il russo materno, l’inglese della nursery e il tedesco dell’analisi ? E quale lingua parla Manica? A ciascuno la sua lingua e la sua teorizzazione, da Freud ad Abraham e Torok fino a Manica l’idea è quella di una rilettura trasformativa.
C’era un altro modo di curare questo paziente? Si chiede Manica prendendo l’occasione di parlare di un altro “Sergio” cioè di un suo caso clinico. Attraverso l’analisi di Sergio Manica mette in luce -al contrario di Freud- la necessaria partecipazione affettiva dell’analista, l’apporto fondamentale della teoria kleiniana e di quella bioniana che portano a concepire la nevrosi come una “malattia del campo” per affrontare così il conosciuto-non pensato. Se Abraham e Torok a proposito delle loro concettualizzazioni più famose relative al fantasma nelle situazioni di lutti inelaborati invitano l’analista ad “cercare il fantasma” nella cura analitica di un paziente, Manica utilizza una metafora interessante quando scrive a proposito del suo caso di Sergio (pagina 12): “L’analista deve accettare di farsi “donnola” per poter accedere a quell’esorcismo psicoanalitico che “ingloba” i demoni del paziente.
Nel secondo capitolo, Melanie Klein: il caso di Richard Manica ci offre una rilettura agevole del celebre caso della Klein. Come ho già detto il pregio del suo libro è quello di portarci ad una visita guidata dei mostri sacri della psicoanalisi, ci tuffiamo letteralmente nei testi chiave della nostra disciplina con lo scopo di una lettura “altra”, di una lettura critica secondo il pensiero bioniano da lui interpretato. Già solo per questo noi dovremmo ringraziarlo. La lettura del caso di Richard, anzi la rilettura attuale (perché lo studiammo nel corso della nostra formazione) non può che sbalordirci. Concordiamo con Manica su di una certa violenza nel “bombardamento” del povero Richard con interpretazioni pesanti da parte della Klein mossa da una sua teorizzazione affascinante, ma che qui suona come massiccia e intrusiva, di una modalità di ascolto fondata – addirittura- come sottolinea Manica evocando la Nissim, di una cultura del sospetto rispetto a quella del rispetto . E’ vero che siamo in tempo di guerra e che le inquietudini di Richard risentivano del clima bellico, inquietudini condivise dalla Klein….eppure…troviamo molto forte quell’’incalzare interpretativo di Melanie.” La Klein mirava a liberare gran parte della vita fantasmatica del paziente e di rendere consce le sue angosce più profonde e le sue difese patologiche che andranno poi elaborate” scrive Manica a pag.16. La Klein ci dice ancora l’autore, non accoglie la natura mitica delle pulsioni, fa del mito l’essenza più concreta delle pulsioni, le sue interpretazioni “pesano” come macigni…
Eppure il bambino sta meglio, sopravvive alle bombe belliche (oltre a quelle kleiniane!) e allora che cosa lo cura si chiede Manica? E qui torniamo alla capacità di Manica di applicare in modo riuscito la sua teorizzazione (sempre con la lente bioniana) alla classicità di un testo. Alludo a quello che potremmo chiamare lo spazio “tra” le cose, l’attenzione alla dimensione che chiamerei “interstiziale”…e nel caso di Richard il “tra” è una Klein in veste “materna” che fa con Richard un pezzo di strada prima o dopo le sedute, gioca con lui in giardino distinguendo i fiori dalle erbacce… Possiamo immaginare che ciò che cura Richard sia (anche) la sintonizzazione emotiva fuori dalle sedute, i “microunisoni” quindi non solo le interpretazioni ma soprattutto la narrazione o la trasformazione in favola o in sogno, come sottolinea anche Fornari. La capacità di lavorare con l’inconscio, di lavorare con O…di suscitare domande a cui non c’è per forza risposta, facendo eco al detto dello psicoanalista Maurice Blanchot “la risposta è la dannazione della domanda”!
Con Heinz Kohut e il caso del signor Z Manica rilegge il fondamentale contributo di Kohut alla teoria del narcisismo, l’empatia e la psicologia del sé offrendoci pagine molto chiare che riassumono l’importanza del pensiero kohutiano diffusosi prima in America e poi nel resto del mondo. Abbiamo l’aneddoto del saluto di un giovane Kohut a Freud in partenza da Vienna (senza che i due si conoscessero) e di come questo 25enne si sentisse in qualche modo “investito” dall’eredità scientifica di Freud pur avendone in seguito stravolto alcuni paradigmi cardine. Aggiungo infatti che Kohut viene infatti considerato il primo “creatore” di psicoanalisi sviluppando sulla scia di Winnicott più grande di lui di una 15ina di anni una teoria approfondita del narcisismo. Considerato lui stesso una personalità fortemente narcisistica dai suoi detrattori , oltre all’aneddoto della stazione si racconta ad esempio (Paul Ornstein) che una volta raccolse gli allievi e i colleghi in una riunione di lavoro e li invitò a celebrare con una bottiglia di champagne l’annuncio importante che doveva fare: aveva deciso cioè che self-object avrebbe perso il trattino e che da allora in poi si sarebbe chiamato selfobject!
Per Kohut la libido narcisistica e quella oggettuale non sono tra loro interconnesse ma hanno uno sviluppo autonomo, l’aspetto centrale della sua teoria è il rapporto del Sé con i suoi selfobjects. Il bambino sufficientemente curato nei suoi bisogni cercherà un Sé-speculare (materno) da cui essere riflesso per sviluppare un Sé grandioso. Il Sé idealizzato paterno gli consente di formarsi una imago parentale idealizzata. Dal Sé grandioso e onnipotente il bambino passa a un sé coesivo che perde le caratteristiche di grandiosità pur mantenendo una quota di libido narcisistica come base necessaria per il costituirsi una autostima sicura. La fissazione al Sé grandioso onnipotente tipica della psicosi narcisistica attiva la distruttività e l’aggressività .
Il transfert speculare (il paziente che ammira il terapeuta) e quello idealizzante (l’essere ammirato dal terapeuta) fanno parte della sua teorizzazione e l’analista dovrebbe accettarli entrambi e accogliere quello idealizzante per favorire lo sviluppo del Sé nucleare.
Un altro punto importante nella teoria kohutiana è l’assenza di un conflitto intrapsichico e quindi non c’è la pulsione di morte, vi è un modello intersoggettivo dove è centrale l’atteggiamento empatico dell’analista che attiva risposte di oggetto-sé laddove il selfobject primario era stato inattendibile. Quindi analogamente a Bion il focus si sposta dal contenuto al contenitore dal cosa al come.
Nelle due analisi di circa 4 anni del signor Z (che potrebbe essere Kohut stesso come ricorda Manica visto le somiglianze col paziente in oggetto e rimane il dubbio: analista come paziente o paziente come analista?)con un intermezzo di 5 anni, Kohut espone una modificazione della sua teoria.
Nella prima analisi lo scopo è di migliorare la sintomatologia anche somatica del paziente, di rendere consci i conflitti inconsci della relazione difficile con la madre nel suo attaccamento preedipico. Non viene però risolta l’ambivalenza verso il padre e le sue inclinazioni masochistiche che sono solo spostate “sul lavoro e la vita in generale”. Sarà la seconda analisi e i due transfert prima idealizzante e poi quello speculare che corrispondono ad una maturazione/modificazione dello sviluppo teorico di Kohut stesso a dare altri risultati. Kohut si allontana dal conflitto intrapsichico, e dalla concezione di frustrazione del desiderio perché come Winnicott non confonde più il bisogno col desiderio e dirige la sua attenzione sull’oggetto-sé nocivo che ostacola il paziente ed è legato alla complessa figura materna. D’altra parte il padre diventa una figura idealizzata e oggetto di investimento. Anche le problematiche omosessuali invece di essere considerate come una regressione al rapporto con la madre fallica diventano un processo attraverso il quale l’oggetto-sé del paziente (come nella cultura greca antica “pederotica”) viene reso più saldo e coeso col tramite di una relazione erotica idealizzata. Quindi non è l’orientamento sessuale a definire la maturità psichica ma lo sviluppo delle strutture del sé. Per quanto più vicino alle posizioni bioniane in Kohut -dice Manica- c’è sempre l’idea di rendere conscio l’inconscio e mancherebbe la O di Bion, la capacità di sognare-con.
Con Margaret Little: il caso di Margherita l’azione analitica di Winnicott sembra riunire le concezioni freudiane del neonato come immerso in un narcisismo primario e quelle kleiniane del neonato bisognoso e separato dalla madre e fonda la sua teorizzazione della madre ambiente del necessario rifornimento da parte dell’oggetto primario, si tratta della holding intuitiva,( per Borgna la grazia dell’intuizione) della posizione at-one-ment di Grotstein (PA), quindi contemporaneamente a Bion, sottolinea Manica, Winnnicott, in modo molto creativo ipotizza l’oscillazione tra PA-PS e poi successivamente dalla PS-PD. Inoltre l’azione analitica di Winnicot da cui siamo stupiti e ammirati si discosta dalla classica posizione freudiana che sposta il vettore dall’esterno, la realtà esterna all’interno. Da’ importanza all’ambiente materno primario…
Ci fa riflettere il confine labile tra la dimensione patologica e quella curativa riguardo agli analisti. E’ chiaro che l’analista o il terapeuta deve in qualche modo aver esperito una quota di sofferenza mentale per esercitare questo lavoro, ma deve anche tener conto dei rischi che l’oscillazione continua tra le due dimensioni comporta. Freud preconizzava un “tagliando analitico” ogni 5 anni, misura mi pare poco seguita. E’ infatti sorprendente rileggere il caso di Margaret Little, donna molto sofferente che attraversa tre analisi e che diventerà un’analista in grado di offrirci contributi determinanti nella comprensione e cura delle patologie borderline. Nella prima analisi, l’analista X sottovaluta il suo disagio e lo classifica come una semplice nevrosi per poi incoraggiarla a fare un training analitico, la seconda Ella Sharpe in modo rigido bolla di “fantasie” tutti gli elementi biografici di realtà portati da Margaret e dopo un breve passaggio dalla Marion Milner, Margaret approda da Winnicott.
Sono belle le pagine che narrano questa analisi fortemente curativa per Margaret e che inizia in modo molto rumoroso. Margaret ha 48 anni è sul lettino paralizzata dall’angoscia panica e ha un senso di dispersione identitaria e ad un certo punto scaglia al suolo con violenza, fracassandolo, il vaso di lillà bianchi posto sulla scrivania di Winnicott. Lui non si scompone, esce dallo studio per tornarvi dopo poco e dire alla paziente a quattro zampe, per terra che sta raccogliendo i cocci: “pensavo che l’avrebbe fatto ma non così presto” . Nella seduta successiva gli fa trovare una copia esatta del vaso coi lillà e non torna sull’accaduto. Winnicott gestisce magistralmente la psicosi di transfert anche intervenendo fisicamente sulla paziente tramite un contatto affettuoso.
La genialità di Winnicott emerge ancora nell’analisi dell’analista Harry Guntrip (capitolo 5) che scrive la sua esperienza avuta con Fairbairn e Winnicott in un lavoro del 1975. Come è possibile –si chiede Manica- intercettare il traumatico e affrontare l’amnesia infantile protetta dalla dissociazione? Possono due analisti di taglia come Fairbairn e Winnicott venirne a capo?
La domanda fondamentale rimane però: Come possiamo diventare l’O dei nostri pazienti senza incarnarne la dimensione più tremenda e traumatica? Ricordiamo che nessuno dei due analisti riuscì a venire a capo della problematica di Guntrip relativa ad una amnesia postraumatica occorsa per la morte del fratellino di Harry, a tre anni e mezzo di età.
L’analisi con Fairbairn finisce con la malattia di questi e Guntrip si rivolge allora a Winnicott con cui avrà dei miglioramenti senza che si risolva la dissociazione che protegge l’amnesia, cosa che invece avviene due mesi dopo la morte di Winnicott.
Secondo la lettura bioniana per Manica l’analisi di Guntrip con Fairbairn è inficiata di K, cioè dalla religione delle teorie dell’analista, Fairbairn riesce a farsi l’O del paziente solo con la propria malattia e analogamente Winnicott scioglie l’amnesia di Guntrip dopo la sua morte!
Mi sembra interessante recuperare ciò che ci dice Manica nella nota a pagina 41 citando Guntrip che sottolinea quanto in fondo Farbairn sia stato più ortodosso nella pratica piuttosto che nella teoria e al contrario Winnicott più rivoluzionario nella pratica che nella sua teoria!
Nel riprendere il tema degli analisti nelle vesti di pazienti prima di essere a loro volta analisti come è stato il caso di Little, di Guntrip, anche Bion è oggetto di uno studio interessante nella sua interazione con la Klein, la sua analista nel capitolo:
Wilfred Bion: il caso del dottor B.
Di nuovo come fu per il caso Richard siamo colpiti dalle risposte talvolta brusche e asciutte della Klein date a Bion. E’ quasi una sorta di braccio di ferro quello che scaturisce dalle pagine del racconto autobiografico di Bion. Manica scrive che la Klein sembra essere in un transfert narcisistico con le sue teorie, pare infatti a mio avviso che ella lavori in K con Bion senza farsi minimamente influenzare dagli aspetti di realtà portati in seduta dallo stesso. Malgrado tutto l’analisi è utile e Manica coglie lo spunto di questa autobiografia per sollevare due punti molto importanti: il setting e l’ interpretazione.
Rispetto al primo punto su cui c’è materiale di discussione c’è il tema del pagamento….e rispetto al secondo in base alle riflessioni critiche di Bion il lavoro analitico dovrebbe spostarsi sempre più verso una dimensione del come anziché del cosa, come abbiamo già dettodal contenuto al contenitore.
Ed infine di come anche l’analista possa essere trasformato dal paziente, educato…
Nel capitolo 7, Thomas Ogden: il caso del signor V Manica affronta il tema del sogno come la capacità di sognare insieme (dreaming ensemble), come segnale di micro-unisoni e vede le differenze teoriche rispetto a considerare il sogno dell’esempio di Ogden come semplicemente un sogno di controtransfert. Ogden è spaventato dal suo sogno rispetto al suo paziente V., ma il sogno ha cambiato qualcosa nell’interazione con V. che lo metteva a disagio. V. aveva un fratello malato (Paul) di cui si era sentito responsabile e per il quale si sentiva in colpa… Nel frammento clinico Ogden risponde in modo da “liberarsi” di un fardello (identificazione proiettiva) che il paziente gli ha messo a proposito del fratello e in qualche modo scarica con l’interpretazione il peso di questa proiezione. Riesce però in un secondo tempo a rivedere ed a elaborare la sua risposta che aveva spiazzato il paziente. Il fatto di criticarla a posteriori offre a Manica il pretesto per analizzare la differenza tra un sogno di controtransfert in cui si sogna “al posto” del paziente e un sognare insieme come esperienza co-creativa.
La coppia analitica è nel transfert già dal primo incontro. Come scrive Ferro rispetto al trasgredire la regola fondamentale e a tenere delle cose per sé come accade nel caso di V., bisogna poter “nuotare verso la regola fondamentale” che diventa non più un punto di partenza ma un obiettivo o come scrive Manica lavorare in O significa “nuotare verso il sogno”.
Gran parte della seconda parte del libro è occupata dal racconto dell’analisi di Zeno. Manica ci offre un racconto denso e a tratti struggente della sua analisi con Zeno e si è spinti a pensare che la prima parte del libro offra in qualche modo una attrezzatura teorica per affrontare questa narrazione di un trattamento “ai limiti”. Manica procede sempre su di un crinale periglioso nel curare un paziente che costantemente “flirta con la morte” sia nella pratica della sua tossicomania che nel districarsi da una eredità avvolta da panni mortiferi. In una dimensione transgenerazionale il paziente Zeno sembra davvero dover gestire un lascito impossibile e Manica non perde la speranza né la sua capacità negativa e tra torpore e colpi di sonno “tiene” il suo paziente. A metà della lettura mi sono raffigurata Manica con una pistola puntata alla tempia mentre visualizzavo il paziente come una bomba pronta ad esplodere e qualche pagina dopo leggo sorpresa proprio l’accenno ad una “roulette russa” che avevo anticipato col pensiero e che le pagine di Manica mi avevano trasmesso. Mi sembra che una tra le sfide più grandi sia proprio quella di -come dice Franca Meotti evocata da Manica- “accettare il paradosso di trovarsi nella necessità di riparare gli oggetti responsabili dei danni” a proposito della riparazione delle parti profondamente deteriorate del sé…Accedere anche a quella “empatia immaginativa” di Rochelle Kainer nell’interazione col paziente….
Se volessimo a grandi tratti elencare i punti chiave della teoria bioniana bipersonale e della sua rielaborazione da parte di Manica procederemmo in questo modo:
1) l’attenzione al contenitore, o sviluppo del contenitore piuttosto che al contenuto (ricordando che il contenuto incide e trasforma anche il contenitore…)
2) Il sogno come co-creazione tra paziente e analista che concorre alla formazione di un terzo analitico intersoggettivo
3)L’attenzione al tra, all’intermedio, al campo analitico che si crea tra analista e paziente
4) la passione e la speranza
5) lo spostamento del baricentro dall’intrapsichico all’intersoggettivo e dalla ricostruzione storica degli avvenimenti al qui ed ora in seduta.