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“Ascoltare con l’inconscio” di M. Manica. Recensione di M. G. Pappa

19/07/22
"Ascoltare con l’inconscio" di M. Manica.  Recensione di M. G. Pappa

Ascoltare con l’inconscio

Alcuni casi clinici esemplari

(Freud, Klein, Kohut, Little, Guntrip, Bion, Ogden)

di Mauro Manica

(Alpes ed., 2022)

Recensione a cura di Maria Giuseppina Pappa

“Ascoltare con l’inconscio” è il frutto di un enorme lavoro di scrittura e di pensiero di Mauro Manica, autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche italiane e internazionali, di volumi collettanei e libri. È un testo che si pone in continuità con le opere di Manica di poco precedenti, “Psicoanalisi del traumatico” (2020), e “Coscienza e intuizione” (2021), anche se può essere letto come ‘autonomo’ rispetto ad esse. Come osserva Lingiardi, nella sua prefazione al libro, Manica ha avuto la straordinaria idea di raccontare la psicoanalisi attraverso casi “esemplari”, a partire dal famoso Uomo dei lupi, di Freud, e dal caso di Richard, di Melanie Klein, per poi passare ai casi di Kohut, Little, Guntrip, Bion, Ogden, e comprendere un suo caso, il caso di Zeno. Ciò che conferisce un interesse particolare a tale iniziativa, è che in alcuni capitoli gli psicoanalisti presentati nel testo compaiono come terapeuti, in altri come i pazienti che a loro volta si sono trovati a essere. In tutti i casi il contributo della clinica è teso a dare risalto alla specificità dell’ascolto e della cura analitica, laddove non si può prescindere dal riconoscimento dell’inconscio come funzione psicoanalitica della personalità. In questa ottica l’inconscio e il sognare si rivelano essere una forma di lavoro psicologico indispensabile allo sviluppo della mente. 

Sin dai suoi inizi la psicoanalisi si è affermata come scienza dell’inconscio, e Freud (1912) si è trovato nella condizione di dover costruire un apparato di “regole tecniche”, per cogliere i segni e indagare i processi inconsci. Nell’utilizzare la metafora del ricevitore del telefono, per cui “egli [il medico] deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso l’inconscio del malato che trasmette”, Freud asserisce anche che il medico stesso deve porsi in una posizione di ascolto verso se stesso, non tollerando in se stesso “resistenza alcuna che allontani dalla sua coscienza ciò che è stato riconosciuto dal suo inconscio”. Nel rileggere con più attenzione i “consigli” di Freud, Mauro Manica intravede il germe di un’intuizione che sembra anticipare ulteriori sviluppi del pensiero e della tecnica psicoanalitica, in una prospettiva che va ben oltre il rendere Conscio (C) l’Inconscio (Inc). La psicoanalisi infatti viene qui definita nella sua qualità di comunicazione tra gli inconsci, ed è l’inconscio ad avere il compito di riconoscere e di mettere a disposizione della coscienza quanto può essere condiviso con il paziente. È da questo presupposto fondamentale che prenderà poi forma il sogno della veglia (Bion, 1992), che analista e paziente possono arrivare a sognare insieme, e più tardi l’idea di un parlare come sognare (Ogden, 2009), per poter conversare terapeuticamente ai confini del sogno. Grotstein (2007) arriverà così a concepire ogni singola seduta e l’intero processo psicoanalitico come un vero e proprio dreaming ensamble, costituito dall’insieme di tutti gli aspetti dell’onirico presenti nella mente di paziente e analista. Nell’affermare che “è l’inconscio del paziente che guida ed è esso solo che va ricercato”, Winnicott (1956) ha avuto il grande merito di introdurre una teoria dei bisogni, accanto a quella del desiderio. Egli ritiene che l’inconscio dell’analista debba essere preparato a seguire il processo inconscio del paziente, e che si debbano tenere distinte la parola “bisogno” dalla parola “desiderio”. Si tratta di una differenza cruciale, poiché mentre il mancato soddisfacimento di un desiderio provoca una frustrazione che può essere tollerata, e può anche generare pensiero e capacità rappresentative, la frustrazione di un bisogno, invece, spinge il bambino verso reazioni che interrompono la “continuità dell’essere”, esponendolo a una minaccia di annichilimento. Sulla base di queste considerazioni teoriche, Manica pone la questione importante su come intercettare un bisogno che è stato traumatizzato, e quindi dissociato o scisso, per effetto di una carenza delle cure primarie. Per poter approfondire tale questione, è allora indispensabile far riferimento al pensiero di Bion sulle origini della vita mentale, e sulla situazione immaginaria in cui il bambino segnala il proprio bisogno di cibo prima di esserne consapevole, quando il “bisogno del seno” è una sensazione, che viene sperimentata come la presenza di un “seno cattivo”. Bion (1962) osserva allora come il bambino non senta di aver bisogno di un seno buono, ma senta di aver bisogno di mandar via un “seno cattivo”. Alla luce di tutto ciò, le assenze e le mancanze, oltre a provocare sentimenti di vuoto e di abbandono, inducono un senso di “nientità”, un nothing, con una persecutorietà di grado variabile, sino al terrore senza nome. Pertanto l’intolleranza alla frustrazione di certi bisogni può raggiungere una intensità tale da compromettere i processi di mentalizzazione, oppure, in termini winnicottiani, da infrangere la continuità del sentimento di esistere come se stessi, oppure, come afferma Manica (2014), da annichilire qualsiasi autentica esperienza di meità. Winnicott (1955) ci ha mostrato come in questi casi, siamo in presenza di forme cliniche del transfert in cui la situazione analitica diventa più importante dell’interpretazione, e dal punto di vista tecnico l’attenzione si debba spostare da quanto l’analista “dice” a quanto l’analista “fa”, o meglio a quanto l’analista “è”, riguardo a come conduce l’analisi, con i gesti, le posture, il tono della voce, la capacità di empatia, l’atmosfera emotiva delle sedute. Per parte sua Bion (1962) ha evidenziato come nei casi di non-esperienza, e di impossibilità da parte del paziente di apprendere dall’esperienza, non sono le interpretazioni ortodosse di transfert a produrre effetti trasformativi e terapeutici. Si tratta delle forme cliniche che sempre più frequentemente incontriamo nel nostro lavoro analitico, in cui ci troviamo di fronte ad una funzione alfa difettiva, con un’incapacità di sognare, “dovuta ad una mancanza di elementi alfa, e perciò ad un’incapacità di dormire o svegliarsi, di essere conscio o inconscio” (Bion, 1962, p. 51). Il pensiero bioniano implica in tal modo un cambiamento catastrofico di prospettiva della teoria e della tecnica psicoanalitica: ora l’obiettivo principale della cura diventa quello di permettere al paziente, e all’analista, di sognare gli eventi della seduta, nell’ambito di un campo relazionale. In questa ottica, così come la funzione alfa della madre, e soprattutto la sua capacità di rêverie è il fondamento principale della capacità materna che permette al bambino di modificare la propria intolleranza alle frustrazioni, al di là della sua dotazione di base, è la funzione alfa dell’analista a essere uno dei fattori trasformativi più efficaci nella cura psicoanalitica. Nella sua complessità la funzione alfa comprende diversi fattori: la capacità di trasformazione in sogno (Ferro, 2009); la trasformazione in at-one-ment, in quanto attitudine dell’analista a realizzare sequenze di (micro e macro) unisoni, che attraverso progressive sintonizzazioni emotive, contribuiscono alla creazione e allo sviluppo dei contenitori; il diventare l’O del paziente, la verità della sua esperienza emotiva;  la capacità di intuizione dell’analista, cioè la sensibilità nei confronti delle variazioni individuali presentate da ogni paziente (Klein, 1961); la capacità di rêverie, che permette alla coppia analitica di sviluppare la capacità di sognare in seduta. Nel suo libro Mauro Manica sottolinea come solo all’interno di un modello bipersonale e binoculare di mente come quello bioniano, abbia senso parlare di rêverie come fenomeno clinico e strumento tecnico.  Bion (1961, 1962, 1992), nel definire in modo molto preciso le caratteristiche specifiche della rêverie, stabilisce innanzitutto che la rêverie presuppone l’esistenza di un legame, e che la mente sia originariamente relazionale, bipersonale e intersoggettiva. La rêverie riguarda l’ignoto ed è un prodotto dell’inconscio, della binocularità possibile tra inconscio e coscienza, visti non come ‘luoghi’, né come strutture psichiche, ma come funzioni, che consentono il realizzarsi di trasformazioni dell’esperienza emotiva. La rêverie è infine quel barlume di inconscio, ‘materno’, che permette di scorgere quel barlume di coscienza sensoriale ed emotiva ancora impensabile dalla mente ‘neonatale’, il protomentale, trasformando il suo beta in una progressione di elementi alfa.                                                                            

La lettura del libro di Mauro Manica consente di ripercorrere il lungo viaggio svolto dalla psicoanalisi dalle sue origini sino ai cambiamenti in atto nella psicoanalisi contemporanea. Nei vari capitoli è posto bene in evidenza quello che Ogden (2022) definisce come uno spostamento di attenzione dalla psicoanalisi epistemologica, relativa al conoscere e al comprendere, e di cui Freud e Klein sono i fondatori, alla psicoanalisi ontologica, relativa all’essere e al divenire, di cui Winnicott e Bion sono gli autori principali. Nei primi sette capitoli vengono riportati dei casi clinici che si possono definire “esemplari”, sia in senso letterale, perché possono essere emblematici di quanto avviene nella stanza di analisi, sia perché offrono la possibilità di apprendere e dialogare con alcuni dei maestri della psicoanalisi.

A proposito del caso di Sergej, cioè l’Uomo dei lupi, Mauro Manica, nel considerare che né l’analisi con Freud, né l’analisi con Ruth Mack Brunswick hanno guarito Sergej Pankejev, si chiede e chiede dunque al lettore: “Esiste (o esisteva) allora un’altra possibilità di cura per l’Uomo dei lupi? È possibile espandere il modello oppure siamo (e si era) già ai confini della psicoanalisi come strumento di cura?” (p. 4). Subito dopo viene affiancata la descrizione di un altro caso clinico, il caso di Sergio, tratto da Manica e Oldoini (2018). Anche questo è il caso di un “paziente difficile da raggiungere” (Joseph, 1975), che spinge a interrogarsi sui limiti della psicoanalisi come strumento di cura: “Sono limiti imposti dalla clinica oppure sono limiti che sono stati generati da resistenze e necessità difensive depositate nella teoria?” (p. 8). Riflettendo a posteriori, né Freud, né la Mack Brunswick disponevano delle concettualizzazioni teoriche che avrebbero preso avvio dalla loro ricerca pionieristica. Solo dopo la svolta kleiniana, e soprattutto dopo la svolta bioniana, siamo arrivati a concepire la nevrosi di transfert come una “malattia del campo”, come quella malattia che deve entrare nel campo e che si deve svolgere tra paziente e analista, perché si possano generare delle trasformazioni dell’esperienza traumatica. In questa nuova visione della cura psicoanalitica, il fattore terapeutico centrale diventa quindi la ricerca di una sintonia emotiva, che consenta livelli progressivi di piccole verità tollerabili, che possono scaturire dall’interazione conscia/inconscia tra paziente e analista. Attraverso le occasioni di attunement che vengono a crearsi nell’intreccio di identificazioni introiettive e proiettive della coppia analitica, il fine del processo psicoanalitico è quello di espandere l’esperienza mentale del paziente e dell’analista e di aumentare le capacità di dare un senso personale alla propria esistenza.

Per quanto riguarda il caso di Richard, Manica nota come lo stile interpretativo della Klein sembri ispirato da una cultura del sospetto, come avrebbe detto Luciana Nissim  (1984), piuttosto che da una cultura del rispetto. Melanie Klein non esita a dare interpretazioni che suonano traumatiche o colpevolizzanti per il bambino, incurante delle sue risposte avverse. Il paziente è visto come avido, ingrato, sempre pronto ad attaccare l’analista, così come i propri buoni oggetti interni; animato da un’aggressività e da una distruttività di cui deve diventare consapevole e prendersi la responsabilità. Manica osserva comunque che accanto alla sua tecnica “abituale”, la Klein (1961) riconosce la funzione dell’intuizione dell’analista, e introduce, perlomeno con Richard, delle variazioni di setting, per cui “faceva un pezzo di strada” con il bambino sia prima che dopo la conclusione delle sedute, anzi a volte lui la accompagnava a sbrigare “qualche commissione”. Manica commenta scrivendo che forse quando Melanie Klein riesce a lavorare in O, allora le parole che pronuncia  non suonano come interpretazioni, ma divengono trasformazioni in sogno o trasformazioni in gioco (Ferro, 2009).

Anche il vertice di lettura dei diversi casi descritti successivamente, reca il segno di quella svolta cruciale nel pensiero analitico contemporaneo, quella “nuova sensibilità analitica”, di cui parla Ogden (2022), che vede la mente come un processo vivente, che si colloca nell’atto stesso dell’esperienza. Nel terzo capitolo Heinz Kohut (1979) ci presenta il caso del signor Z, il suo paziente più famoso, la cui vera identità, sempre avvolta da un alone di mistero, potrebbe coincidere con quella di Kohut stesso. I riferimenti a ‘Le due analisi del signor Z’, mostrano come i modelli teorici possano influenzare il processo terapeutico, favorendolo o distorcendolo. Nell’intervallo tra le due analisi, i radicali cambiamenti della prospettiva teorica dell’analista, rappresentati da un allontanamento dall’ortodossia freudiana e dalla creazione della psicologia del Sé, permettono alla seconda analisi di pervenire a dei risultati più profondi e consistenti.

Nel quarto capitolo viene riportato il caso di Margherita, cioè la terza esperienza analitica di Margaret Little, quella con Donald Winnicott. Sulla scia del pensiero di Ferenczi, Winnicott comprende come le cure genitoriali carenti o intrusive abbiano un effetto traumatico sullo sviluppo infantile. Nella prospettiva winnicottiana non esiste peraltro un bambino separato, isolato, ma una madre con un bambino, una diade originaria, in una posizione di at-one-ment [PA] (Grotstein, 1993), una posizione fondamentale, che in analisi permette all’analista  di diventare l’O, la verità dell’esperienza emotiva del suo paziente.

Il quinto capitolo, in cui viene introdotto il caso del piccolo Harry, è centrato sui due percorsi analitici di Harry Guntrip con Fairbairn e Winnicott, e su un lavoro di Guntrip (1975), in cui egli si interroga  sulle possibilità della psicoanalisi di intercettare il traumatico, a partire dalla propria esperienza come paziente.

Il sesto capitolo raccoglie preziose riflessioni sulla psicoanalisi come forma di cura, che prendono avvio dalla lettura del racconto autobiografico del caso del dottor B, cioè di Bion, in analisi con Melanie Klein. Qui vengono messi in discussione due capisaldi del metodo psicoanalitico: il setting e l’interpretazione. Bion sembra sottolineare come l’errore, il tradimento del setting da parte dell’analista, “consegni il paziente alla propria coazione a ripetere, alla propria traumatofilia”. In linea con quanto propone Searles (1979), forse dovremmo diventare l’analista di cui il paziente ha bisogno, e non viceversa, organizzando quel setting, esterno e interno di cui il paziente ha bisogno. Bion sembra inoltre mettere in discussione non solo il ruolo e le funzioni svolte dall’interpretazione, ma anche gli effetti prodotti dal modo  di interpretare. Egli pensa che l’interpretazione non debba assumere un ruolo centrale nel processo psicoanalitico, e che le interpretazioni più ‘convincenti’ siano quelle che colgono l’esperienza emotiva del paziente.

Nel settimo capitolo, quello dedicato al caso del signor V, Thomas Ogden, attraverso la  descrizione di un suo sogno vivido, fatto circa un anno dopo l’inizio dell’analisi, ci offre un esempio paradigmatico di tecnica psicoanalitica contemporanea, a partire da un modello intersoggettivo della mente.  

L’ottavo capitolo è la riproposizione di un caso clinico di Mauro Manica, che ha costituito la sua iniziazione come analista, il caso di Zeno.

Il nono e ultimo capitolo è dedicato alle riflessioni sulla tecnica analitica, in una prospettiva post-bioniana, con una messa a confronto del pensiero di Melanie Klein e di Donald Winnicott. Come viene messo in luce da Manica, la questione della “tecnica” è estremamente importante per la ricerca psicoanalitica attuale, e per il futuro della psicoanalisi, come teoria e come terapia: “Perché, se da un punto di vista epistemologico, la tecnica si riferisce a quanto l’analista fa nella stanza d’analisi; da un punto di vista ontologico, riguarda innanzitutto ciò che l’analista è nella sua relazione con ogni paziente” (p. XV).

A tal proposito, concluderei con quanto scrive Ogden (2022) nel suo ultimo libro: “La verità nel setting analitico è estremamente difficile e dolorosa da sperimentare ed esprimere, perché la verità che il paziente cerca quando chiede aiuto a un analista è la verità di esperienze che erano insopportabili quando sono accadute, e rimangono insopportabili. Ogni coppia analitica è impegnata fin dall’inizio nel compito di creare un modo di parlare che sia adeguato a dare espressione sia alla paura della verità del paziente sia al bisogno del paziente di conoscere la verità della sua esperienza” (p. 167).              

Riferimenti bibliografici

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Grotstein, J.S. (1993), Introduzione, in M. Little (1990), Il vero Sé in azione, tr. it. Astrolabio, Roma 1993.

Grotstein, J.S. (2007), Un raggio di intensa oscurità, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2010.

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Joseph, B. (1975), Il paziente difficile da raggiungere, in Equilibrio e cambiamento psichico, Raffaello Cortina, Milano, 1991.

Klein, M. (1961), Analisi di un bambino, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1971.

Kohut, H. (1979), Le due analisi del signor Z, tr. it. Astrolabio, Roma 1989.

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Winnicott, D.W. (1956), La preoccupazione materna primaria, tr. it. in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.  

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