“André Green”, di Maurizio Balsamo (Feltrinelli, 2019)
Recensione di Sisto Vecchio
In Cent ans après, Green così dichiarava al suo interlocutore Patrick Frotté: «Penso sempre più che la psicoanalisi sia una forma di pensiero», convinzione cui perveniva nel corso di una straordinaria avventura teorico/clinica durata tutta la vita. Ma come intendere questo “pensiero” – più tardi definito pensiero clinico – qui proposto come il manifesto della pratica psicoanalitica contemporanea? È intorno a questa domanda cruciale sull’identità della psicoanalisi che il lavoro di Maurizio Balsamo si muove sin dalle prime pagine con straordinaria finezza e rigore, in una rivisitazione accurata e profonda dei dispositivi teorico/clinici più significativi dell’opera di Green, autore di cui è sempre più riconosciuta la statura eccezionale nel panorama della psicoanalisi contemporanea. Il lavoro di Balsamo ha il grande merito di contribuire a far conoscere, con notevole competenza, il pensiero di un autore profondamente impegnato a rendere attuale la psicoanalisi alle prese con le sfide della contemporaneità. Green, infatti, dà parola alla rivoluzione silenziosa in atto nella pratica psicoanalitica elaborando un modello originale, una nuova metapsicologia che integra il pensiero freudiano, in particolare la seconda topica, con i contributi degli autori post-freudiani più significativi (Lacan, Winnicott, Bion), il cui asse principale è l’articolazione tra l’intrapsichico e l’intersoggettivo, la coppia pulsione/oggetto. Una rielaborazione che lo ha portato ad un rinnovamento dei fondamenti della teoria della tecnica che trova nel concetto di pensiero clinico e di setting interno dell’analista i dispositivi teorici utili per trattare funzionamenti al limite dell’analizzabilità. L’apertura del testo di Maurizio Balsamo è già un saggio che ci introduce nella tessitura complessa del pensiero clinico di Green, un pensiero vivo, aperto, dialogante. «“Moi, j’aurais dit plutôt…”, “Io, avrei detto piuttosto…”: così Green iniziava a volte la sua riflessione su un caso clinico dopo che gliene avevo parlato. Da lì procedeva nell’esplorazione di una linea di pensiero che poteva incrociare o discostarsi da quella presentata, tentando di evidenziare la ramificazione delle comunicazioni analitiche, selezionando uno snodo piuttosto che un altro, in termini non conflittuali ma complementari, attento agli intrecci, ai rimandi, alle riemersioni di un tema nel corso della seduta. Era il suo modo per sottolineare quanto fosse importante la possibilità di un ascolto diverso aprendosi ad altri vertici osservativi, senza assumerne necessariamente uno come definitivo o più vero, il che a suo giudizio dovrebbe permetterci di essere analisti evitando di cadere nella solitudine del proprio pensiero e nella megalomania che può conseguirne» (p.9). Il ricordo personale di un incontro di supervisione ricostruisce una scena paradigmatica di conoscenza, il quadro dialogico in cui si realizza il pensare analitico. La scena introduce il primo capitolo – “Connessioni” – vero e proprio manifesto di quell’epistemologia della pratica, o anche epistemologia del limite, che sa «reinventare ogni volta una traduzione soggettiva dell’esperienza in modo da mantenere vivo lo scarto teorico-clinico, non solo nel rapporto individuo-gruppo analitico, ma innanzitutto nel laboratorio personale costituito dal lavoro con i nostri pazienti, in modo da evitare sia una negativizzazione controfobica della teoria, sia un suo arrivo frettoloso a mo’ di scudo di Perseo» (p.13). Un pensiero di cui Balsamo mostra da subito la tessitura dialogica, complessa, processuale, improntato alla terzietà, quale condizione per cogliere «un possibile riverbero di significazioni inedite, l’iniziatore di un movimento di apertura, di ricerca di senso inatteso, di decentramento”, in una parola, le trame inconsce che in un “intreccio strutturale fra dinamiche regressive e progredienti» (p.9) si attualizzano nella relazione analitica. Un pensiero che fa dell’incontro/differenza «a tutti i livelli del suo operare: nel dialogo interanalitico, nelle relazioni di cura, nella scrittura» il dispositivo epistemico «utile a rilanciare la riflessione e riaprire schemi interpretativi consolidati». «Nel corso della conversazione», scrive ancora Balsamo, «le riflessioni si dispiegavano poi su aspetti teorici, personali, affettivi, in una rete di associazioni e stratificazioni che rendevano il senso della profonda unicità di quell’incontro e mostravano la sua capacità di tessere fili tra una varietà di esperienze molto diverse, creando decontestualizzazioni inaspettate» (p.9). A. Green, afferma l’autore, «potrebbe essere descritto come un pensatore delle connessioni, come colui che più di altri sembra aver avvertito l’esigenza di ricomporre in una rivisitazione feconda del lascito freudiano e in una passione combattiva i successivi modelli psicoanalitici, dialogando con Lacan, Bion, Winnicott e l’insieme della letteratura psicoanalitica internazionale. Vi si ritrova una caratteristica del metodo freudiano, lo Zusammenhang, quel “tenere insieme” gli elementi di un problema per evidenziare il valore del conflitto più che per uno sforzo dottrinario di unificazione» (p.11). Come ben evidenzia Balsamo questo pensare-con può essere identificato come la matrice metodologica di un’etica del pensiero, plurale, en réseau e, al tempo stesso, appassionato, personale che Green stesso così sintetizza: «seulement de moi, aussi des autres».
È proprio l’assunzione di questo dispositivo teorico/clinico che ha la sua matrice originaria nella coppia pulsione/oggetto, l’articolazione tra il dentro e il fuori, l’intrapsichico e l’intersoggettivo, che consente l’ascolto della pluralità di livelli di uno psichico «non stratificato o disposto linearmente ma organizzato in maniera reticolare» come risulta evidente nei capitoli dedicati alla clinica degli stati limite e al complesso della madre morta. La questione degli stati limite, delle patologie non nevrotiche, ai limiti dell’analizzabilità, è il capitolo successivo che evidenzia tutta la ricchezza del contributo di Green. È, infatti, a partire dal trattamento di queste patologie che «si sviluppa sostanzialmente l’avventura teorica di Green, nel momento in cui accetta la sfida di pensare la clinica non più dalla costellazione nevrotica e dal metodo che si organizza storicamente intorno a essa, cioè dalla costruzione classica del setting alle libere associazioni, dalla prevalenza del quadro rappresentativo a quella dei movimenti di legame» (p.23), avventura che lo porterà a proporre il limite, il doppio limite, come il nuovo paradigma del lavoro analitico. «I casi limite, dirà in molti luoghi della sua enorme produzione, pongono problemi teorici e di tecnica analitica assolutamente nuovi e gli analisti devono attrezzarsi per riuscire a pensare il passaggio che si realizza dal modello del sogno al modello dell’atto (desimbolizzante) e della scarica» (p.23). «Si tratterà allora di prendere in considerazione una clinica del tutto diversa, dove entrano in gioco i fattori distruttivi, la negazione dell’oggetto, la cancellazione del proprio pensiero, del sentimento di esistere, e dove ad esempio l’impossibilità di rappresentarsi l’assenza dell’oggetto provocherà risposte come la frammentazione, la devitalizzazione o l’intervento del soma» (p.24). È l’area della follia privata (p.32), dei funzionamenti psichici in cui prevalgono i meccanismi di slegamento, desoggettualizzanti, della distruttività, che rendono poco utilizzabile il setting classico a causa della regressività indotta dalla situazione analitica che «obbligano l’analista a inventare nuovi modi di essere e di pensare e tecniche differenti da quelle centrate su divano/libera associazione/attenzione fluttuante». La riflessione sulle condizioni che rendono possibile la pensabilità porteranno Green ad introdurre il concetto di setting interno dell’analista, di struttura inquadrante, e di pensiero clinico. Ad esse Balsamo dedica delle pagine dense e particolarmente argomentate, cogliendo l’occasione per una rigorosa ripresa del problema della processualità rappresentativa (p.86) di cui viene sottolineata l’eterogeneità. «Si tratterà dunque di costruire, realizzare, mediante lo scambio analitico, le condizioni attraverso cui si potrà giungere a una possibilità rappresentativa». «Avremo dunque piuttosto la costruzione di un setting interno nella mente dell’analista, relativo alle varianti da prendere in considerazione nella cura con pazienti gravi e in difficoltà nell’utilizzare il setting classico; il mantenimento di un “divano in latenza” e di una terzietà da raggiungere ma comunque da assumere come asse di riferimento nell’ascolto analitico; il rapportarsi al fallimento dei processi associativi e al modello del sogno traumatico, delle difficoltà elaborative e della spinta alla ripetizione; la costruzione, da parte dell’analista, di modalità di simbolizzazione e di interiorizzazione come luoghi dove la parola potrà sorgere una volta liberata dalla sua persecutorietà. O, come precisa Green: passaggio dal modello del setting/sogno/interpretabilità, al modello caratterizzato dal fallimento del setting/atto/ predominio dell’esperienza sull’interpretabilità. Il setting, assunto come luogo di cocostruzione del campo analitico, del terzo analitico, come spazio transizionale di un soggetto giocatore nel senso winnicottiano» (p.87).
Il complesso della madre morta, uno dei lavori più noti di Green, «permette una riflessione su un aspetto fondamentale della clinica dei nostri giorni, confrontata a suo dire sempre più con la problematica dei fallimenti relativi al lutto introducendo al quadro delle identificazioni melanconiche e della clinica del vuoto o, in difetto di questa modalità identificatoria, dei processi di somatizzazione» (p.59). La clinica dei fenomeni connessi a questo complesso, caratterizzati dall’interiorizzazione del negativo, introducono al «vasto quadro delle identificazioni melanconiche e alla clinica del vuoto o, in difetto di questa modalità identificatoria, ai processi di somatizzazione» (ibidem), consente di cogliere funzionamenti psichici caratterizzati dalla fobia di pensare, dal disimpegno soggettuale, dalla negativizzazione dell’esperienza. Problematiche connesse alla dimensione del narcisismo negativo e al negativo nella sua dimensione distruttiva, argomenti su cui Balsamo puntualmente dedica ampie e approfondite riflessioni riprese nel capitolo dedicato al fallimento dello spazio originario (p.70) e quindi dell’impossibilità di negativizzare la percezione dell’oggetto quale condizione per il costituirsi della struttura inquadrante (p.64), spazio per pensare l’assenza (p.97), necessaria allo sviluppo dei processi rappresentativi e delle funzioni oggettualizzati.
Una teoria del pensiero (p.113) è l’ultimo capitolo di questo lavoro denso e originale che, a partire da una rilettura del saggio la Psicosi bianca scritto da Green con Jean Luc Donnet, consente a Balsamo di approfondire l’intreccio complesso tra gli effetti retroattivi sull’esperienza e il senso del teorizzare sottolineando come il sapere che preordina l’ascolto analitico «deve essere messo in latenza per permettere un’apertura del campo analitico, senza trascurare l’effetto di après-coup della teoria sull’ascolto, nel dare cioè retroattivamente un senso possibile a ciò che si è ascoltato fino ad allora» (p.119). La vicenda di Z, il paziente su cui si basa il testo di Donnet e Green, consente di evidenziare come di fronte ad uno stato caotico, all’impensabile, nel tentativo di costruire un’origine soggettivabile, l’analista sia costretto ad una “teorizzazione incessante” in un’enorme après-coup elaborativo nel tentativo di impossessarsi del segreto della vicenda psicotica e ne sia a sua volta impossessato. Si viene quindi a determinare un movimento che, nell’attualizzarsi della situazione analitica, incrocia le fissazioni identitarie, i movimenti di oggettualizzazione/ disoggettualizzazione, il desiderio o l’interdetto a pensare del paziente, la sua alienazione nel sapere di un altro o il suo diritto a pensare da sé. Una pagina anche questa ricca di argomentazioni teorico/cliniche che non mancano di sottolineare la coesistenza di aree di funzionamento eterogenee e soprattutto come un’attività intellettiva anche particolarmente elevata possa essere utilizzata come una forma di controinvestimento, «di barriera per impedire il contatto con la dimensione affettiva/pulsionale» (p.124). Argomento che viene sviluppato da un vertice diverso nel paragrafo dedicato alla posizione fobica centrale, lavoro in cui Green «esamina la presenza di fobie non circoscritte ma estese al funzionamento mentale, con inibizioni importanti dell’Io, scarsa associatività, attacchi di angoscia, come se, aggiunge, un funzionamento fobico si fosse installato all’interno della comunicazione analitica, realizzando un evitamento della funzione analitica stessa» (p.129).
Questioni di spazio mi impediscono di soffermarmi su altre pagine, per esempio sul doppio ruolo del negativo, sulla dimensione soggettualizzante e oggettualizzante, ma spero di essere riuscito a comunicare la ricchezza di questo testo di Maurizio Balsamo che, insieme alla notevole competenza del pensiero di Green, ha, tra gli altri, il grande merito di farci apprezzare in cosa consista pensare analiticamente.
Sisto Vecchio
Bibliografia:
Botella C. (sous la direction de) (2002), Penser les limites, Delachaux et Niestlé, Paris
Froté P. (1998), Cent ans aprés, Gallimard, Paris
Green A. (2002), La Pensée clinique, Éditions Odile Jacob, Paris
Green A. (2013), Penser la Psychanalyse, Éditions d’Itaque, Paris
Vedi anche: