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“Al cinema con il mio paziente”  di G. Riefolo. Recensione di P. Boccara

4/11/24
Bozza automatica 76

Parole chiave: Psicoanalisi; Freud; Cinema; Musica

“Al cinema con il mio paziente. Venti film e una canzone nella stanza di analisi”

  di Giuseppe Riefolo

(Alpes ed. 2024)

Anna Ferruta: “i film in programmazione oggi”

Recensione a cura di Paolo Boccara

Con il ‘Al cinema con il mio paziente’, Giuseppe Riefolo ci offre l’opportunità ancora una volta (come nelle sue opere precedenti), di avvicinare il suo modo di intendere il cinema, come psicoanalista e come spettatore, e ci permette di vedere o di rivedere i suoi film in un modo assolutamente originale.

Si inizia inaspettatamente da una canzone. Una bella canzone di Vasco Rossi, che diventa l’occasione, come per i film successivi, di entrare nella stanza di analisi e vedere analista e paziente alle prese col loro dialogo intenso e articolato, tra riflessioni e ricordi. Poi, attraverso i successivi venti capitoli, entriamo con Riefolo nella sala cinematografica (con lui e con i suoi pazienti) e cominciamo a provare sentimenti che rendono la lettura una sorpresa continua, un vero e proprio attraversamento emotivo.

Sappiamo da tempo che per Riefolo il cinema, come il sogno, non è un racconto da ‘decifrare’ ma un dispositivo che gli consente di conoscere e riconoscere parti di sé magari rimaste momentaneamente fuori anche dalla stanza di analisi. Sensazioni, pensieri, immagini,  che magari non vivrebbero in quel determinato momento senza la mediazione di quei film, di quelle figure, di quei personaggi, di quel racconto e che, a loro volta, diventano occasioni per ulteriori processi di pensiero, ritornando poi dal paziente nella stanza di analisi.

A Riefolo piacciono i film che non ‘spiegano’ e che non devono essere ‘spiegati’, ma che semplicemente ‘evocano’ e lasciano alla sua fantasia la possibilità di completare le storie e le emozioni dei personaggi. Che lo uniscono a se stesso e al suo paziente, a quello che accade tra di loro, non solo alla ricerca di un senso o di uno svelamento di contenuti inconsci, ma per mettersi reciprocamente alla prova di un ‘pensare immaginativamente’.

Un  cinema che lo avvicina al ‘reale’ attraverso la ‘finzione’. Una finzione che, però, deve essere in grado di catturare porzioni di ‘realtà’, di ‘verità’. E questo accade sempre nei film che sceglie  di vedere soprattutto quando, guardando le diverse scene, si accorge di cercare e poi di trovare ‘qualcuno’ e non ‘qualcosa’. Persone e non concetti. Voci dentro di sè, voci conosciute che così si fanno riconoscere.

Freud, nel suo saggio “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915), scriveva che “nell’ambito della finzione troviamo quelle molte vite di cui abbiamo bisogno”. A quale bisogno si riferiva? Leggendo il libro di Riefolo lo scopriamo.

Al cinema siamo sempre di fronte a un doppio schermo: esterno e interno, su cui si proiettano una infinità di aspetti di noi stessi. Un doppio schermo che crea pensieri cercando di abbracciare i nostri sentimenti, che a volte rappresentano qualcosa che sta appena più in là del visibile.

E’ il bisogno di mettere in funzione quel tipo di ‘pensiero sognante’ che spesso utilizziamo a occhi aperti di giorno, anche nella stanza di analisi, che ci permette di vivere le tante vite interne che ci attraversano la mente. Un tipo di pensiero, che ci consente, vedendo un film, di accorgerci che ciò che è vero su un dato piano mentale (per noi e per i nostri pazienti) non lo è sull’altro, e che i piani della nostra mente bisogna abilitarli tutti, dalla ‘cantina alla soffitta’.

Il cinema per Riefolo (e per noi che lo leggiamo con interesse e con la sua stessa passione), diventa quindi fondamentale per prendere contatto con aspetti della vita nostra e dei nostri pazienti, accrescendo la possibilità mai conclusa di avvicinarci anche alla soggettività di ciascuno. E, in quanto psicoanalisti, ci consente di farci vivere dentro, ogni volta, quello che avviene in un percorso terapeutico quando il passato dei pazienti acquista un presente, nel contempo che il loro presente si connette al passato.

Perché, così come sappiamo che le storie che ci vengono raccontate in analisi acquistano un  loro particolare significato soprattutto nell’incontro con l’altro, allo stesso modo leggendo le parole evocate dai film di questo libro, le immagini che ne scaturiscono diventano a loro volta fonti di associazioni che si trasformano in altri racconti. Racconti di cui Giuseppe Riefolo diventa autore e regista insieme al proprio paziente.

E noi stessi diventiamo a nostra volta spettatori di una storia nuova pronta per ogni nuovo interlocutore che raggiungeremo. Autori anche noi di noi stessi attraverso l’altro.

Il cinema per Riefolo diventa insomma uno strumento investigativo sulla realtà, anche sui suoi enigmi, alla ricerca di una qualche verità e della sua possibile comprensione. Perché se i film a volte scrivono se stessi su di noi, facendoci diventare qualcosa di diverso da ciò che eravamo prima di entrare in sala, proprio per questo ci aiutano a sentirci meglio.

Marc Augè scriveva  che “la pellicola è il testimone della stupefacente capacità della memoria di dimenticare e reinventare”. ‘Dimenticare’, ma anche ‘reinventare’ e …ritrovare.

In fondo, sembra aggiungere Riefolo, leggiamo libri, guardiamo film (e… facciamo gli analisti) per cercare qualcuno. Qualcuno che in qualche modo o in parte ci rappresenta, magari più di quanto noi crediamo di rappresentarci.

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