Parole chiave: Psicoanalisi, Disabilità, Un difficile inizio
UN DIFFICILE INIZIO
RISCHI, PREVENZIONE E CURA NEI PRIMI ANNI DI VITA
MUSEO DEGLI INNOCENTI – FIRENZE, Piazza della Santissima Annunziata, 13
Disabilità/2
G. Gentile intervistata da D. D’Alessandro
Qual è il primo pensiero di una psicoanalista di fronte alla disabilità, al difficile inizio di una disabilità?
Il mondo della disabilità è vasto e complesso come complesso è l’essere umano. Ma la prima parola che nasce dentro di me è rispetto, parola spesso usata con leggerezza. Ma etimologicamente (dal latino re-spicere) vuol dire riguardare, nel senso di porre attenzione. Dedicare tempo e cuore, riconoscere l’unicità e l’individualità di ognuno. Quindi un’accoglienza profonda che abbia l’umiltà di ascoltare anche dove le parole non ci sono, un ascolto specializzato perché in loro, come in tutti c’è chi sta lottando per nascere come soggetto. Bisogna immergersi nell’altro per poterlo aiutare, riconoscerlo come soggetto e soggetto desiderante, che ha diritto ad uno spazio privato (cosa spesso negata), che ci chiede di mediare tra il suo di mondo e quello degli altri, senza pietismi, con realismo ma senza spegnere speranze e sogni.
Che cosa insegna la disabilità a chi disabile non è?
La loro fragilità rimanda in fondo alla fragilità della condizione umana, è l’incontro con quello che Freud chiama il perturbante. Siamo così sicuri di non essere disabili? La società che abbiamo costruito risponde a quali bisogni? L’aumento dell’uso degli psicofarmaci, anche nei bambini e negli adolescenti, lo dimostra. “Chiamatemi handicappato, disabile o come volete ma permettetemi di prendere un treno, di andare ovunque. Io non voglio la pensione voglio lavorare.” (Paolo). Sono passati 40 anni e nessuna barriera architettonica è stata infranta, tantomeno quella psicologica, e poche sono le opportunità di realizzazione. Lavoro con la disabilità da più di 35 anni ed ho imparato tantissimo, il coraggio, la perseveranza, la gratuita, il considerare la vita un dono, nonostante tutto.
Quale portata hanno il confronto e la relazione con i genitori del bambino o dell’adolescente?
L’apporto dei genitori è fondamentale, come per ognuno. La psicoanalisi non sempre è riuscita a cogliere la complessità e la durezza dell’essere genitori, ma anche fratelli e nonni, di un bambino o adolescente disabile. Le emozioni vissute (rabbia, dispiacere, paura del futuro, rivendicazione), sono talvolta così estreme, da spaventare i genitori stessi ma è lì che dobbiamo esserci, nel permettere di condividere senza giudizio, quello che da soli è troppo difficile sopportare. Ma la famiglia non basta. Nel bellissimo libro “Nati due volte” Pontiggia padre di un disabile scrive, “i bambini disabili nascono due volte: la prima li vede impreparati al mondo; la seconda è affidata all’amore e all’intelligenza degli altri”.
Con l’aumento delle separazioni tra genitori, di quanto è aumentata la difficoltà nella gestione di queste situazioni?
Non ho trovato grandi differenze: dove i padri erano presenti lo sono stati anche dopo, dove erano latitanti la legge ha permesso un minimo di presenza. Sicuramene però la fatica e le difficoltà incontrate ogni giorno possono logorare i rapporti.
I padri sono sempre lontani o il loro grado di collaborazione è pari a quello delle madri?
Nella mia esperienza, anche con bambini ed adolescenti non disabili, ma ugualmente sofferenti, ho sempre preteso la partecipazione di entrambi i genitori. I padri, forse per motivi anche culturali, vengono spesso esclusi dalle madri stesse. I figli vanno presentati ai padri, essendo inizialmente il loro ruolo più di supporto alla madre. Ma ho sempre trovato i loro interventi e vissuti, obiettivi e vicini alla realtà del figlio e quasi mai si sono rifiutati di aiutare lo svolgimento dell’analisi. Oggi però sicuramente c’è un maggiore desiderio dei padri di essere presenti.
Qual è il tipo di rapporto, se esiste, tra il professionista e le strutture esterne che, spesso, sono chiamate a prendersi cura dei soggetti affetti da disabilità?
In questo momento, pur se necessario, il confronto con le strutture esterne appare complicato. I protocolli esistenti infatti, partono quasi esclusivamente da una lettura della disabilità che fa coincidere il soggetto con la sua menomazione e che utilizza metodi di addestramento e di apprendimento da cui il soggetto è totalmente escluso, in cui non vi è rispetto appunto, dei suoi desideri, dei suoi tempi, del diritto di esprimere sé stesso.
Peso è il termine che spesso, soprattutto da chi non ce l’ha, viene associato alla disabilità. Eppure, molte famiglie, che ce l’hanno, parlano di ricchezza, di straordinaria occasione di crescita. Non è un po’ strano, il nostro mondo?
Li capisco, ho vissuto anch’io la ricchezza e profondità che questa esperienza regala, così difficile da spiegare a parole. Un altro ragazzo mi disse “noi siamo come un pacchetto malconfezionato ma dentro possiamo essere splendidi… abbiamo conosciuto il dolore e le nostre porte sono aperte per tutti”. Sì, una società che li comprenda sarebbe sicuramente una società migliore.