Parole chiave Trieste, Psicoanalisi, Joyce, Saba, Svevo, Dolore psichico
Trieste – Gli anni della psicoanalisi
Soggetto e regia: Giampaolo Penco
Fotografia: Mauro Zocchi, Alessio Bozzer
Montaggio: Christopher Scherlich
Produzione: Videoest
Recensione di C. Giraudi
Trieste. Gli anni della psicoanalisi, il nuovo documentario di Giampaolo Penco, esplora in modo vivo e suggestivo le ragioni per cui la psicoanalisi ha trovato in Trieste una feconda porta di ingresso per insediarsi in Italia. Nello stesso tempo, ci aiuta a ricordare l’importanza della Psicoanalisi, oggi come ieri, quale strumento capace di aiutare le persone sofferenti a non fuggire dal dolore psichico ma poterlo avvicinare e dargli un senso quale antidoto ad azioni rabbiose e distruttive. Attraverso una passeggiata nel parco Tommasini tra i busti degli illustri triestini, il regista dà vita alle storie con contributi di figure come Franco Basaglia, Paolo Rumiz, Philippe Daverio, Umberto Galimberti, Andrée Ruth Shammah, Umberto Saba e molti altri, oltre ad aprire riflessioni con gli interventi di psicoanalisti triestini come Rita Corsa, Paolo Fonda e Vlasta Polojaz.
Siamo nei primi decenni del secolo scorso (1900), quando il crollo dell’Impero austro-ungarico segna la fine della florida epoca fin de siècle della Vienna Felix, aprendo la strada a quel vuoto sofferto che avrebbe portato alla nascita del Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale. Trieste, quel melting pot di etnie e religioni, cosmopolite e variegate, rendeva possibili scambi fecondi e creatività che di fronte, però, alla richiesta di italianizzarsi, si ritrovò forzata a una polarizzazione, tra il nazionalismo, denso di pregiudizi e senso di superiorità culturale sugli sloveni, e la resistenza. Tutto questo, esitò in una rabbia collettiva che dava voce, almeno in parte, al senso di smarrimento generale in cui versava la città. Qualcuno fuggirà, come alcuni sloveni emigrati in altre parti d’Italia o in Jugoslavia mentre chi rimase fu colonizzato attraverso la lingua, la scuola e l’obbligo del cambio del proprio nome, in un totale attacco all’identità.
Il film si sofferma sulla situazione di sofferenza vissuta dopo la Grande Guerra e l’epidemia spagnola, calamità che avevano già tanto tolto alla popolazione e che, però, manteneva, malgrado tutto, l’umano desiderio di incontro, scambio e confronto. Il regista ci invita a riflettere come, in questo contesto, la percezione della propria identità come conflittuale rappresentasse per le differenti persone di questa area geografica una spinta potente verso diverse riorganizzazioni di sé. Se da una parte la risposta poteva essere l’affermazione di una propria pretesa superiorità e l’assoggettamento degli altri, dall’altra la sofferenza prendeva le forme di un dolore psichico difficilmente esprimibile, come il film ci mostra nel racconto del tormento di Saba, spaventato dalla psicoanalisi che curando la sua sofferenza avrebbe potuto cancellare la sua spinta vitale, la sua creatività e la sua arte o, diversamente, di quello di Svevo, che con “La coscienza di Zeno” aveva compiuto una sorta di auto psicoanalisi.
Tutte queste considerazioni ci danno ragione di come Trieste contenesse in sé le condizioni perché il pensiero e la cura psicoanalitica proprio qui si radicassero profondamente. Il giovane Edoardo Weiss, che aveva studiato a Vienna, seguendo le lezioni con Freud e aveva fatto un’analisi con Federn, nel 1919 arrivò a Trieste per fare lo psichiatra in Ospedale; di lì a poco, aprì il suo studio da psicoanalista dove iniziò a lavorare con soddisfazione. La psicoanalisi, infatti, sembrava essere un’infatuazione collettiva, una fascinazione che si esprimeva oltre che nelle richieste di cura, nei caffè e nei circoli di culturali, dove le persone parlavano dei loro sogni, giocando con le idee psicoanalitiche. Da qui la psicoanalisi si diffuse in modo virale: è interessante il racconto di come i libri di Freud, che Edoardo Weiss diede al suo amico Veneziani, siano velocemente passati di mano in mano prima a Svevo e di lì a Joyce. In un periodo così critico la psicoanalisi rappresentava una risposta agli interrogativi che attanagliavano chi aveva una propensione a indagare dentro di sé, come gli artisti e i letterati, che con le loro opere hanno contribuito a generare curiosità e familiarità nei confronti del nuovo pensiero, come degli influencer ante litteram, favorendone la diffusione.Giampaolo Penco descrive un’epoca di vuoto, affine al periodo che stiamo vivendo. Un periodo in cui crollano le certezze, i confini e i limiti che ci hanno strutturati e, come era stato all’epoca, l’assetto costituito è rimesso in discussione in modo potente e prepotente, attraverso il ritorno, sembra incredibile ancora oggi, di forze e pensieri oscurantisti. Per questo credo che siano preziose le produzioni come questa, che presentano il pensiero psicoanalitico come un pensiero ancora vivo e capace di dare voce alle difficoltà delle vicende umane. Inoltre, la visione delle immagini di repertorio e l’immersione nelle storie raccontate da questo filmato sono toccanti per tanti di noi, perché attraverso esse possiamo rivivere un’epoca ancora recente e significativa: le tracce della storia della psicoanalisi e della storia d’Italia si intrecciano e ci emozionano, perché raccontano di noi, delle nostre origini, delle nostre vicende familiari che ancora vivono dentro di noi.