Anselm Kiefer, 1989
Abstract: Da Freud in poi, “l’accidentato percorso” del concetto di pulsione di morte.
Sulla pulsione di morte
Con la pulsione di morte, Freud postula uno dei suoi concetti più controversi, per certi versi astratti ma con ampia ricaduta clinica e sociale, tra i più dibattuti nella comunità psicoanalitica. Una tale ritrosia non sorprende: “come ammettere che la morte sia attivamente all’opera nell’essere vivente” (Le Guen, 1989), che l’organismo si scelga da sé la sua propria morte e “voglia morire alla propria maniera?” (Freud, 1920).
Il testo in cui Freud concettualizza la pulsione di morte (Todertrieb) è Al di là del principio di e piacere del 1920; testo fondamentale che segna la cosiddetta ‘svolta del ’20’ ed introduce alla seconda teoria delle pulsioni e al dualismo pulsionale. Il saggio definito da molti geniale, contradditorio (Deleuze, 1971; Laplanche, 1991), che non conclude e “non abdica davanti a niente” (Lacan, 1954), già nel titolo chiama in causa i rapporti tra il piacere e qualcosa che lo superi, è comprensivo di una prima parte in cui l’osservazione è derivata da fatti clinici, e una seconda parte, a partire dal quarto paragrafo, da cui si apre una pura e immaginifica speculazione (che, va detto, le attuali neuroscienze non hanno sconfermato, Le Guen, 2008). Alcuni biografi hanno dato un certo rilievo ad alcune vicende biografiche di Freud e al contesto storico, ma Freud rifiutò sempre di darvi peso: alcuni gravi lutti (il benefattore Von Freund, la figlia Sophie), e soprattutto la devastazione della Grande Guerra, mentre sul piano psicoanalitico riconobbe un certo debito all’opera della Spielrein La distruzione come causa del divenire (1912).
Fino al 1920 la teoria psicoanalitica si era basata sul principio di piacere e principio di realtà, ma ora Freud si scontra con alcune scoperte cliniche che lo colpiscono e che non si spiega: i sogni dei traumatizzati di guerra, che continuano a sognare il trauma (anziché ricordarlo, o sognare la vita prima del trauma), i giochi dei bambini in cui riscontra il piacere derivato non dalla novità, come ci si aspetterebbe, ma dalla ripetizione. Tramite la famosa osservazione del nipotino Ernst, Freud si accorge che il bambino trae piacere dal gioco del rocchetto, in cui domina il dispiacere causato dall’assenza della madre facendo sparire e ricomparire il rocchetto, avendo cioè trasformato un dispiacere subito in una esperienza attiva, gestita da lui con padronanza. Tali esperienze non rispecchiano il normale principio di piacere, tuttavia non postula per esse un ‘principio di dispiacere’, ma comprende che deve esistere qualcosa nell’apparato psichico che vada al di là (jenseits) il principio di piacere, ma rappresenta pur sempre un piacere. Il fenomeno della ripetizione lo porta a postulare l’esistenza di una coazione a ripetere, una forza “demoniaca”, che assume il carattere di una forza invincibile legata ad un eccitamento slegato, atemporale, in contrasto con il progresso nella vita e con la volontà cosciente di guarire. Definisce la coazione a ripetere come “la più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto” (Freud, 1920).
Nell’ambito della vita cosiddetta ‘normale’, la coazione a ripetere si esprime ad esempio nelle ‘nevrosi di destino’, ossia quando ci sembra che qualcosa, come innamoramenti infelici o vicende professionali sfortunate, si ripetano con costanza nella nostra vita, come a far parte di un inesorabile destino, ma per via di questa spinta pulsionale interna al ripetere pur contro il nostro interesse, abbiamo appreso che il destino è dato dall’interno e non dall’esterno. Oppure si esprime nel transfert durante il trattamento analitico e può essere causa di resistenze e reazioni terapeutiche negative, perché ciò che si ripete, in un apparentemente tragico paradosso, sono gli assetti dolorosi del passato, in parte per padroneggiarli e in parte per ricavarne l’inconscio godimento di non progredire, di restare nella malattia. Un al di là del piacere, ma pur sempre un piacere.
E’ molto importante non confondere la pulsione di morte freudiana con l’aggressività, una confusione che nel dopo-Freud è talora esistita. La pulsione di morte può essere fatta coincidere con il Nirvana, termine tratto dalle filosofie induiste, che letteralmente significa “spegnimento del soffio” e che Freud trasse da Barbara Low, e consiste nel desiderio, insito nell’organismo vivente, teso a spegnere tutte le tensioni e gli eccitamenti, a tornare allo zero, a ripristinare un’omeostasi, a tornare a un prima della vita, ad un prima del desiderio. E’ come se qualcosa, qualche stimolo che poi si configurerà con Eros, ad un certo punto dell’origine del mondo avesse scosso la vescichetta originaria (così la chiama Freud nella seconda parte di Al di là), perturbando così per sempre la sua stasi, la sua quiete, e dando luogo alla vita, alle pulsioni erotiche di vita; la pulsione di morte, rimane però insita nell’organismo e tenderà a voler ripristinare quell’equilibrio, portando alla morte del soggetto e della pulsione. Non si tratta del desiderio di morte (benchè possa poi esitare in quello) ma della morte del desiderio. Essa dunque non riguarda la morte dell’altro, dell’oggetto (che è mira, come è noto, del sadismo e resta nell’ambito dei destini di Eros): essa riguarda la morte del soggetto.
La vita vuole morire, si potrebbe dire.
Un principio di costanza era stato postulato da Freud fin dal Progetto di una psicologia (1895), ed è spinto qui alle sue estreme conseguenze.
“Che cosa vuole l’Io? – si domanda Green – che lo si lasci in pace” (1990).
Come detto, il concetto ha sollevato entusiasmi e perplessità. Vediamone alcune. Sul piano metapsicologico ci si è chiesti se non bastasse la sola pulsione sessuale, e tale è ad esempio la visione di Laplanche (1991) che vede l’esistenza di una sola pulsione, quella sessuale, che si dividerebbe in pulsione sessuale di vita e pulsione sessuale di morte. Le Guen (2008) si domanda se alla pulsione di morte può riservarsi la definizione di pulsione in quanto è chiara la meta, ossia la morte, ma meno chiaro l’oggetto e la fonte. Tuttavia è proprio questo autore a ripercorrere il percorso freudiano in tre periodi sull’aggressività: un primo periodo in cui, anche per differenziarsi da Adler, Freud rifiuta categoricamente l’esistenza di una pulsione aggressiva autonoma, una destrudo; il secondo periodo del ’20 con la piena affermazione della morte nell’individuo, ed il terzo con la maggiore enfasi, a partire dal ’24, sui concetti di impasto e disimpasto tra Eros e Thanatos e l’impossibilità di isolare una pulsione pura.
Con il dualismo pulsionale, infatti, Freud verrà a concettualizzare che la vita psichica è possibile solo finchè esiste l’impasto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, e nessuna delle due riesce ad eliminare l’altra; la vita è data dall’intrico, e tutte le sue variegate manifestazioni ne dipendono.
Ne consegue allora un altro concetto interessante: se anche la pulsione di morte è necessaria alla vita, essa ha qualche utilità in sé? Autori successivi hanno messo in luce quella che potremmo chiamare la “funzione soggettivante” della pulsione di morte (Le Guen, 1989; Zaltman, 1997; Ribas, 2006, Penot, 2017), che si può avvicinare al ‘lavoro del negativo’ di Green (1993); essa protegge da un eccesso di legame, al ‘troppo pieno della pulsione’, laddove Eros può dare agglutinamenti mortiferi come nelle masse (1921), o funzionare come ‘terzo’ e funzione slegante per emancipare il bambino dalla madre e spingere alla soggettivazione . La vita ha bisogno anche di una certa quota di slegamento, che deve bilanciarsi con Eros.
A partire dal 1923 con L’Io e l’Es e due anni dopo con l’importante saggio sul masochismo del 1924, la teoria della pulsione di morte è completa, diventerà sempre più chiaro che Freud avrà in mente, per la vita individuale e collettiva, la necessità che le pulsioni restino impastate e che la pulsione di morte, da ora in poi anche detta ‘distruttiva’, non si sleghi e non perda il suo legame con Eros per non uccidere l’organismo, se rivolta all’interno come masochismo, o l’oggetto se rivolta all’esterno come sadismo. Un esempio grave di slegamento, “coltura pura di pulsione di morte”, è la malinconia. Aver postulato l’esistenza di una pulsione di morte autonoma nell’organismo, obbliga a far sì che una parte venga dirottata all’esterno come aggressività perché l’Io non ne venga travolto, mentre una parte residuerà nell’Io come masochismo primario, o erogeno (1924).
Nei lavori della maturità, come Il disagio della civiltà (1930), egli esprimerà un certo pessimismo su quanto Eros, nel gioco pulsionale con le pulsioni di morte, riuscirà ad avere la meglio sulle pulsioni di morte.
Nei post freudiani, il concetto ha avuto accoglienza accidentata. La Klein lo accoglie pienamente e ne fa un uso del tutto clinico, venendo a identificare la pulsione di morte con l’invidia e di fatto con l’aggressività, spostando così l’accento dalla pulsione all’oggetto. Questo shift, e la denominazione del concetto inizialmente come instict, creerà una certa confusione. In Rosenfeld (1975) il concetto si amplia a distruttività tra parti dell’Io: parti distruttive che attaccano le parti libidiche come in una banda, in un’organizzazione che vuole uccidere il Sé libidico. Tale impostazione resterà prevalente tra gli autori kleiniani, mentre tra gli attuali post-kleiniani le posizioni sono più variegate (Bell, 2015) tra coloro che si mantengono vicini alle originarie idee kleiniane e coloro che riconoscono invece l’importanza della teorizzazione freudiana (Nirvana-like). Autori successivi, come Fairbain, Winnicott, Kohut, vedono l’aggressività come aspetto principalmente dovuto alle carenze dell’ambiente, più che al gioco di spinte pulsionali insite nel soggetto.
Da un punto di vista del tutto diverso, il concetto è accolto a piene mani anche da Lacan (ib.) che fa, anzi, della coazione a ripetere l’essenza stessa della pulsione.
Molto interessante anche per le sue ricadute cliniche è lo sviluppo del pensiero di Green, che articola la teorizzazione sulla pulsione di morte con le problematiche del narcisismo, venendosi così a distinguere un narcisismo di vita e un narcisismo di morte, a seconda che venga mantenuto o meno il rapporto con l’oggetto, interno o esterno: si riconoscono così una pulsione oggettualizzante e una dis-oggettualizzante, dove la dis-oggettualizzazione mortifera può spingersi fino al vuoto, alle ‘psicosi bianche’ (Green, 1990) quali alcune nuove forme cliniche.
Le nuove figure del ‘disinvestimento’ (Benasayag e Smith, 2003; Valdrè, 2016), il vasto campo delle addiction e di tutte queste sintomatologie ‘mute’ quali è la pulsione di morte (Freud, 1920), oltre all’evidenza della distruttività, rendono ragione dell’importanza e della diffusione della pulsione di morte nella clinica e nella società, e di come non sempre sia semplice il suo riconoscimento. A differenza di Eros, essa è per sua natura muta, in quanto “sempre più l’esperienza ci conferma che i moti pulsionali di cui riusciamo a seguire le tracce sono manifestazioni derivanti da Eros (…)…dobbiamo attenerci all’impressione che le pulsioni di morte siano per loro natura mute e che il frastuono della vita derivi da Eros” (Freud, 1923).
In conclusione di questo accidentato percorso, lo “scandaloso concetto” (Le Guen, 2008), oggi sembra essere meglio accettato: sembra che occorra riconoscere, come ha commentato Green nel dialogo con Urribarri, che “(…) nessuno vuol più sentir parlare di pulsione di morte, ma tutto ciò che viene proposto al suo posto rinvia comunque alla pulsione di morte. Qualunque sia la riformulazione proposta, volendo superare la posizione freudiana (…) il problema di fondo resta: esiste una distruttività (ammessa da tutti gli altri) che impedisce il lavoro analitico” (2013).
Bibliografia
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