S.DALI, 1945 Idillio Atomico e Uranico melanconico
Parole chiave: Metodo; Teoria; Tecnica; Esperienza; Psicoanalisi
Il metodo psicoanalitico e la complessità del suo costante rapporto con la teoria, la tecnica e l’“esperienza psichica”
Scrivere chiaramente a proposito del metodo psicoanalitico non è semplice sia per la difficoltà in sé del tema sia per il contesto storico psicoanalitico attuale (Semi, 2011). La chiarezza viene spesso accusata di settarismo o di dogmatismo. Perciò premetto di ritenere che ogni risultato della ricerca sull’attività psichica (umana e non solo) non sia solo rispettabile ma anche interrogativo nei riguardi di ogni altro risultato ottenuto da altre ricerche. Tuttavia, il fatto che sia interrogativo esclude la possibilità di sommare semplicemente risultati di ricerche differenti. Occorre chiedersi come sono stati ottenuti quei risultati e come e se siano compatibili con quelli di altre ricerche. La incompatibilità non costituisce un giudizio di valore ma la constatazione di un nostro limite attuale: non disponiamo di un qualcosa (una teoria, un metodo) che consenta di integrare risultati diversi ottenuti sulla base di metodi e teorie differenti. Si aggiunga che può accadere anche – accade spesso – che un particolare dato possa essere “spiegato” da differenti e relativamente incompatibili teorie. I fisici ne sanno qualcosa. Dunque, risultati della ricerca e teorie possono essere incompatibili rispetto ad altri risultati e altre teorie.
Può il metodo essere l’elemento unificante che consente o perlomeno chiede l’integrazione tra diverse teorie e dati emergenti dalla ricerca? La mia risposta è: no. Anzi: la conoscenza del metodo consente di differenziare tra risultati ottenuti coerentemente alle sue caratteristiche e risultati altrimenti ottenuti. Il metodo è una via generale finalizzata al conseguimento di un determinato scopo, una via con determinate caratteristiche. Chi segue un’altra via arriverà altrove o altrimenti. Il metodo psicoanalitico è una procedura generale secondo un ordine, finalizzata alla conoscenza dell’essere umano tramite l’analisi della sua attività psichica. Esso è basato su (a) la constatazione della incompletezza e lacunosità dei processi psichici coscienti, (b) la conseguente ricerca di fenomeni che colmino le lacune rilevabili, (c) l’uso del procedimento associativo. Si può dire che il metodo psicoanalitico tende a colmare la discrepanza tra la percezione dell’in-dividuo (una totalità) e la sua comprensione (sempre parziale) attraverso l’analisi della sua attività psichica.
Le attività pratiche finalizzate a consentire il raggiungimento degli scopi del metodo sono organizzate da regole tecniche. La tecnica dev’essere dunque coerente con il metodo e adeguata all’oggetto indagato. La distinzione del metodo come procedura generale e della tecnica come insieme di strumentario pratico adeguato alla situazione indagata è fondamentale e la confusione del metodo con la tecnica rende difficile o impossibile confrontare e discutere i risultati ottenuti con tecniche diverse. In questo senso mi sembra utile trasformare il triangolo classico composto da teoria, metodo e clinica in un tetraedro composto dai triangoli equilateri ai cui vertici stanno teoria metodo tecnica e esperienza. Segnalo che muto il vertice “clinica” in quello “esperienza” perché la pratica clinica può essere solo uno dei tipi di esperienza psichica che il metodo psicoanalitico consente e indaga. L’autoanalisi, con tutti i problemi e i limiti e i grattacapi che pone, è un altro tipo di esperienza psichica. L’analisi della cultura in cui viviamo può essere ancora un altro.
Il tetraedro è un poliedro convesso che ha per facce poligoni regolari congruenti (cioè sovrapponibili esattamente) e più esattamente triangoli equilateri. Basta niente, lo spostamento di un vertice, l’allungamento di uno spigolo, perché il tetraedro si disfi, non stia più in piedi, non abbia più senso. Però bisogna notare che si possono fare vari tetraedri, con dimensioni e “protagonisti” (per così dire) diversi, ad esempio tecniche diverse o esperienze diverse. Mi sembra che, in particolare, il fatto di aggiungere un vertice (e aprire ad uno spazio tridimensionale) denominato ‘tecnica’, apra alla rappresentazione della possibilità di una molteplicità. Pur che i rapporti tra i diversi vertici vengano mantenuti costanti. Non c’è maggior importanza della clinica rispetto alla teoria o della teoria rispetto al metodo o del metodo rispetto alla clinica. Né c’è maggior importanza della tecnica rispetto a ciascuno degli altri tre vertici. Si tratta di un insieme, dotato di proprie caratteristiche. È naturale che possano essere pensati insiemi diversi, costruendo altri vertici o tagliandone alcuni, ma perché chiamarli “psicoanalisi”? non sarebbe più logico che ogni differente insieme riconoscesse questa condizione di differenza attribuendosi innanzitutto un nome diverso? Se ciò non è stato sempre possibile, penso lo si debba ritenere conseguente alla imperiosa volontà di identificazione con l’ideale. Il che andrebbe sottoposto a psicoanalisi.
Osserviamo ora l’insieme dal punto di vista del metodo. Esso è conseguente alla constatazione che la coscienza non è solo insufficiente a comprendere e spiegare l’attività psichica (propria e altrui) e che esiste dunque un inconscio (Freud, 1915, p.50), nel quale vige poi un altro modo di pensare ma che gli stessi prodotti coscienti sono frutto dei modi di pensare inconsci.
Per poter osservare l’attività psichica in tutto il suo spessore occorre allora un metodo che consenta di disfare, spezzettare, analizzare il prodotto cosciente, appunto il metodo delle libere associazioni, che consiste nell’insieme di “regole che dobbiamo adoperare per osservare e comprendere le esperienze che facciamo in analisi” (Riolo, 2017, p.15, corsivo mio). Queste regole fondamentali (appunto) sono quelle delle libere associazioni e della de-costruzione o scomposizione del prodotto psichico e possono attuarsi – com’è del resto proprio di ogni scienza – solo in presenza dell’oggetto di indagine. Sul quale oggetto ci si deve intendere: si tratta dell’attività psichica come espressione di tutto l’individuo. Può essere anche l’attività psichica del solo analista – come esemplarmente ha mostrato e dichiarato Freud tramite l’ Interpretazione dei sogni – ma, anche in questo caso, essa implica tutto l’individuo (e conseguentemente la possibilità – disponibilità per esso di auto-ridursi in pezzetti, di analizzarsi, con un costo emotivo e ideativo non indifferente) ma più frequentemente si tratta dell’attività psichica di un altro (l’analizzando) anche se, in tal caso, bisogna parlare degli oggetti (plurale) d’indagine, nel senso che durante questa esperienza l’attività psichica dell’analista è altrettanto oggetto di indagine dell’attività psichica del paziente. Si tratta di un “procedimento per il quale non esiste, per la verità, una inclinazione naturale” (Freud, 1915, 53). Del resto, si può essere più radicali e affermare – come fa Freud – che la “convinzione che gli altri a noi più prossimi, gli uomini, abbiano una coscienza si fonda su un’illazione, e non può possedere la certezza immediata della nostra coscienza personale” (ibid., 52-53). Non resta, dunque, che indagare tramite il nostro oggetto d’indagine – che può darci una certezza immediata se riusciamo a analizzarlo – l’oggetto costituito dall’attività psichica altrui. Questo lavoro può essere fatto solo con l’aiuto della teoria e specificamente con la conoscenza-assimilazione delle regole del processo primario continuamente ri-scopribili in noi stessi. Se guardiamo al metodo come un vertice, poniamo, per chiarezza, quello apicale del poliedro nella figura, vediamo che esso è connesso direttamente su un triangolo con la tecnica e con la teoria, su un altro con la tecnica e l’esperienza, su un terzo con la teoria e l’esperienza e sull’ultimo, quello graficamente di base, non è immediatamente collegato ai tre vertici di esperienza, tecnica e teoria. È quest’ultimo il triangolo più rischioso, perché se la tecnica perdesse la sua connessione col metodo andremmo fatalmente verso una psicologia della coscienza, se la teoria perdesse la sua connessione col metodo rischierebbe di divenire una ideologia, e se l’esperienza perdesse il suo legame al metodo diverrebbe una relazione umana qualsiasi. È il rapporto costante – e difficile, certo – di questi tre vertici con il metodo che consente l’apertura dello spazio psicoanalitico.
Penso che questo rapporto vada continuamente ripensato e rivalutato in quanto le esperienze possono essere assai diverse. Non è lo stesso, ovviamente, avere presenti nello studio una persona, due o un gruppo: si compiono esperienze diverse che debbono potersi rapportare e confrontare con il metodo psicoanalitico, il che non è semplice e non è spesso effettuato. Un’altra esperienza può essere quella della psicoanalisi della cultura e, anche per essa, è necessaria la riflessione del rapporto tra l’esperienza della propria attività psichica in relazione a quell’oggetto e il metodo psicoanalitico. Le difficoltà incontrate e segnalate da Freud a proposito della elaborazione di Mosé e il monoteismo sono illuminanti al proposito.
A riguardare così il metodo psicoanalitico, esso può sembrare semplice. Ma c’è sempre il pericolo, di fronte ad una formula apparentemente semplice (pensiamo alla ormai classica E = mc2 ) di non poterne valutare lo spessore, ciò che dobbiamo riscoprire ogni giorno durante la nostra attività perché possa dirsi psicoanalitica.
Antonio Alberto Semi
Bibliografia
Freud S. (1915) L’inconscio. OSF, VIII.
Riolo F. (2017) Il metodo psicoanalitico. Notes per la psicoanalisi,9, 11-26.
Semi A.A. (2011) Il metodo delle libere associazioni. Milano, Raffaello Cortina Editore.
CVP – 10 Lezioni sul Metodo Psicoanalitico. Zoom dall’ 8/10/2021 al 9/6/2023